Sinodo finito. Sinodo iniziato?
Il Documento
finale del Sinodo dei Vescovi appare come il risultato di una grande rilettura
del Concilio Vaticano che però ha messo in luce ancora un limite di alcune
impostazioni: dalla Chiesa sinodale con caratteristiche amministrativistiche alla
Chiesa amministrativistica e giuspositivistica con profili sinodali. Quale strada
percorrere?
Umberto Rosario Del Giudice
Propongo un breve
commento sul Documento Finale del Sinodo dei Vescovi e sui relativi “Risultati
delle Votazioni” che appaiono molto indicativi.
Vorrei
premettere innanzitutto che chi scrive conosce alcuni padri e alcune madri
sinodali ed è rispettoso dell’immenso lavoro che i sinodali hanno compiuto
nella stesura del documento in un’aula sinodale a dir poco eterogena, e
immagina lo sforzo compiuto per raggiungere il consenso su varie questioni.
Tuttavia, il
Documento sarà oggetto di prassi ecclesiale e di studio e quindi le reazioni
non si possono mettere a tacere col solo argomento della complessità dei lavori
sinodali.
Ribadire l’impostazione del Concilio Vaticano II
Un primo
dato è evidente: è stato necessario ribadire molti argomenti che si credevano
assunti nelle pratiche ecclesiali a partire dall’approccio del Concilio
Vaticano II. Questo dice che la stessa assise conciliare non è stata recepita
allo stesso modo e che molte resistenze sono dovute anche al mancato coraggio
post-conciliare di affrontare con parresia molti argomenti.
Ma ad una
Chiesa che ha duemila anni, è concesso mezzo secolo per metabolizzare la sua
nuova autodeterminazione, purché non passino altri cinquant’anni… Con buona
pace del Cardinal Martini che conteggiava il ritardo della Chiesa sui due
secoli…
Certo è che
“l’insegnamento del Concilio andrà ulteriormente approfondito” (n. 73) e non
solo in riferimento al diaconato.
Rimandi e approfondimenti
Che la
recezione del Concilio sia ancora da compiere lo dice anche il fatto che su
molte questioni si rimanda ad un approfondimento che in realtà hanno già visto
pastori e teologi diffusamente impegnati a proporre e valorizzare vari aspetti.
Valutazione e trasparenza nella missione, ministerialità ecclesiale, centralità
dei battezzati, parrocchie come comunità non territoriali…
Non mancano
richieste di prassi da consolidare (e che in realtà sono attuate in poche ma
significative realtà) come, ad esempio, il richiamo del n. 78 con cui si chiede
un approfondimento del ministero dell’ascolto e dell’accompagnamento. Si chiede
alle varie istituzioni teologiche (n. 67) di “proseguire la ricerca volta a
chiarire e approfondire il significato della sinodalità e accompagnare la
formazione nelle Chiese locali” (eppure molto sul tema si discute e si
pubblica…).
Sorprende il
n. 132 nel quale addirittura è richiamata la necessità di un approfondimento di
ciò che aiuta o è di ostacolo alle relazioni tra le Chiese Orientali Cattoliche
e la Curia Romana; mai si sarebbe immaginato che, dopo la pubblicazione del
Codice dei Canoni delle Chiese Orientali e le prassi volte all’unità nella
differenza, ci fosse stato bisogno di ribadire le giuste relazioni. Evidentemente
la centralizzazione curiale romana ha fatto esplodere gli auspici del secolo
scorso.
Come si vede
i temi sono molteplici.
Vorrei qui
richiamare però il caso del n. 27 in cui si rimanda ad approfondire il “legame
tra liturgia e sinodalità” attraverso addirittura “l’istituzione di uno
specifico Gruppo di Studio”. I liturgisti del primo, del secondo e,
soprattutto, del terzo movimento liturgico, ringraziano stupiti e forse anche
avviliti. È evidente che questa richiesta del Sinodo va compresa e approfondita
più della necessità del Gruppo di Studio stesso. Si noti che il n. 27 del
Documento, che contiene questa richiesta, non è stato votato da ben 43
sinodali, risultando così il terzo numero con più “no” (dopo il 60 e il 125).
Forse che solo a 43 sinodali la richiesta appare stravagante? Forse solo 43 su
355 hanno competenze liturgiche? o volevano addirittura qualcosa in più o di
più articolato? Non è dato saperlo. Tuttavia, è possibile che la richiesta sia
apparsa quantomeno eccentrica, come apparirà strana ai liturgisti.
Chiesa sinodale o Amministrazione ecclesiale?
Al n. 36 è scritto che «è emersa l’aspirazione ad ampliare le possibilità di partecipazione e di esercizio della corresponsabilità differenziata di tutti i Battezzati, uomini e donne».
Il tema è in
parte ripreso appresso e compare con le sue criticità al n. 60 che è stato
votato da 258 membri ricevendo 97 voti sfavorevoli (risultando il numero meno
votato). Certo è che i 97 “no” restituirebbero la realtà del fronte dell'opposizione
conservatrice.
Sembra che le
frasi discriminanti siano le seguenti:
«Non ci sono
ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non
si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione
dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta».
Su questo
tema però se ne apre un altro.
Come fare in
modo che le donne assumano ruoli di guida senza l’accesso al ministero
ordinato?
In altre
parole, come pensare la divisione e la distinzione tra potestas e munus
santificandi?
Le soluzioni
potrebbero essere due.
1.
Aprire
alla sola “cooperazione” delle donne alla potestà di giurisdizione. Si badi
però che questo escamotage non riguarda le sole donne ma tutti i laici ed è attualmente
possibile (ex can. 129 §2).
2.
Distinguere
potestà di ordine da potestà di giurisdizione e affidare
quest’ultima, senza la prima, anche alle donne (si noti che si parla di donne e
non di laici il che di per sé è già una forte ambiguità; come se nella chiesa
solo per le donne e non anche per gli uomini non chierici ci sia bisogno di aprire
all’accesso alla potestas iurisdictionis).
Va qui però ricordato
che l'introduzione della nozione di sacra potestas in senso unitario
arriva solo nel XX secolo in ambito cattolico. La dottrina scolastica divideva
il potere canonico del vescovo in potestà di ordine (che il vescovo
riceve con la consacrazione) e potestà giurisdizionale (che il vescovo
riceve dal Papa con la missio). A questa dottrina scolastica è stata
opposta la dottrina dei tria munera (mutuata dalla teologia cattolica attraverso
la precedente elaborazione di Calvino).
La dottrina
scolastica insiste sui due poteri; la seconda, insiste sulla differenza
di funzione e scopo delle varie potestas ma con un’unica origine, quella
del ministero ordinato, di cui il grado dell’episcopato è la pienezza.
In realtà il
Concilio Vaticano II non derime la questione circa la relazione tra doppia potestas
e tria munera, né lo fa il magistero pontificio successivo. E qui che si
giocano alcune ambiguità che certamente chiedono ancora chiarezza.
A questo
punto bisogna prendere coscienza di due evidenze:
1.
se
lo stesso Concilio Vaticano II si limita a parlare del triplex munus Christi
o della sacra potestas senza precisare la relazione e la distinzione teologica,
la questione non può essere risolta dal Sinodo;
2.
la
possibilità di assumere il modello della dottrina scolastica circa la
distinzione tra potestà di ordine e potestà giurisdizionale non
risolve affatto la questione teologica del possibile accesso alle donne al
ministero ordinato.
Quest’ultima
soluzione, dunque, appare una scorciatoia poco fruttuosa.
Se ai
sinodali questa sarà apparsa come una soluzione possibile, dal punto di vista
tecnico appare una soluzione “amministrativistica” dell’uso della potestas
nella Chiesa e che fa un passo indietro decisivo verso il paradigma dello ius
publicum ecclesiasticum. La soluzione “amministrativistica” però non risolve
affatto l’esclusione attuale delle donne dal ministero ordinato ricorrendo ad
una dottrina scolastica non chiara e ad un modello istituzionale ecclesiologico
certamente non sinodale.
Su questi
aspetti, teologia e canonistica avranno ancora da fare.
Conclusioni
La soluzione
“scolastica” di alcuni canonisti che divide potestà di ordine e potestà giurisdizionale
per favorire l’assunzione di ruoli di guida nella Chiesa alle donne (o ai laici
in genere) appare il tentativo di evitare il problema dell’accesso delle donne
al ministero e non tiene conto che in dottrina tale relazione non è del tutto
coerente con gli assetti conciliari.
È una
soluzione possibile (purtroppo) ma relativa ad una immagine di Chiesa che si
pensa come una grande “amministrazione pubblica ecclesiale” sulla scia della
dottrina dello ius publicum che pensa la Chiesa come una societas
iuridice perfecta. In questo caso però, come sempre accade nelle “società
perfette”, ci si espone a nette distinzioni di natura amministrativistiche (utili
e necessarie ad una corretta amministrazione senza anima come quella di uno
Stato) e a disuguaglianze.
Certo è che
soluzioni per tutti i laici si possono adottare, ma sempre in relazione ad una
cooperazione alla potestas senza né concorrenza né pienezza alla stessa (secondo
la dottrina dei tria munera conciliare).
Appare a
questo punto motivato un interrogativo che sorge spontaneo. Ci troviamo davanti
ad una Chiesa sinodale con caratteristiche amministrativistiche o
davanti ad una Chiesa amministrativistica con caratteristiche sinodali di
secondo livello?
La questione
appare ecclesiologica e chiede una risposta alla luce delle indicazioni del
Concilio Vaticano II e dei magisteri pontifici antecedenti, concomitanti e
successivi, nonché alla luce di alcune aspirazioni sinodali (che in questo modo,
però, apparirebbero troppo deboli).
Sicuramente
non è un percorso utile a cogliere gli impedimenti di fondo dell’accesso delle
donne al ministero ordinato (anche se solo nel diaconato).
Dunque, il
cammino insieme (il sinodo) è appena iniziato per entrambe le questioni: e si
ricomincia daccapo.
Ma incamminarsi
insieme con modelli amministrativistici non appare certo una buona soluzione.
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