Necessità dell’unità ecclesiale e oscurità della categoria di “atto invalido”
La recente Nota del Dicastero della Fede “Gestis verbisque” che dichiara nulla la celebrazione dei Sacramenti con “gravi modifiche apportate alla materia o alla forma” ripropone l’annosa questione degli atti “nulli” nel sistema canonico e ricolloca tutti gli atti liturgici sotto l’ombra oscura della sola precomprensione giuridica della vita di fede.
Umberto Rosario Del Giudice
La recente Nota del Dicastero della Fede “Gestis verbisque”
ha bisogno di una lettura attenta e chiara: essa, infatti, se considerata in
modo unilaterale rischia di confondere concetti e contesti più di quanto sia
necessario e doveroso.
Rimandando ad altre reazioni (quella di Andrea
Grillo e di Stefano
Sodaro), propongo una rilettura del Documento, la ripresa di alcuni
concetti e possibili risvolti.
Finalità della “Gestis
verbisque”
Le finalità della Nota sono dichiarate fin dalla sua
premessa a firma del Prefetto Víctor Manuel Fernández per il quale è necessario
evidenziare la “priorità dell’agire di Dio” e la “salvaguardia dell’unità della
Chiesa” (cfr. Premessa e Nota, n. 18).
Queste finalità non vanno tralasciate per ben considerare la
portata del Documento: esse rimangono la precomprensione remota e prossima
della Nota e rimandano alla preoccupazione già manifestata da alcuni
membri del Dicastero nella plenaria del gennaio 2022.
Il Dicastero, dunque, doveva offrire una risposta ma lo ha
fatto con una (moderna) precomprensione amministrativistica dei sacramenti che lascia
perplessi e pone numerosi problemi: davvero l’esperienza e la vita di ministri
ordinati non conta nulla dopo aver scoperto che la formula con la quale furono
battezzati non era lecita e non corrispondeva alla formula stabilita? Davvero è
necessario “ripetere” i sacramenti fin a quel momento celebrati (battesimo,
cresima, eucaristia, ordinazione ministeriale)?
Questi interrogativi al canonista e al liturgista che
considerano la validità del sacramento nell’ambito dell’atto giuridico
sembreranno superflui.
Al contrario, essi sono radicali poiché chiedono di donare
al pensiero ciò che gli occhi vedono e le vite vivono: percorsi e vissuti di
fede nella sequela di Cristo.
Alcuni concetti chiave
La Nota rimane una risposta a livello amministrativo
che preoccupa il liturgista e che non può soddisfare, e non soddisfa, il
canonista accorto.
Dal punto di vista canonistico, infatti, la Nota
rimanda a concetti quali validità e invalidità, lecito e illecito,
e legittimo (citato solo tre volte e sempre in positivo: “legittime
diversità”, “legittimi adattamenti”, “legittimo progresso”).
Sono concetti, come ricorderà ogni canonista, che non trovano linearità di
dottrina civilistica e che, nel Diritto canonico, sono stati assunti in modo
piuttosto netto e senza molte distinzioni: in genere, è valido l’atto giuridico
che ha in sé ogni elemento essenziale richiesto dal diritto stesso.
Dal punto di vista liturgico e sacramentario, l’approccio amministrativista,
pone preoccupazione e perplessità poiché riduce ad “atto giuridico” tanto l’azione
rituale quanto l’esperienza di fede: una riduzione “insopportabile” se si tiene
conto che, come la stessa Nota riporta, alcuni sacerdoti, uomini dunque
con esperienza di fede e immersi nel ministero e nella missione ecclesiale,
hanno dovuto constatare che, essendo il loro battesimo “nullo” perché celebrato
con una forma non lecita, la loro esperienza di vita ecclesiale “mancava” del
“fondamento del battesimo” e si sono dovuti sottoporre alla ripetizione di
tutti gli atti sacramentali (dal battesimo all’ordinazione).
In altre parole, le loro esperienze di fede, la loro sequela
di Cristo sono state ritenute “inesistenti” a partire dalla formula usata per
il loro battesimo.
L’oscurità della “validità” e la chiarezza del vissuto di fede
I canonisti, e ancor di più i civilisti, conoscono l’inafferrabilità
dei contorni del concetto di validità.
Già al tempo del Codice napoleonico tanto i francesi quanto
i tedeschi elaborarono articolate dottrine sulla distinzione formale tra
nullità e annullabilità proponendo al contempo i caratteri del concetto di
validità.
Dal punto di vista formale e giuridico qui rivela il fatto che
“valido”, riferito ad un atto giuridico, sta per “esistente”. In altre parole, per
i giuristi del XIX secolo era importante chiarire e identificare gli elementi
essenziali che ponessero in essere l’atto giuridico.
Va anche ricordato che una certa forma di riflessione sulla
validità degli atti la si ritrova anche nel periodo medievale in diretta
consonanza con i dettami del diritto romano. Tuttavia, mentre il diritto romano
non offre chiarimenti circa la differenza tra vari livelli (nullus, non
ullus, inutilis, effectum non habet, pro non facto, non
valet, ecc.), il diritto medievale si preoccupa anzitutto di conservare l’autonomia
giuridica in capo ad una potestà nell’ambito di un diritto comune (proprio
dell’epoca medievale) con il quale si potesse riconoscere tanto l’atto
giuridico quanto la potestà che lo pone in essere. Per questi motivi la
riflessione medievale parla di validità di un atto giuridico ma sempre in
riferimento a una potestà che pone gli elementi dello stesso.
I giuristi moderni, in particolare i civilisti –francesi prima
e tedeschi e italiani poi–, hanno dovuto porre la questione delle tipologie di
validità, di invalidità, di nullità, di annullabilità, soprattutto in relazione
a ciò che non era previsto nei Codici. La questione, infatti, era se applicare
la categoria di “nullo” a ciò che nel Codice non era previsto (seguendo il
principio di pas de nullité sans texte): si risolse dichiarando
“inesistente” ciò che veniva posto al di là degli elementi essenziali posti
dalla norma (e quindi dal legislatore).
Un procedimento di giusnaturalismo concettuale che è oggi
presente nel Codice di Diritto canonico quando ricorda che «per la validità
dell’atto giuridico, si richiede che sia posto da una persona abile, e che in
esso ci sia ciò che costituisce essenzialmente l’atto stesso, come pure le
formalità e i requisiti imposti dal diritto per la validità dell’atto» (CIC,
can. 124, § 1). In questo modo si legano gli atti giuridici e sacramentali ad
una condizione antecedente alla scelta della stessa istituzione che qualifica
gli atti giuridici, spesso rifugiandosi in un indeterminato “ius divinum”
o ad una non verificabile (dal punto di vista formale) “ex institutione
divina”.
Non si mette in dubbio che può essere utile ricorrere alla
dottrina civilistica e giusnaturalistica per riconoscere o meno la validità di
un atto giuridico per sostanziare l’unità ecclesiale; ma, ed è la vera
preoccupazione, ridurre l’azione sacramentale o liturgica ad atto
amministrativo o giuridico è una pericolosa e indebita operazione che lega addirittura
l’ex opera operato (e quindi il primato di Dio) ad una categoria
amministrativistica di dottrina giusnaturalista che non lascia alcuno spazio a
quel primato di Dio che invece vorrebbe conservare.
In questo senso si noti come per giustificare la dottrina
della “validità” la Nota richiami quella della “potestà” evidenziando la
natura tutta giuridica e amministrativistica dell’impostazione, che perde il
“primato di Dio” e della “grazia”. Se un battesimo era nullo significa che era
senza grazia? E com’è stato possibile che un non mosso dallo Spirito sia poi
addirittura approdato alla formazione in vista dell’ordinazione, abbia pregato,
si sia preparato, abbia ricevuto in altra azione liturgica il mandato di un’ordinazione
sacerdotale e che poi tutto venga cancellato dalla dichiarazione di una “non
esistenza” di un atto liturgico come quello del battesimo amministratogli in
tenera età con formula “modificata” o “non stabilita dai riti”?
Davvero l’atto giuridico e liturgico di cui si presume la nullità
secondo gli elementi posti dal legislatore rivela la inutilità di ogni forma
rituale e dell’agire di Dio? Non dovrebbe il legislatore (secondo l’unica
definizione indiretta di “validità” posta nella Nota) “trasmettere con
fedeltà ciò che si è ricevuto”? E “trasmettere con fedeltà” riguarda solo la
forma a cui i ministri devono attenersi nell’amministrazione dei sacramenti o
non anche il riconoscimento del “primato di Dio” oltre gli elementi essenziali
posti da un sistema giuridico-codiciale?
È evidente che il “primato” qui non è “di Dio” ma della
dottrina giusnaturalista preposta all’atto giuridico.
Se un “evidente danno dei fedeli” c’è, è quello di ridurre
l’atto liturgico a solo atto giuridico e amministrativo, e, nel contempo, legare
il primato di Dio e della grazia ad un concetto giuridico.
Sebbene dunque per la “unità della Chiesa” è doveroso
ricordare le “formule” cui attenersi, è altrettanto vero e necessario elaborare
nuove categorie e nuovi approcci al diritto sacramentale e al diritto liturgico
per non ridurre “l’essenziale” alla “forma prevista” e il “primato di Dio” a
“elementi giuridico-amministrativi”.
Ragionevole valutazione?
Il Verwaltungsverfahrensgesetz (il Codice di procedura
amministrativa tedesco) offre una comune definizione di atto amministrativo nullo
che si concretizza se l’errore grave risulta evidente da una ragionevole
valutazione di tutte le circostanze rilevanti (Würdigung aller in
Betracht kommenden Umstände offensichtlich).
È ragionevole rimandare a un concetto giuridico oscuro o
almeno relativo ad un sistema dottrinale amministrativistico come è il concetto
di validità per valutare vissuti e cammini di fede che, al contrario, sono
posti sotto gli occhi di chi li conosce? Non era meglio rimandare a commissioni
apposite o al discernimento del Vescovo per valutare caso per caso e ragionevolmente e tenendo conto di tutte le circostanze rispetto a ciò che è antecedente, concomitante e susseguente
la celebrazione di quei sacramenti posti con una “formula modificata” ma da
cui, magari, sono scaturite vite autentiche di sequela?
Una valutazione era opportuna, per la coscienza dei singoli e per l’unità della Chiesa ma l’inopportunità della Nota si sostanzia nel voler drasticamente sottoporre i riti e i vissuti ad una valutazione sommaria ed amministrativistica che, in modo oscuro, definisce “inesistente” ciò che, palesemente, “esiste”.
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