Il "pianto di Gesù"? Su Gv 11,35
Il "pianto di Gesù"? Brevi considerazioni intorno a Gv 11,35
Ho scritto queste righe domenica sera.
Ho pensato poi di metterle da parte. A distanza di due giorni credo sia utile condividerle.
(Rogier van der Weyden, Deposizione dalla Croce, olio su tela, 1435-1440; particolare)
Umberto R. Del Giudice
Breve premessa
La commozione
profonda di Gesù è uno dei tratti umani presentati dai Vangeli.
Oggi (domenica
29 marzo) in modo particolare il vangelo secondo Giovanni ricorda l’intimo dolore:
il pianto commosso.
Offro in
modo breve e schematico la sintesi di una ricerca al termine di un tempo
domenicale fatto anche di riflessione. Sono sicuro che i colleghi biblisti potranno
far molto di più e meglio. Intanto però suggerisco una breve riflessione nata
da una mia curiosità che ho partecipato anche ai miei figli: con lo stesso
spirito di comunione, la pubblico qui (oggi martedì) dopo una necessaria
rilettura.
Sarò
preciso quanto più possibile e forse anche complesso sebbene non sarò né potrò
essere esaustivo: è solo una condivisione con tutti i limiti e, allo stesso
tempo, la serietà del caso.
Gv 11,35
Il
versetto oggetto di particolare attenzione è Gv 11,35, tradotto allo stesso modo
sia nella traduzione CEI del 1974 sia in quella del 2008: fatto che ha
determinato la continuità anche nel lezionario (libro liturgico per la lettura dei testi biblici durante la liturgia).
Questo il
versetto:
Gesù
scoppiò in pianto
(in
vulgata: Lacrimatus est Iesus).
Questa
traduzione è accettata anche dalle versioni in italiano della Bibbia di Gerusalemme
(1974) e della Traduction Oecuménique de la Bible (1992-2009).
La
versione interconfessionale (Traduzione interconfessionale in lingua
corrente, 1985) preferisce “Gesù si mise a piangere”.
In ogni
caso il verbo (all’aoristo) indica un’azione puntuale, un pianto che nasce per
quel motivo lì. Gesù non ha pianto in modo generico lamentandosi, ma ha sentito
dolore per quel motivo preciso. Ma vi è bisogno di un ulteriore indagine per
capire meglio le intenzioni del quarto vangelo.
L’originale
greco non lascia molto spazio a versioni diverse, anche se possibili: ἐδάκρυσεν
ὁ Ἰησοῦς (edàkrusen o Ièsus). Questo versetto non ha altre versioni
nei codici antichi: da questo l’affidabilità della versione attuale.
Il
versetto si presenta nel contesto della commozione condivisa per la morte di
Lazzaro (v. 33) e prepara la considerazione successiva dei Giudei (v. 36) i
quali, alcuni già commossi (v. 33), sembrano meravigliarsi per l’amore che Gesù
provava per Lazzaro («Guarda come lo amava!»).
Di Gesù si
dice, nel v. 33, che si è già commosso profondamente fino al turbamento («si
commosse profondamente e si turbò» [ἐνεβριμήσατο τῷ
πνεύματι καὶ ἐτάραξεν ἑαυτόν]). Questo passaggio sarebbe bastato
per descrivere il “profondo turbamento” di Gesù che, con uno dei più classici
semitismi, l’autore indica come presente nella parte profonda di Gesù (nello
spirito [τῷ πνεύματι]): stesso espediente al v. 38 (in sé stesso [ἐν ἑαυτῷ]).
Secondo alcuni
«è sottigliezza inconcludente voler distinguere tra il pianto sconvolto dei
giudei e di Maria –verbo greco klàiein– e quello controllato o pacato di
Gesù espresso proprio col verbo dakrìnein, “lacrimare”». (R. Fabbris, Giovanni, Bologna 1992,
636).
Eppure, nel
v. 35 la frase suona come se non preparasse semplicemente la scena successiva: Gesù
scoppiò in pianto.
Ma c’è di
più: vi è una singolarità che sorprende.
Incuriosisce,
infatti, che il testo usi nel v. 35 un verbo mai usato in tutte le altre pagine
neotestamentarie, sebbene vi sia la presenza del relativo sostantivo.
Ci
troviamo davanti ad un “detto una sola volta”, ovvero un hapax legomenon
(“ἅπαξ λεγόμενον”), dell’intero sistema letterario neotestamentario.
In breve:
nel v. 35 viene usato un verbo greco, dakrùo (δακρύω), che non
viene più ripreso altrove nel NT. Mentre viene ripresa la forma sostantivata: il
sostantivo dakruon (δάκρυον), infatti, compare in tutto dieci volte
(dakrùon [δακρύων] 6v. in At 20,19.31; 2Cor 2,4; 2Tim 1,4; Eb
5,7; 12,17; dàkruon [δάκρυον] 2v. in Ap 7,17; 21,4; dakrusin
[δάκρυσιν] Lc 7,38.44).
Al
contrario, tutte le volte che bisogna rimandare all’azione del piangere (e
quindi usare un verbo) il NT preferisce usare il verbo klàio (κλαίω).
La cosa
sembra curiosa e suscita interesse.
Solo in Gv
11,35, dunque, si trova un verbo mai più usato.
Perché l’apax in Gv 11?
Propongo
qui possibili risposte a mo’ di interpretazione.
La prima:
il vangelo secondo Giovanni è scritto in ambiente ellenistico. La comunità che
si forma attorno a Giovanni (e che Ireneo ricorda essere costituita da anziani
ed avere la forma di “scuola”) è vivace, interessata alla filosofia, attratta
dalla gnosi e dal misticismo orientale.
In questo
“clima” si va formando il quarto vangelo. Un clima comunque prevalentemente
ellenistico: ed è proprio nella cultura classica greca che ritroviamo l’uso del
verbo dakruo impiegato nel nostro 11,35.
Nell’epica
greca antica, infatti, il verbo dakruo (δακρύω) è adoperato con una
certa frequenza: poco in forma semplice (solo in Omero) sempre nelle forme
composte: è quasi sempre preferito a klàio (κλαίω).
Chiediamoci
il perché.
La
letteratura epica insiste sul “pianto” in quanto caratteristica della vita
umana, dalla nascita fino alla morte. La cultura ellenistica pensa alla vita
come un fluire continuo e statico in cui è quasi normale “sentire afflizione” e
“lamentarsi”. Tutto questo la cultura ellenistica classica lo sottolinea usando
espressioni derivanti dalla radice dakr (δακρ-) da cui dakrukeo,
dakrusi, poludakruton (δακρυχέω, δάκρυσι, πολυδάκρυτον)
e il nostro verbo dakruo (δακρύω) che rimane un termine "dotto".
Questo
rimando al “pianto” è usato anche come espediente narrativo per poi suggerire
vie consolatorie e riflettere una certa “filosofia di vita”, come succederà in
Palladio e in Seneca il quale, per il mondo latino, esprime lo stesso concetto
col verbo latino fleo o col sostantivo lacrima.
In queste
ore in cui è risuonata la riflessione sul pianto di Gesù (tutte degne di nota),
qualcuno ha voluto associare questo pianto a vari momenti della vita di Gesù: quello
che lo vide commosso guardando Gerusalemme, ad esempio. Eppure anche in Luca l’azione
di Gesù che piange su Gerusalemme (cf. Lc 19,41) è ripresa con l’uso del verbo klaio
(κλαίω). Altri hanno voluto associare il pianto di Gesù al momento
vissuto da lui nell’orto degli ulivi. Eppure nessun evangelista ha usato lo
stesso verbo di Gv 11,35.
Dal punto
di vista esegetico è chiaro che l’uso dei verbi da parte degli evangelisti
(ciascuno a modo suo e per il suo vangelo) vuole dire qualcosa di specifico.
La differenza tra dakruo e klaio
Vi è differenza
tra i verbi dakruo (δακρύω) e klaio (κλαίω)?
Il quarto
vangelo ci sta dicendo qualcosa usando dakruo (δακρύω) solo una
volta?
Analizziamo
il verbo klàio (κλαίω) e il suo uso.
È singolare
che il verbo klàio (κλαίω) presenti due forme
distinte: klàio (κλαίω) e l’attico klào (κλάω). Tuttavia la seconda forma (di origine dialettale attica) ha un altro significato e, ad esempio, si distingue dal primo per la composizione del futuro (klau-soumai/klas-te-somai). Il
primo significa piangere; il secondo spezzare. Le due forme però andranno in qualche modo sovrapponendosi nel nuovo testamento (ovvero nel greco
della koiné in genere e non solo) dando origine ad un rimando singolare tra le
azioni del piangere, gemere, lamentarsi, compiangere,
deplorare e quelle del rompere, spezzare, fare a pezzi,
curvare, abbattere, avvilire, indebolire, snervare.
Il greco accosta,
nella radice dei verbi, l’esperienza del piangere a quella del “qualcosa si spezza
dentro”. In realtà dal gruppo kla- derivano svariate parole. Qualcuno rimanda
alla radice indoeuropea ma evito qui di citare indizi che ci porterebbero assai
lontano anche se molto interessanti [mi segnalano che, benché la paretimologia
sia invitante e vi sia omofonia, i due termini rimangono anche distanti; tuttavia
nel campo semantico neotestamentario e nella struttura narrativa, le due forme
si accavallano anche grazie alla stessa omofonia della radice indoeuropea; cfr. R. Franco, Dizionario etimologico
comparato delle lingue classiche indoeuropee: Indoeuropeo - Sanscrito - Greco –
Latino, 2018, 108.122].
Da queste battute
si comprende perché nel NT l’uso di klàio (κλαίω) non rimanda
solo all’azione del “piangere” ma anche a quella dello “spezzare” (klào, κλαω) grazie alla omofonia che produce significati estensivi proprio del campo narrativo evangelico.
Ci ricorda
qualcosa? Certamente. È uno dei gesti sui pani: Gesù prese, benedisse e spezzò…
Ma andiamo
con ordine rispetto all’uso di klàio (κλαίω).
Nel primo
vangelo, ad esempio, il verbo è usato per indicare il pianto di Rachele (Mt
2,18; piange, kla…ousa) come anche l’azione dello
spezzare il pane in occasione del cibo distribuito alla folla (Mt 15,36: spezzò,
œklasen) e nella scena della cosiddetta
ultima cena (Mt 26,26: ruppe, œklasen) e subito dopo nel pianto di Pietro
che “si scopre” per tre volte rinnegatore (Mt 26,75: pianse, œklausen).
Nel
secondo vangelo klàio è usato 6 volte (al capitolo 5 per indicare l’azione
del piangere in riferimento alla morte della bambina [Mc 5,38.39]; poi per
indicare l’atto dello spezzare nella distribuzione dei pani alle folle [Mc 8,6];
nella scena dell’ultima cena [Mc 14,22]; nel pianto di Pietro che ha appena
rinnegato tre volte [Mc 14,72]; nel lamento dei discepoli che non credono all’annuncio
di Maria di Magdala [Mc 16,10]).
Luca lo
usa molto: per indicare la contrapposizione delle beatitudini e della
prostrazione (Lc 6,21.25), per indicare il pianto della vedova di Nain (Lc 7,13),
il rimprovero per la diffidenza di quelli che non piangono (Lc 7,32), nella
scena della donna perdonata (Lc 7,38), nel cordoglio generale per la figlia di
Giairo (Lc 8,52), per indicare il piangere di Gesù sulla città (Lc 19,41),
nella scena dell’ultima cena (Lc 22,19), nel pianto di Pietro (Lc 22,62), nell’invito
di Gesù di non piangere su di lui ma sul popolo stesso (Lc 23,28, 2v.). Da notare
che solo una volta Luca riferisce questo verbo a Gesù in quanto piangente
sulla città di Gerusalemme.
Anche il quarto
vangelo usa klàio (κλαίω) ma in modo molto particolare. Ritroviamo
klàio (κλαίω), infatti, nella scena della morte di Lazzaro (Gv
11,31.32.33), nella contrapposizione tra pianto dei discepoli e loro successiva
gioia (Gv 16,20), nel pianto di Maria di Magdala e nelle scene relative in cui
prima un angelo e poi lo stesso Gesù chiede alla donna il motivo del suo
piangere (Gv 20,11.13.15).
Da notare:
il quarto vangelo usa klàio (κλαίω) nelle scene di
contrapposizione morte/resurrezione, disperazione/salvezza. L’intento dell’autore
del quarto vangelo è chiaro: il pianto, il gemere, il dolore, la sofferenza
umana, trovano risposta nella presenza di Gesù in quanto risorto e dispensatore
di (vera) vita.
Gesù nel giardino: agonia e angoscia
Va puntualizzato
che in nessun caso il verbo klàio (κλαίω) è usato per indicare la
sofferenza di Gesù nel Getsemani dove sono usati altri modi per indicare una
sofferenza ben più marcata quale lo stato di angoscia profonda (cfr. Mt 26,37; Mc
14,33; Lc 22,44).
In Mt Gesù
è triste e angosciato (lupe‹sqai, da lupeô, ¢dhmone‹n
da adêmoneô). In Mc Gesù è presentato come spaventato e angosciato (™kqambe‹sqai da ekthambeomai, ancora ¢dhmone‹n,
da adêmoneô, come in Mt). Il terzo vangelo lo presenta in agonia (¢gwn…v,
agônia) fino al sudore di sangue (cfr. Lc 22,44).
Il
quarto vangelo, invece, non racconta lo stato d’animo di Gesù nel “giardino” (cfr.
Gv 18,1) perché ha appena finito di esprimere i sentimenti di Gesù nei capitoli precedenti, in modo particolare nei capitoli 13-17.
A mo’ di riflessione conclusiva
Allora perché
usare dakruo (δακρύω) in Gv 11,35?
Perché il
quarto vangelo associa Gesù non solo alla commozione profonda ma anche al
lamento esistenziale, ovvero a quello stato d’animo proprio della cultura
ellenistica che vede la vita come uno spingersi continuo, un ineluttabile
cammino verso la morte: una vita intesa soprattutto come impegno, fatica, misto
di fatalità e fragilità.
Credo dunque
che si possa affermare che il dato teologico-biblico sia questo rimando alla
concezione esistenzialista della cultura ellenistica: il quarto vangelo lo
esprime inserendo un apax al versetto 35 del capitolo 11.
Gesù,
dunque, oltre che condividere l’esperienza del profondo dolore e dell’angoscia,
da cui deriva anche la sua decisione di superare tutto con lo “spezzarsi” per gli
altri (secondo quanto riportato dagli altri evangelisti e secondo il rimando
delle forme sovrapponibili del verbo klàio), ha condiviso e partecipato
alla fatica della vita stessa, all’esperienza della vita che scorre nella sua
inevitabile pochezza esistenziale, nella sua reale debolezza.
D’altra
parte il suo pianto in Gv 11,35 non è di disperazione perché, racconta la
dinamica del quarto vangelo, Gesù si era già commosso profondamente e ora
condivide il dolore nella sua preghiera in una direzione
completamente nuova dell’esperienza di morte a Betania: la resurrezione di Lazzaro.
Un Gesù così,
che condivide sofferenza ma anche fatica esistenziale, è rivelato come vicinissimo
non solo nel suo atto supremo di donare la vita oltre l’angoscia e le lacrime, ma
anche in quella di condividere il vissuto umano in tutte le sue sfaccettature e
stanchezze.
Dal punto
di vista “teologico”, tutto questo ci aiuta a comprendere quanto il Dio dei
cristiani è vissuto ed esperito in tutto, non solo nell’eccezionalità ma anche
nell’ordinaria fragilità, nella spossatezza dei momenti pesanti della vita.
Se è vero
che Gv 11,35 è un passaggio verso la scena successiva (cfr. R.E. Brown,
Giovanni, ed. 5, Assisi 1995, 553-554) è altrettanto vero che l’uso del verbo dakruo
(δακρύω) è un apax che rimanda a ben altra realtà: l’esperienza
di Gesù coinvolge e raccoglie tutte le esperienze della vita umana così come è percepita
dagli uomini stessi. D’altra parte, perché Gesù sarebbe capace di commuoversi
per il lutto, perché sarebbe capace di raccogliere il pianto di Maria di Magdala,
se non fosse mai entrato nell’ineluttabilità della condizione umana?
Il quarto
vangelo sembra così rispondere ai dubbi degli intellettuali ellenistici, da cui
non si discostano molto quelli attuali di alcuni o anche le certezze di altri che
dimenticano l’assoluta condivisione della condizione umana del Cristo, come riporta
nel suo incipit lo stesso quarto vangelo: "il Verbo si fece carne" (ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο, ò lógos sàrx eghéneto, Gv 1,14). L’azione, quella del “diventare/divenire/farsi” carne
(sàrx), riportata con un indicativo aoristo, ovvero un’azione puntuale, si riferisce all'azione puntuale dell'incarnazione, all'entrata nel tempo del Verbo preesistente.
Ciononostanate, avverte il quarto vangelo nella sua narrazione, l'esperienza dell'umanità continua in tutto il vissuto di Gesù.
L'atto puntuale nel tempo (l'incarnazione) rimanda sovrapposizione tra preesistente ed esistenza. Il "farsi" puntuale non esclude l'esperienza umana a tappe.
Ciononostanate, avverte il quarto vangelo nella sua narrazione, l'esperienza dell'umanità continua in tutto il vissuto di Gesù.
L'atto puntuale nel tempo (l'incarnazione) rimanda sovrapposizione tra preesistente ed esistenza. Il "farsi" puntuale non esclude l'esperienza umana a tappe.
Dunque, questo
il dato teologico: l’esperienza umana è l’esperienza divina, e viceversa.
Allora, grazie
caro autore del quarto vangelo per averci offerto questa visione teologica del Cristo
raccontato da te.
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