Consacrazione, ordinazione o istituzione? Il sacramento dell’ordine tra giurisdizione e ministerialità
La
riflessione circa la possibilità di una “potestà” dei “laici” passa anche per
una ricostruzione storica dell’esercizio della potestà e della ordinazione
sacerdotale (ed episcopale). Rimane però una possibilità “laica” ma che
continua ad escludere la “donna” da qualsiasi grado dell’ordine sacro.
Umberto Rosario Del Giudice
Il Report
del Gruppo 5 (circa Alcune questioni
teologiche e canonistiche intorno a specifiche forme ministeriali) che
proporrebbe una diversa forma di “potestà” per le donne senza però aprire alla
loro possibile ordinazione neanche nell’ordine del diaconato appare molto limitato.
Come ha
evidenziato Andrea Grillo qui, il Concilio Vaticano II ha segnato il passaggio,
sottolineato chiaramente dalla riflessione di Lafont, dalla compressione della
sola competenza giuridica del vescovo all’episcopato come “pienezza” del
sacramento dell’ordine.
Il passaggio
può anche chiedere ulteriori specificazioni o applicazioni.
Tuttavia,
anche una forma di cooperazione alla potestà anche se istituzionalizzata (di
per sé aperta a tutti i laici) non risolve la questione fondamentale: perché la
donna rimane fuori da “ogni” ordinazione.
Dalla competenza alla pienezza
La potestà
di giurisdizione dei vescovi non è scissa dalla pienezza del sacramento. Questo
il cambio di modello del Concilio Vaticano II.
Questo
passaggio ha voluto evidenziare alcuni aspetti sacramentali. D’altra parte, si
deve soprattutto al pensiero di vari movimenti precedenti al Concilio Vaticano
II (e a Klaus Mörsdorf che ha promosso studi teologici su questioni canonistiche
in stretto rapporto con l’ecclesiologia), l’aver elaborato una “potestà”
direttamente connessa con la “sacramentaria” e con i “sacramenti” (in modo
particolare con l’eucaristia). Da qui, la comprensione dell’episcopato come
“pienezza”.
Si trattò di
un recupero e di un approfondimento dell’ordine (attraverso l’elaborazione dei tria munera pienamente legati al terzo
grado dell’ordine sacro, l’episcopato). Se di recupero si può parlare è perché
nell’antichità i vescovi in primis guidavano le comunità cristiane (coadiuvati dai diaconi): solo
successivamente furono aiutati dai presbiteri.
Il vero
passaggio critico ci fu nel medioevo allorché ai vescovi era riconosciuta la
giurisdizione sui territori e, connessi a questi, la ordinazione dei presbiteri
(di solito canonici regolari) che si occupavano di una o più comunità o pievi.
Ben presto
si andò concretizzando un “ufficio retribuito” connesso alla guida di ogni
comunità: da qui la possibilità di presentare l’ordinando al vescovo, il quale
avrebbe proceduto alla “istituzione” attraverso la “ordinazione” del chierico.
Se i
presbiteri erano pensati come “legati” ad un “ufficio” parrocchiale o di
“cappellanìa” i vescovi erano pensati solo come coloro che avevano
“giurisdizione” su un territorio e su persone.
Accadeva
che, per eredità familiare, sia i presbiteri che i vescovi adottavano i
titoli o promuovevano ai titoli di “famiglia” o di “discendenza”. Così si poteva essere “vescovi” a 10
anni e presbiteri solo perché presentati ai vescovi dal signorotto di turno al quale
urgeva la “messa” per la propria famiglia o per i propri sudditi. Il novello presbitero doveva avere competenze specifiche amministrative e possibilità di esercitarle (ovvero con
atti – non solo liturgici – pubblicamente riconosciuti).
Ma non va
dimenticato che quelli che oggi sono giustamente considerati due gradi di un
unico ordine (sacro), episcopato e presbiterato, sono stati a lungo divisi
proprio dalla “consacrazione” dei primi e dalla “ordinazione” dei secondi.
Ragion per cui si arrivò al Concilio di Trento pensando all’episcopato con
maggiori poteri. In quel Concilio, e non senza problemi, venne anche restituita
più autorità ai vescovi: in molte diocesi, infatti, il protrarsi di privilegi e
la possibilità della rinuncia del beneficio ecclesiastico (che nella pratica
permetteva al singolo sacerdote di “scegliere” il proprio successore facendo
nascere una sorta di compravendita del beneficio ecclesiastico o ereditarietà dello stesso) limitavano i
poteri del vescovo.
Era questa
la preoccupazione di Trento (oltre quella di rivalutare il sacerdozio contro i
Riformati). Ragion per cui la “consacrazione” dei vescovi andava sempre più
somigliando al controllo giurisdizionale sui presbiteri; quest’ultimi, legati
al beneficio ecclesiastico particolare, erano “ordinati” sotto la potestà (giurisdizionale) del
vescovo.
Va
sottolineato che precedentemente, e già dal X secolo, si andò rafforzando
l’idea di “ordinazione assoluta”, ovvero un’ordinazione presbiterale al di là
della giurisdizione del vescovo. Questo ad opera dei monaci missionari
irlandesi che migrando verso l’Europa centrale portarono la loro impostazione
sui sacramenti e sulla visione dell’ordine.
Da questo
quadro ne risulta però che in alcuni territori o luoghi la “giurisdizione” era
legata più alla competenza esercitata per privilegio o per consuetudine. Così
in molti casi Abbadesse o laici esercitavano una potestà diretta sui propri
sudditi anche in riferimento alle questioni canonico-ecclesiastiche.
Praticamente la competenza “amministrativa” (e quindi la piena potestà) non era
legata all’ordine sacro ma al titolo e al territorio.
Istituire ma non ordinare o consacrare? come voltare le spalle a una questione sistematica
Il Concilio
Vaticano II mette fine al beneficio ecclesiastico e ripensa l’episcopato come
pienezza di esercizio della potestà sacerdotale.
Qualche
confusione tra “ordinazione” (per presbiteri) e “consacrazione” (per vescovi)
permaneva ancora anche dopo la pubblicazione del CIC del 1983. Tanto è vero che
fu necessaria una chiarificazione già nel 1983 (a CIC pubblicato) per chiarire
che non vi era differenza tra “ordinare” e “consacrare” («sive ordinare, sive consecrare, sub diverso tanem respectu […]
applicatur diaconis, presbyteris et episcopis…». Communicationes 1983).
In questo
quadro, il rimando ai presupposti di Querida
Amazonia dove si afferma al n 103 (numero citato dallo stesso Grillo) che le donne che assumono «servizi [che] comportano una
stabilità, un riconoscimento pubblico e il mandato da parte del Vescovo» fanno
pensare ad una sorta di “istituzione” parallela che non andrebbe confusa con
alcuna “ordinazione” o “consacrazione” ma che apparirebbe utile per una
“cooperazione” alle competenze dei vescovi e dei presbiteri.
Ora, se è
vero che «il modello del Vaticano II non si riesce a gestire bene, se si
reintroduce la distinzione tra “ordine” e “giurisdizione”, proprio per il fatto
che si tratta di un modo diverso di pensare la autorità» (A. Grillo) è pur vero
che una sua possibile attuazione riguarderebbe per forza di cosa “i laici” e
non “le donne”.
In altre
parole, la reintroduzione (possibile) di una cooperazione alla potestà di
governo istituzionalizzata (e che in altri ambiti già esiste – un possibile
esempio è la costituzione del giudice ecclesiastico unico e laico) e che in
alcuni casi sarebbe addirittura auspicabile e necessariamente da attuare quanto
prima (le Abbadesse, anche se presidenti di Federazioni monastiche, non possono
molto senza l’Ordinario religioso presbitero…), si manifesta solo come una
soluzione di ripiego rispetto alla possibile introduzione delle donne nella
logica della ministerialità ordinata.
L’istituzione, dunque, già propria della tradizione ecclesiale, non apre ad alcuna “ordinazione” né ad una “consacrazione”: non apre possibilità e riflessione sistematica.
Per questo,
se da una parte la cooperazione dei laici (e non solo delle donne) alla potestà
di governo potrebbe avere una “istituzionalizzazione”, dall’altra, ovvero per
la riflessione sistematica dell’accesso delle donne al ministero, appare solo
come scorciatoia (falsa) che potrà essere percorsa solo da chi ha le gambe
corte (come le bugie).
Ripensare l’accesso delle donne al ministero ordinato (anche se solo nel grado del diaconato) non può passare da una “istituzionalizzazione della cooperazione” che appare come una strada percorribile per tutti i laici ma che lascia le donne sistematicamente fuori da qualsiasi “ordinazione” e da qualsiasi “autorità”.
Dunque, sul
tema della “inclusione” delle donne alla piena partecipazione alla potestà
nessuna risposta “istituzionale” convincente. Quasi si volta le spalle al problema sistematico: le donne sono fuori anche se
“istituzionalizzate” nei loro compiti.
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