“Salus publica” e “salus animarum”







Troppe allusioni, troppe informazioni, troppe imprecisioni.

Incongruenze teologiche, riflessioni distorte, voci apocalittiche.


Non esistono ostacoli giuridici né valide considerazioni teologiche che impediscano la sospensione delle celebrazioni liturgiche.

Pur nella dolorosa scelta, dobbiamo seguire i Vescovi italiani e azzittire tutte quelle voci che creano solo panico spirituale.

Sicuramente, però, questa è un'occasione in più per riflettere su diritto e teologia, su esperienza religiosa e fede.




Umberto R. Del Giudice



L’Italia è ormai una zona protetta e il Presidente del Consiglio dei Ministri ha appena annunciato nuove restrizioni. In questi giorni protetta e corretta dovrebbe essere la comunicazione e l’informazione anche e soprattutto quella cosiddetta “teologica”: ce ne stiamo accorgendo.

Potremmo dire che alcune informazioni e affermazioni che stanno girando sui social fanno parte, appunto, dei “social”; di quelle chiacchiere che si fanno tra amici: si parla per parlare. Ed anche questo va bene. Insomma, potremmo dire che è concessa una certa approssimazione da “zona social” dovuta alla concitazione del caso.
Ovviamente tutti sappiamo (o dovremmo sapere) distinguere tra le varie fonti di informazioni: ufficiali, giornalistiche (alquanto attendibili ma non ufficiali), da “social”, appunto (spesso per niente attendibili ma che esprimono il “sentire comune e la condivisione”).

Ma quando a parlare e a scrivere su questioni riguardanti il cattolicesimo, il suo patrimonio e la sua disciplina, sono vescovi, presbiteri, teologi, giornalisti, la cosa si fa non solo interessante dal punto di vista del “fenomeno di cattolicesimo contemporaneo” ma anche dal punto di vista dell’attendibilità e affidabilità delle informazioni e dei pareri.
Questa lunga premessa per dire, apertis verbis, che chiunque spaccia per fondate e attendibili “teologicamente” comunicazioni che non sono altro che pareri di singoli, rende un cattivo servizio al cattolicesimo italiano, in questo periodo che va definito quantomeno “particolare”, anzi, direi, “forte”.


Sospensione delle azioni liturgiche: i refrattari

Alcune opinioni che circolano e che sono sottoscritte da informatori vari, giornalisti, presbiteri, teologi, vescovi, sono semplici quanto pericolose considerazioni personali, da una parte, e, dall’altro, addirittura illegittime prese di posizioni.
So di aver scritto un pesante aggettivo, “illegittime”, ma è ora di franca cordialità. Dal punto di vista della comunione ecclesiale, in un momento così particolare, è da lupi provocare gli animi e quindi, sotto l’aspetto anche disciplinare, mi sembra inopportuno se non addirittura illegittimo, proporre esternazioni non plausibili senza tener presente la carità più della norma.

Le riflessioni che circolano e che qui vorrei prendere in considerazioni, riguardano la sospensione in tutto il territorio italiano delle azioni liturgiche.
Di opinioni ne circolano varie e soprattutto contrarie alla decisione dei vescovi italiani.
C’è chi ricorre anche a casi d’oltralpe. Si fa riferimento ad una notizia che riguarda la presa di posizione di un vescovo (francese) di qualche giorno fa il quale si opporrebbe alla eventuale sospensione della celebrazione delle azioni liturgiche in Francia.
A far notizia era anche (fino a poco fa) la decisione di un vescovo italiano che si sarebbe opposto alla sospensione delle celebrazioni comunitarie nella propria diocesi: anche lui, però ha poi disposto diversamente.
Far girare notizie secondo le quali “anche i vescovi” invitano alla “disobbedienza civile rispetto alla sospensione delle azioni liturgiche”, è falso e fuorviante.
In realtà nella regione ecclesiastica della Conferenza Episcopale Italiana tutti i vescovi si sono assunti la enorme responsabilità della decisione di sospendere le celebrazioni liturgiche con assembramenti.
Qui vorrei subito annotare che la decisione non è dolorosa solo per loro ma per tutti: in realtà è dolorosa per tutti coloro che (non sacerdoti) non possono neanche decidere per una “missa sine populo”. Ma di questo dirò avanti.
Fin qui, solo per far chiarezza rispetto alle disposizioni episcopali cui tutti ci dobbiamo attenere. Aggiungo solo una considerazione: perché i “ferventi cattolici” usano anche qui il “double standard” secondo il quale ora non varrebbe essere obbedienti ai propri vescovi?

Contrari alla sospensione del culto: questioni di diritto internazionale?

Qualcuno si è anche arrampicato sugli specchi del “diritto internazionale” per invocare una fantomatica sospensione dell’art. 2, n. 1 dell’Accordo Italia-Santa sede che recita:
«La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto…».
In realtà questi “accademici” dimenticano che l’Accordo bilaterale (quello del 1984, per intenderci), tiene presente «da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica» e che quindi, stando alla Costituzione italiana, vi è piena libertà per ciascuno di muoversi «salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». In altre parole, questo principio sancito dall’art. 16 della Costituzione italiana è la base per la giusta interpretazione di un altro principio che permea la stesura dell’Accordo stesso: il principio di “competenza”. In quest’ottica è chiaro che l’autorità civile può stabilire limitazioni per ragioni di sanità e sicurezza nazionale anche agli assembramenti per motivi di culto.
C’è anche però chi ricorda giustamente, come fa qui il prof. Pierluigi Consorti, che «il Patto internazionale sui diritti civili e politici, vigente in Italia in forza della legge 25 ottobre 1977, n. 881, stabilisce che la legge può limitare tale libertà per ragioni di sanità pubblica: ed è questo il caso».

Per non entrare troppo in tecnicismi (anche se forse l‘ho già fatto…), in ogni caso, i principi di “collaborazione” e di autorità separata per ambiti di “competenze”, sono i veri presupposti ermeneutici per ogni interpretazione che riguarda l’Accordo Italia e Santa sede, ratificato e recepito dalla Repubblica.

Al contrario, qualcuno, come Antonio Socci, avrebbe voluto almeno un tentativo di “opposizione” da parte della CEI.
Ma le sue argomentazioni sono di “pura pancia”, e rimangono nell’alvo ventrale.

Al di là delle questioni giuridiche

Al di là dell’aspetto disciplinare e normativo è quello teologico che preoccupa.
Alcune posizioni preoccupano di più. Sarebbero quelle di presbiteri e di teologi che respingono come anti-cristiano, non cattolico, e, addirittura, demoniaco, la sospensione delle celebrazioni domenicali.
Quella di preti che non sospendono la celebrazione sarebbero poche e accidentali disattenzioni (così un prete anziano che non sapeva del divieto vigente già qualche giorno fa in alcune zone). Qualche altro monsignore stigmatizza come sciocche e senza fede le tensioni che si stanno vivendo in questi giorni e la sospensione delle celebrazioni.

Il Padre e il Dom

Tra le varie posizioni spiccano un twitter di padre Sorge e un articoletto di dom Giulio Meiattini.
Il primo scrive: «Le dovute precauzioni, certo, ci vogliono. Ma, fino a che punto è lecito negare ai fedeli, il Corpo e il Sangue di Cristo contro il coronavirus, come se fosse un negozio da chiudere?» (qui consultato l’11/03/2020).
Il “cinguettio” di padre Sorge forse vuole essere solo un tiepido tentativo di riflettere: alla sua veneranda età, quasi tutto gli è permesso, un po’ come tutto è permesso simpaticamente ai nonni anche se nessuno segue ciò che dicono.
In realtà però si mostra come una pericolosa miccia che, insieme ad altre considerazioni di “presbiteri mariani ma pieni ‘di liviore’ teologico” innescano pensieri di una religiosità poco rispettosa di sé: la dimensione religiosa umana autentica, infatti, deve sostenere e non atterrire con narrazioni apocalittiche l’uomo.
Forse, però, la simbologia apocalittica va bene per le menti infantili dal cuore di pietra: è una possibilità. Fare leva sulle paure ha quasi sempre funzionato per attirare adepti e obbedienza. E sul fatto che ci sia molta paura anche dom Giulio è d’accordo. Il monaco però non lo fa dal punto di vista delle cattive immagini di Dio; al contrario: per lui la paura è innestata da una “società secolarizzata” che ha paura della morte (qui le considerazioni del teologo di Noci).
Il suo intervento appare confuso, quasi si stenta a credere che sia stato lui a firmarlo. In ogni caso, guardando alla firma, le parole di dom Giulio Meiattini appaiono frettolose dal punto di vista logico e teologico, ma anche pericolose dal punto di vista sociale.
Non me ne voglia il rispettabile e rispettato monaco benedettino.
La pericolosità sociale la si ricava da una sua affermazione riguardo alla qualità del coronavirus. Scrive il Dom: «Se è vero che il nostro organismo non ha difese immunitarie davanti al nuovo virus (il cui grado di pericolosità, com’è noto, è molto discusso e controverso)…». La didascalia tra parentesi è già una notizia ambigua poiché i virologi sono tutti d’accordo sul fatto che la Sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2 (SARS-CoV-2, ovvero CODIV-19) non sia particolarmente “grave” anche se il 25% dei contagiati si ammala gravemente e presenta difficoltà respiratorie.
Sebbene possa essere “gestibile” nella maggior parte dei casi, la sua particolare pericolosità sta nel fatto che nessuno ha ancora gli anticorpi e, non essendoci vaccino alcuno, mette tutti, ma soprattutto i soggetti più deboli e i più piccoli, in grave pericolo di vita. Inoltre la moltiplicazione del contagio mette in ginocchio le strutture sanitarie, e lo stiamo sperimentando.
Un teologo, soprattutto un uomo seguito e stimato come dom Giulio, dovrebbe star attento a ciò che scrive (anche solo tra parentesi) poiché le sue postille potrebbero ingenerare dubbi e perplessità che, al contrario, la comunità scientifica mondiale non ha. Insomma, attraverso allusioni del genere, alla “pericolosità virale” originaria del COVID-19, Dom Giulio si sostituisce con originale “pericolosità sociale”.

Dopo aver contestualizzato (a suo modo) gli avvenimenti, dom Giulio si scatena contro il “male del secolo”: la paura…
Egli afferma: «il problema più serio che sta emergendo è di tipo mentale, culturale e, aggiungerei, spirituale. La verità è che si ha paura, troppa paura».
Aggiunge che il nostro sistema e la nostra mentalità sono troppo legate al “benessere” e che abbiamo paura di morire o anche solo di star male e si lancia così, con e da queste considerazioni, in riflessioni sociali e antropologiche che mettono insieme spunti filosofici e ritratti storici sulla nostra epoca che a male appena si seguono, con uno stile secondo solo a omelie feriali e stanche, e che non appare degno del suo grado accademico.
La sua argomentazione contiene veri e propri salti logici come quando asserisce, ad esempio, che le reazioni isteriche del momento fanno parte di una mancata prospettiva generale sul futuro non atteso. In realtà sarebbe il contrario: le troppe attese per il futuro farebbero crollare le aspettative del presente. È questo è sintomatico, direi psicologicamente normale.
In più il buon dom Giulio si lancia con afflati patriottistici e nazionalistici ad una sorta di “chiamata all’eroismo”, lì dove gli eroi del passato sarebbero l’esempio da seguire per combattere a viso aperto (si fa per dire…) il pericolo del contagio…


Don Giulio evoca così gli eroi del passato con ulteriore scarsa logicità e poca sensibilità storico-antropologica. Provi a dirlo  al personale medico o all’infermiera Elena Pagliarini che lavora più di dodici ore al giorno e che ha confessato di avere paura e non per questo lascia gli altri da soli e senza assistenza sanitaria.




A me fa piacere invece sapere che gli eroi ce li abbiamo anche noi e sono tanti: tra questi tutto il personale medico e paramedico che in queste ore tiene su, dimenticando i turni contrattuali, il sistema sanitario nazionale. Ma andiamo oltre…
Un’altra poco invidiabile argomentazione si annota quando il teologo di Noci richiama le categorie molto vicine alla visione della modernità come secolarizzazione dovuta al progresso. Insomma, per dom Giulio la nostra società immatura sta rispondendo con frettolosa e ingiustificata paura.

La stoccata (teologica) finale di Dom Giulio

Qui però la stoccata finale svela lo scopo del panegirico a difesa dell’identità nazionale e culturale demolita, dice lui, dall’attuale tenore sociale e antropologico.
La Chiesa, afferma dom Giulio, non dovrebbe permettere la sospensione delle celebrazioni liturgiche e conclude: «la cosa più triste, e preoccupante per il futuro dell’umanità, è che la stessa Chiesa (o meglio gli uomini di Chiesa) hanno dimentica (sic!) che la grazia di Dio vale più della vita presente. Per questo si chiudono le chiese e ci si allinea ai criteri sanitari e igenici (sic!). La chiesa trasformata in agenzia sanitaria, invece che in luogo di salvezza. Ci pensino bene i vescovi a chiudere le chiese e a privare i fedeli dei sacramenti, dell’eucaristia, che è medicina dell’anima e del corpo: chiudere le porte ai cristiani e pensare di potersela cavare con la scienza umana, è chiudere le porte all’aiuto di Dio. È confidare nell’uomo, invece che confidare in Dio».

Ecco la dimostrazione di quanto accomuna padre Sorge e don Giulio: entrambi vivono di nostalgie, quasi giustificate nel primo, preoccupanti nel secondo.

Si tratta infatti di una impostazione che deriva da una educazione che mette insieme concetti come quelli di “grazia”, “sacramenti”, “messa”, “sacerdozio” secondo una teologia che non tiene conto che questi termini vanno interpretati bene e vanno compresi meglio, pena la impossibilità di cogliere l’obbedienza sociale come un atto di responsabilità civile e, molto più, cristiana.
E se proprio i nostri cari pensatori non riescono a cogliere l'obbedienza attuale come forma di "benedetta astinenza collettiva" o perché troppo anziani di età o troppo vecchi di cuore, forse potrebbe bastare spiegare loro che oggi parlare contro gli atti amministrativi dei nostri vescovi che sospendono le celebrazioni è un atto irresponsabile e pericoloso che mette a repentaglio il rispetto verso tutto il Popolo di Dio, non solo Pastori, ed ha l'effetto di essere palesemente contro ogni (attuale) utilità comune (dunque, ancor più colpevole).

Concludendo

Non si può mettere in dubbio che alcune persone si stiano comportando in modo a dir poco infantile, in un senso o nell’altro.

Tuttavia il senso di smarrimento è normale in una situazione imprevista che si sta svelando non solo una giusta decisione ma anche una vera opportunità, sociale ed ecclesiale.

Ma manifesta molta paura anche chi disegna la sospensione delle celebrazioni liturgiche come “vittoria dell’ateismo” a cui anche la “Chiesa darebbe il fianco” solo perché i vescovi hanno accettato di sospendere le funzioni religiose.
La paura che alcuni soggetti manifestano deriva da false immagini di Dio che elargisce “grazia come fosse un contabile”, da false concezioni quasi magiche di quella che una teologia ha chiamato e chiama “grazia sacramentale” e da una tendenza pressocché millenaristica degli spiriti smarriti. Argomentazioni che non riescono a proporre l’eucaristia nel suo grande valore mistico, sacramentale, ecclesiale e direi anche sacrificale, non può parlare solo per slogan e, citando padre Pio, affermare che «è più facile che la terra si regga senza sole che senza Messa».
Sicuramente l’eucaristia è il centro della vita della Chiesa poiché essa è la vita stessa di Cristo donata alla sua Chiesa.
E potremmo dire: “sine Dominico non possumus”. Ma questa espressione dei martiri di Abitene non deve essere usata come uno slogan apologetico: l’editto persecutorio a quel tempo prendeva di mira non solo il rito ma i luoghi di culto e soprattutto i libri sacri e questo per scardinare una cultura cristiana che per Diocleziano non era funzionale alla unità dell’impero.
In realtà oggi ai cattolici non viene richiesto di sopprimere un’identità cultuale ma di manifestare la propria identità cristiana che nasce dalla fede, dalla carità e dalla speranza: doni che sono tutti affidati dal “dono dei doni”, ovvero, dal “karisma” come lo chiamava Clemente Alessandrino: il battesimo.
Riscoprirsi figli nel Figlio in un momento in cui dobbiamo affrontare il digiuno eucaristico come necessità solidale, ci aiuterà sicuramente a valorizzare l’eucaristia, come apice della celebrazione e dell’essere figli e non come azione causale immediata tra “grazia attuale e grazia sacramentale” o, peggio ancora, come forma magica.
Quella della “teologia della grazia” poi è un bellissimo capitolo a sé che meriterebbe un lungo studio: dalla concezione agostiniana (e contropelagiana: cfr. De spiritu et littera e De natura et gratia) alla elaborazione di Tommaso (che non risparmia anche complesse elucubrazioni: cfr. Summa Theologiae, III, q. 64, a. 4); dalla formulazione controriformistica della concezione sacramentale dell’ex opere operato (formulando così una categoria sacramentale contro “il moto del libero arbitrio” luterano) a quella battesimale del Concilio Vaticano II (e qui bisognerebbe leggere almeno Lumen gentium). Il concetto di “grazia” è una categoria, dunque, interessante da studiare e che si avvale di sovrapposizioni incredibili e appassionanti ma anche ben delineate nel loro sviluppo storico; purtroppo la stessa categoria (declinata anche come “grazia sacramentale”) è richiamata da tanti che in questi giorni manifestano la propria preparazione catechistica per incutere, consciamente o inconsapevolmente non saprei, il timore e la riverenza di un Dio che “non sarebbe più vicino al suo popolo” senza celebrazioni liturgiche. Così facendo però si dimentica la fonte della “grazia”, ovvero la carità di Cristo che ci ha riconciliato in e con Dio quando ancora eravamo “nemici” (cfr. Rm 5,15), ovvero, quando della celebrazione nessuno se ne curava. L’evento pasquale è la vera fonte di ogni “benedizione dal cielo”: evento davanti al quale noi siamo riammessi nella celebrazione e che non scompare senza celebrazione sospesa per causa di forza maggiore.
A tal proposito ricordo che la celebrazione quotidiana della celebrazione eucaristica è caldamente raccomandata ai presbiteri (can. 276, §2 n. 2) ma non è un obbligo: e sarebbe bello che i presbiteri si affiancassero, almeno durante i giorni feriali, al cammino di tutti, nella carità, nella fede, nella speranza e, per ora, nel digiuno eucaristico.
Ma ancora più pericoloso sarebbe un egoismo rituale che spinga fino alla disobbedienza liturgica per custodire un Dio fatto a propria immagine e somiglianza senza voler accettare, in obbedienza coi propri Pastori, un digiuno eucaristico che, nella responsabilità e nel dolore condiviso, sia testimonianza di carità verso tutti, attesa della presenza in presenza pur celebrando ogni giorno le lodi del Dio che salva e si comunica nella sua Parola, donando la vita e tutti i suoi doni, nella presenza dei figli nel Figlio per mezzo dello Spirito.



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