Sulle parole dei “Don Andrea” e l’ingenuità ideologica dei “paragoni”

 



Il paragone iniquo, inerte, ingenuo e inconsistente tra peccati (“aborto” e “pedofilia”), la loro “gerarchizzazione” e la citazione della “sottomissione delle donne” sono la manifestazione della frustrazione ideologica e della incapacità pastorale di qualche ministro, da non confondere con un cattolicesimo non “de-mente” e non “anti-patico”.

 

Umberto Rosario Del Giudice

 

Un servizio giornalistico che diventa servizio alla Chiesa

Ieri sera, nella puntata del 10 novembre, tra i vari servizi sempre molto interessanti de “Le Iene” (come non ringraziarli per il servizio su “Max il pescatore”, giovane malato di Parkinson, esempio di fortezza pur se messa a dura prova dalle circostanze della vita!), uno dei servizi (Aborto più grave della pedofilia? Abbiamo parlato con don Andrea) ha riportato all’attenzione degli spettatori una notizia confermando ancora una volta che il presbiterio cattolico è attraversato, in alcuni casi, da comete senza orbita di “analfabetismo teologico” e di “idealismo moralistico”, nonché di “infantilismo frustrato”.

In questo caso sono messe a nudo le debolezze di alcune mentalità infantili, ideologiche, riduttivistiche: così i servizi giornalistici diventano un servizio utile alla vita e alla trasparenza della comunità cattolica tutta.

Il fatto è accaduto durante l’omelia della celebrazione eucaristica del 27 ottobre e sarebbe diventato subito un caso riportato da vari notiziari[1] e ha assunto una risonanza notevole tanto che lo stesso vescovo di Macerata, ordinario della Diocesi in cui è incardinato don Andrea Leonesi, ha voluto precisare, a suo modo, le parole del presbitero (che è anche il suo Vicario generale)[2] attraverso una Nota aperta[3].

Assumendomi ogni responsabilità, queste affermazioni le scrivo e le ribadisco, oltre che da fedele, da teologo e da canonista. E mi spiego.

Vorrei approfittare di questa occasione per ribadire alcuni concetti chiave del cattolicesimo: se, infatti, ci sono episodi, che per la loro gravità, balzano alla ribalta delle cronache, è anche vero che il cattolicesimo riesce ad esprimere ben altra tradizione e altre competenze di vicinanza, di magnanimità, di attenzione alla persona e lo fa non solo attraverso quei fedeli (ordinati e non) che esprimono una spiritualità incarnata ed empatica, ma anche coi suoi stessi princìpi, sanciti nella carne delle sue Costituzioni (penso al Concilio Vaticano II) e nel Diritto canonico.

In questo senso vorrei qui presentare delle considerazioni su alcuni punti desunti dalle affermazioni e dagli atteggiamenti di don Andrea che qui riassumo in questo modo:

1.      Il peccato di aborto è più grave di quello della pedofilia;

2.      La donna, anche se sottoposta a violenza, deve sottomettersi al marito e restare sottomessa.

 

Due affermazioni molto gravi e contrarie al buon senso (cattolico e non solo).

Beninteso, don Andrea forse non sarà l’unico a pensarla in un certo modo, ma sicuramente non è rappresentativo né di tutti i fedeli cattolici, né di tutti i ministri ordinati (ai quali va ogni riconoscenza per la dedizione con la quale lavorano in un contesto religioso molto complesso), tantomeno della dottrina cattolica. Né l’intenzione qui è quella di presentare un rimprovero contro i modi o i pensieri di un ministro cattolico. Le parole di don Andrea diventano paradigmatiche di un modo di pensare e di sentire che, presso alcuni ministri cattolici e non solo, sta diventando comune: ed è contro questo modo di pensare che bisogna reagire. Il problema non è tanto “il don Andrea” ma “i don Andrea”, ovvero l’impossibilità di alcuni cattolici di non cogliere la differenza che c’è tra dottrina e persone, tra princìpi e vissuti, facendo non solo confusione tra i primi e gli altri ma proponendo, in modo ingenuo, inerte e improvvido, una “gerarchia di verità” e di “peccati”. Una mentalità pericolosa e dannosa per la quale il cattolicesimo già ha pagato e sta continuando a pagare lo scotto.

 

Del “confronto”: la de-menza che “misura i peccati”

Nel caso concreto, Don Andrea lascia intendere esplicitamente che il “peccato di aborto” sarebbe più grave di quello di “pedofilia”. Al di là della complessa questione sulla “moralità dell’interruzione volontaria di gravidanza”[4] il vero errore “dei Don Andrea” sta nel ridursi a gestire le questioni con il mezzo del “confronto”. Mettere sul piatto della bilancia due realtà, quella dell’aborto e quella della pedofilia, è davvero “abominevole” e non solo perché hanno due pesi/vissuti diversi ma perché dice tutta l’incapacità di vedere e di intercettare il vissuto delle persone più che i sistemi dottrinali e le ideologie: se cogliere i vissuti delle persone è cattolico, misurare le stesse persone col metro delle idee, non lo è mai stato[5].

Come giustamente afferma Nina Palmieri in coda al servizio (durante la telefonata al Don che è insieme l’ultimo tentativo di contatto e la conclusione del pezzo), bisogna, dal punto di vista giuridico e civile distinguere due livelli: una cosa è il concetto di “reato”, è un’altra è quello di “peccato”. Va evidentemente preso atto che le due realtà sono approcciate attualmente in modo differente dalla normativa canonica e da quella civile (relativamente all’Italia): quello dell’aborto rimane, nel Diritto canonico, un “peccato” che comporta la “censura latæ sententiæ” (cfr. can. 1398) è, secondo quanto afferma il Concilio Vaticano II, un “delitto abominevole” insieme all’infanticidio (cfr. GS, 51)[6]; quello della pedofilia è un abuso gravissimo su minore e di cui la Chiesa solo ora sta davvero e faticosamente prendendo coscienza[7]: infatti, nonostante i tentativi di Paul Winninger, teologo francese, l’argomento è stato considerato un vero tabù anche per l’assise conciliare.

Nella codificazione italiana, l’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto sancito dalla Lg 194/1978, mentre l’abuso sessuale ai danni di minore è un reato ai sensi dell’art. 609-quater del Codice di diritto penale punibile dai tre ai dieci anni (dipende dai casi).

Ora, se il piano giuridico è completamente diverso (quello canonico e quello civile), e se dal punto di vista canonico è pur vero che

a.       nel dettato canonico l’aborto è associato sempre all’omicidio volontario (cfr. can. 1041 n. 4; can. 1046; can. 1049 - § 2, come avviene in GS che associa aborto e infanticidio),

b.      la facoltà di assolvere dalla censura derivante dal “peccato di aborto” è (ormai) concessa a tutti i confessori[8],

c.       se è vero che la Chiesa cattolica sta agendo in modo deciso contro gli atti di pedofilia commessi dal clero (le linee guida delle varie Conferenze episcopali[9] e il dossier McCarrick sono un esempio di determinazione accresciuta negli ultimi anni)[10],

è pur vero che un paragone tra le due realtà (quella dell’interruzione volontaria di gravidanza e quella dell’abuso su minore –ma direi qualsiasi violenza sessuale–) è un confronto puramente ideologico e fuorviante per almeno due motivi:

a.       sottolineare le differenze tra due realtà che sono considerate diverse già in ordinamenti diversi è pura inerzia;

b.      e, soprattutto, porre sul piatto della “moralità” due realtà per commisurarne le differenze è pura operazione ideologica e puerile nonché dannosa per la stessa valutazione morale e cattolica.

Dunque, se da una parte non vanno confusi i due livelli (civile e canonico), dall’altra è iniquo porre un confronto del genere anche solo per la stessa valutazione cattolica delle due azioni. La valutazione morale è operazione complessa e non può essere affrontata con la bilancia in mano. Non si può valutare da “bambini” che hanno bisogno di strutture rigide per imparare; ed è vero anche che i veri bambini riescono a mostrare duttilità e flessibilità rispetto ai vissuti, poiché, e i veri bambini lo sanno perché ne fanno esperienza continua, la realtà è sempre più complessa delle gerarchie strutturali che si danno “gli adulti”.

Sotto questo aspetto, i “don Andrea”, esprimono tutto il loro essere “bambini bisognosi di certezze e accentratori di ideologie” e che non riescono più a guardare la realtà e le persone, perché, pur se bambinoni, sono adulti, o almeno lo dovrebbero essere, ma incapaci di gestire le realtà e i piani diversi e ancor più incapaci di essere empatici: atteggiamento auspicato che, se fosse abituale e proprio, contraddistinguerebbe e contraddistingue l’essere cattolici.

Un “adulto” sa bene che, al di là delle dottrine e dei livelli giuridici ci sono circostanze, come si evince dalla stessa nota del Vescovo che cita “problemi economici, psicologici o di relazione”, che spingono a scelte drammatiche e non sempre lineari in un contesto, come quello odierno, in cui la solidarietà comune sta scomparendo con varie ripercussioni anche sulle scelte dei singoli[11].

Ma premettere “confronti” tra persone e tra circostanze nonché tra reati e scelte, non solo è un’operazione infantile ma è soprattutto una operazione pericolosa e dannosa. Capisco che per l’ottica canonistica, le due realtà in oggetto sono “due peccati” (anche se ci sarebbe bisogno di una lunga introduzione alla questione). Ma, ribadisco, mettere a confronto in modo coincidente e immediato senza alcuna altra mediazione (di idee e di vissuti) e senza capacità empatica le due realtà è antiumano, anticristiano, anticattolico e “antitutto”.

Se non sei capace di cogliere, in modo empatico, non solo il contesto storico e civile delle due realtà (aborto e pedofilia) ma anche il contesto di “violenza” delle due realtà, dimostri non solo tutta la tua “ideologia infantile” ma anche tutta la tua “incapacità pastorale” e “pericolosità pedagogica”.

Non voglio qui citare i numerosi problemi che vi sono anche dal punto di vista della morale cattolica sulla questione del concetto di “persona” e di “aborto” ma evidentemente un approccio semplicistico com’è quello del “confronto” non rende giustizia né alle persone coinvolte né al concetto di peccato, né a quello di reato canonico o civile.

In altre parole, i “Don Andrea”, mostrano di voler ingenuamente (e “diabolicamente”) dividere le esperienze e mettere da una parte i cattivi da un’altra i più cattivi… cosa che, nella tradizione cattolica è comunque lasciata al giudizio paterno di Dio: non è forse vero, infatti, che “i pubblicani e le prostitute passeranno avanti”?[12] E non è forse vero che la vera misura del peccato rimane proprio la sensibilità con cui si vive la fede e la vita?[13]

È un confronto ingiustificato dal punto di vista della morale cattolica che segna tutta la frustrazione dei “Don Andrea” nel cogliere in modo empatico le esperienze dei singoli come centrali anche rispetto alla valutazione morale delle singole azioni. E soprattutto è il segno dell’incapacità di cogliere la vera differenza: mentre l’interruzione volontaria di gravidanza è riferibile all’atto di una persona che esercita, nell’ambito costituzionale e civile, un “diritto proprio” riconosciuto (pur se in alcuni contesti e per alcuni presupposti discutibile dal punto di vista della scelta personale che comunque andrebbe valutata dal punto di vista sociale e non solo individuale), dall’altro c’è una violenza che sottopone e sottomette un minore (ma direi ogni persona, anche adulta), nel pieno diritto della propria libertà e progettualità personale, identitaria e sessuale, all’ingiustificabile, inconcepibile e insopportabile violenza di un adulto che, magari, è anche il proprio genitore, tutore, educatore o addirittura “pastore”… L’ingenuità ambigua non sta nel “valutare l’azione dell’interruzione volontaria di gravidanza” ma di paragonare questa azione ad altre azioni, e in particolare agli atti di pedofilia. L’incosistenza sta nel “confronto”.

Insomma, fare confronti è da “de-menti”, nel senso etimologico: è operazione posta da qualcuno che è uscito completamente di senno e fuori da una mens, quella cattolica, che protegge e valuta la persona al di là e oltre al dato (solo) “oggettivo” di una dottrina tutta composta in sé...

 

La “sottomissione” della donna

Il servizio de “Le Iene” non si ferma solo sulla questione del confronto circa “i vari peccati”; il “pezzo” giornalistico evidenzia anche alcune affermazioni rispetto alla “sottomissione della donna” all’uomo…

Ora, rimandando ad altra sede e ad altre competenze l’esegesi di Ef 5,21 (magari lo stesso mons. Marconi da competente biblista potrebbe offrire una spiegazione più ampia e dettagliata rispetto a quella lasciata nella Nota), qui mi preme evidenziare un errore canonico del Parroco/Vicario che, nella mia esperienza, è purtroppo frequente e commesso da molti presbiteri e vescovi. Il chierico “dimentica” la possibilità e, a volte, la necessità della separazione anche canonica.

Spiego.

Ad un certo punto il Parroco è incalzato da una “donna” che gli confessa che il marito la “sottomette” anche con violenze fisiche. La risposta del Parroco è la palese dimostrazione che il bravo Don non è solo fermo sulle sue certezze dal punto di vista ideologico, ma non è neanche preparato dal punto di vista canonico.

Alle parole della donna che gli denunciava la violenza del marito avrebbe dovuto fermarsi e, anziché lasciar intendere che lui non poteva invitarla a lasciare il marito sebbene forse utile (ma non lecito dal punto di vista cattolico secondo lui), avrebbe dovuto invitare la donna a “separarsi” dal coniuge.

L’istituto della “separazione con permanenza del vincolo” è contemplato dal Codice di Diritto canonico e concede la possibilità al coniuge vittima di allontanarsi e separarsi dall'altro coniuge.

Il can. 1153 recita:

«§ 1. Se uno dei coniugi compromette gravemente il bene sia spirituale sia corporale dell’altro o della prole, oppure rende altrimenti troppo dura la vita comune, dà all’altro una causa legittima per separarsi, per decreto dell’Ordinario del luogo e anche per decisione propria, se vi è pericolo nell’attesa.

§ 2. In tutti i casi, cessata la causa della separazione, si deve ricostituire la convivenza coniugale, ameno che non sia stabilito diversamente dall’autorità ecclesiastica».

 

E nella fattispecie non solo vi era il motivo della violenza che rendeva impossibile la convivenza e il bene dei coniugi (cfr. can. 1055) ma il chierico in questione era anche l’autorità, in quanto Parroco e Vicario generale, che avrebbe subito dovuto intervenire, almeno informando il proprio Vescovo. Quest’ultimo, constatati i fatti, avrebbe poi dovuto disporre la separazione con un suo decreto o avrebbe dovuto attendere e ratificare la sentenza civile (secondo quanto disposto dal can. 1692)[14] per la separazione dei coniugi.

Insomma, non solo la questione della sottomissione non sta “né in cielo né in terra”, ma qui il Parroco omette un atto dovuto (ascoltare il coniuge vittima, consigliarlo per la separazione anche temporanea e/o immediata in caso di convivenza gravemente pericolosa) e dà prova di non conoscere né la buona prassi pastorale né la giusta prassi canonica.

 

Conclusioni

La lunga riflessione qui offerta (che nelle intenzioni doveva e voleva rimanere solo una breve comunicazione) non vuole apparire un’accusa frontale. Non si tratta di sparare a zero sui “Don Andrea” di turno ma di verificare quale sia la formazione e la personalità di alcuni pastori che oggi guidano alcune comunità ecclesiali. Queste righe, scritte e pensate come analisi di un dato di fatto, vogliono essere l’analisi di alcuni dati che emergono dalla realtà e non fare una questione personale. Dall’analisi è chiaro che la preparazione dei cattolici in genere, e di alcuni ministri in specie, è ancora troppo didascalica e rubricistica e spesso anche non adeguata. Sotto questo aspetto è ineludibile che la formazione dei presbiteri è un nodo da verificare continuamente e non bastano più cinque anni di studi per essere davvero “pastori” né per avere chiare le idee rispetto alla complessità della realtà. Se la società “aperta e complessa” in cui viviamo viene affrontata con i meccanismi minimi dei princìpi catechistici, senza alcuna capacità di verificare non solo la natura e l’articolazione delle dottrine (compito che spetta, secondo le rispettive competenze, a magistero e a teologi), e se non è chiara neanche la dottrina né il Diritto canonico, che pure concedono, nella fattispecie, possibilità di interpretazioni e di azioni, allora non si sarà in grado di affrontare in modo adeguato i compiti connessi con il ministero ordinato che, come si sa, non è solo relativo all’amministrazione dei sacramenti ma anche alla capacità (autorità) di insegnare e di governare. A meno che non si scelga di distinguere i tria munera (ma questa è altra faccenda…).

Nel caso in questione, non basta delineare le “buone intenzioni” del Parroco o difenderne i princìpi: d’altra parte, nella sua Nota, mons. Nazzareno Marconi tenta di dipanare la matassa e di difendere il proprio Vicario generale ma non entra mai nel merito e nel vivo della questione che non sta, va ricordato, nella scelta o meno dell’aborto (se di scelta assunta consapevolmente, liberamente, deliberatamente e pienamente avvertita si tratta…), ma nell’azzardarsi a porre confronti, con mentalità infantile e ingenua lasciando trasparire l’ideologia di fondo: la gerarchia dei peccati.

Né basta ricordare che le affermazioni sarebbero state proferite “solo” nel contesto dell’omelia (che, va ricordato, è un’azione liturgica a cui non basta il momento intellettuale e che non andrebbe proferita dall’altare… - ma anche questa è altra faccenda…–) per capire che quelle parole non dovrebbero mai trovare posto nel “più o meno grave”: ne va della comunicazione performativa e attiva, e questa, si sa, è donazione di sé non solo di idee o di dottrine…

Il cattolicesimo, se si chiude in strutture ideologiche, non farà altro che apparire in una bolla di vuoto mentale, “de-mente”, rispetto alla sana tradizione di vicinanza, attenzione, discernimento… e apparirà anche “anti-patico” incapace cioè di parlare e di ascoltare nelle e dalle esperienze di ciascuno e senza cadere nel soggettivismo. Un cattolicesimo che non dimentica la capacità di camminare dietro il Signore e accanto alle donne e agli uomini di oggi, è capace di competenza intellettuale e empatia vissuta: qualità che lo farà apprezzare per quello che è oltre e al di là delle omissioni e incompetenze di alcuni, per fortuna solo alcuni, suoi ministri ordinati.

 



[4] Rimando, ad esempio, al bel testo di Marciano Vidal, Manuale di etica teologica, che vale semplicemente come introduzione al tema…

[5] Basti citare l’episodio dell’adultera e delle (non) pietre scagliate (cfr. Gv, 8,1-11).

[6] Si badi che l’aborto è considerato abominevole sullo stesso piano dell’infanticidio: ciò vuol dire una determinata visione di ogni categoria di feto, quello di “persona”. Ma vuol dire anche che è considerato sul piano dell’omicidio e non del diritto (come succede nell’ordinamento civile italiano).

[7] Nessun documento del Concilio Vaticano II parla di pedofilia. Il Catechismo si limita a riprendere il concetto di “stupro” come offese alla castità… (cfr. CCC, n. 2356).

[8] Cfr. Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Lettera del 29 novembre 2016, prot. n. 15675/2016.

[9] Le linee guida delle varie Conferenze episcopali e il dossier McCarrick sono un esempio di determinazione accresciuta negli ultimi anni. Si vedano ad esempio le Linee guida della Conferenza Episcopale Italiana, Tedesca..

[11] Probabilmente ad un’analisi approfondita dei dati disponibili fino al 2019, si noterebbe che l’aborto è praticato soprattutto nei paesi e nelle zone del mondo in cui è alta l’incidenza del mancato sostegno familiare e sociale alla gravidanza in genere e alla gravidanza non matrimoniale in specie. Cfr. https://oggiscienza.it/2019/10/23/numeri-aborto/

[12] Cfr. Matteo 21, 28-32.

[13] Per questo nel Catechismo della Chiesa Cattolica si ricorda, al n. 1857 che: «Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: “È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso”».

[14] «Can. 1692 - § 1. La separazione personale dei coniugi battezzati, salvo non sia legittimamente disposto altro per luoghi particolari, può essere definita con decreto del Vescovo diocesano, oppure con sentenza del giudice a norma dei canoni seguenti. § 2. Dove la decisione ecclesiastica non ottiene effetti civili o si preveda una sentenza civile non contraria al diritto divino, il Vescovo della diocesi dove dimorano i coniugi, ponderate le peculiari circostanze, potrà concedere licenza di ricorrere al tribunale civile. § 3. Se la causa verte anche sugli effetti puramente civili del matrimonio, il giudice faccia in modo che, osservato il disposto del § 2, la causa fin dal suo inizio sia presentata avanti al tribunale civile».


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