Parole omiletiche tra rito e narrazione infelice; anzi, dannosa
L’omelia non è solo un’arte: è un’azione rituale, un percorso mistagogico che immerge nell’azione salvifica di Dio che si concretizza nella storia della comunità. Se i racconti religiosi di per sé possono essere “equivoci” e, a tratti, “ambigui”, non può essere più consentita una narrazione omiletica che rimanda ad un’immagine di Dio fasulla, dannosa, diabolica.
Umberto
Rosario Del Giudice
Un’omelia dannosa
In “una”
diocesi italiana si è tenuto un rito funebre per la morte di una donna che ha
affrontato ben tre tumori diversi. Dopo un periodo di lotta estrema, il corpo
della donna ha ceduto.
La salutano
marito, figli, amiche, amici. Da tutta Italia, più di quattrocento persone
giungono in un paesino dell’entroterra per essere presenti al rito funebre.
Un’accorata
folla che dimostra quanto questa donna si sia resa àncora, amica, sostegno, sia
per familiari e amici, quanto per molte persone che, pur conoscendola per poco,
l’hanno tanto stimata e apprezzata quanto ora la piangono.
Sembra la
cronaca di una delle tante scene che tanti hanno vissuto.
Ma in questa
storia particolare emergono negativamente le parole omiletiche che si impongono
come “dannosa interpretazione del vissuto”.
Il prete che
presiede il rito funebre, durante l’omelia, dopo aver ricordato i sorrisi, la
gentilezza, la forza della donna, esclama, senza un attimo di esitazione, che,
in fondo, “lei è stata un’eletta di Dio” facendo riferimento alle sue
sofferenze.
Panico tra i
presenti.
Sguardi che
si incrociano.
Volti
increduli.
Corpi in
disagio.
E nella
spiegazione di quelle parole, il disagio aumenta: il prete stava affermando che
la malattia di quella donna era segno di una “elezione di Dio”.
Solo la
compostezza e il rispetto dei presenti ha fatto sì che la rabbia non esplodesse
in protesta. E questo accade spesso.
Le immagini “demoniache di Dio”
La
narrazione omiletica non è una impresa semplice, ma la complessità del momento
non deve indurre a giustificare ogni parola né a lasciarsi andare in
semplicismi improvvisati.
L’omelia non
va affatto confusa né con una esegesi biblica né con una catechesi teologica.
L’omelia, in quanto azione liturgica, è una narrazione che immerge tutta
l’assemblea (e l’omileta stesso) nella consapevolezza e nella tensione, non
moralistica, di come Gesù Cristo coinvolge nella sua esperienza come “figlio
prediletto”: immersione attuale in quelli che la tradizione ha chiamato
“misteri di Cristo”. È noto anche che le narrazioni religiose rimangono ambigue
perché, come le parole delle narrazioni mitologiche, conservano in sé l’indicibile
e l’indeducibile (ovvero, l’esperienza religiosa). E anche l’esperienza della
fede cristiana rimane indicibile poiché indicibile è Dio stesso nella nostra
vita.
Ora, ciò che
qui interessa, non è la comprensione della dinamica omiletica in quanto
“azione” e in quanto “azione narrativa”.
Ciò che va
chiarito è che le narrazioni omiletiche non possono più presentare un’immagine
di Dio relativa più ad una teologia della “predestinazione deterministica” (in
realtà sempre insostenibile) e ad una teologia amartiocentrica per la quale
“soffrire è segno di benevolenza di Dio”.
È chiaro che
queste narrazioni, dopo la teologia del Novecento, dopo l’autocomprensione del
Concilio Vaticano II, dopo il passaggio dal “teismo deterministico-aristotelico”
a un “teismo cristiano” in cui la libertà delle cause e delle coscienze, più
che essere necessariamente orientata da un “occhio supremo” o da un “motore
immobile”, è coinvolta in una storia di relazione intersoggettiva tra il
vissuto del singolo e il vissuto del Cristo. Tutte le altre narrazioni
deterministiche sono totalmente fallimentari, oscure e, in una sola parola,
erronee.
Pensare di
tracciare una linea tra la sofferenza di una persona e l’elezione divina fa
parte di un approccio fatalistico di narrazione deterministico-esistenziale
che ambiguamente risale al concetto di “vocazione”.
Questo tipo
di narrazione è totalmente in capace di spostare il proprio baricentro dal
concetto di “onnipotenza” aristotelico (“Dio può tutto e tutto ciò che accade è
voluto da Dio”, inversamente reso col celebre “non si muove foglia che Dio non
voglia”) al concetto di onnipotenza (rivelato nella storia del Crocifisso-Risorto)
che ricorda come, in tutto ciò che accade (senza determinismo) Cristo continua
a vivere, con presenza amorevole, nelle nostre esperienze e le
nostre esperienze. E in questa dinamica cristologica, anche il “Padre” (ovvero
la “Origine” della vita) più che essere “colui che muove i fili” di esistenze
di individui considerati nient’altro che “pupi”, è quella indicibile fonte di
vita che preme perché la vita sia sempre orientata nel suo amore, nel suo
spirito, realizzatosi in questa storia umana dalla storia vissuta del Cristo.
In un solo
concetto: Dio è onnipotente non perché decide tutto quello che deve accadere
(determinismo) ma perché rimane la fonte della vita e della sua forza in ogni
cosa che accade.
Allora, è un
approccio teologicamente errato quello che considera che cellule tumorali sono
determinate per diretta “causa divina” (causa necessitante di aristotelica
memoria) piuttosto che comprendere che, al di là del fatto che per cause varie
e non “deterministicamente necessarie” cellule impazzite causano tumori (e ciò
po' succedere e può non succedere), la nostra esistenza rimane custodita
nell’esperienza di Cristo, che nasce, che cresce, che prega, che loda, che
soffre, che non comprende immediatamente ciò che gli succede, che piange, che è
terrorizzato “fino alla morte”, che si abbandona alla fonte della sua vita con
l’ultimo respiro.
La
narrazione deterministica, d’altronde, fomenta “visioni demoniache di Dio” (in
questo senso eccellente il lavoro di Karl Frielingsdorf degli anni ’90 che a
noi è pervenuto nella traduzione di Ma Dio non è così. Ricerca di
psicoterapia pastorale sulle immagini demoniache di Dio). Questo approccio dimentica
una visione cristocentrica dell’esperienza religiosa e dell’esperienza umana.
Se le parole omiletiche, pur nella loro legittima ambiguità e poeticità, non sono capaci di uscire dal determinismo, saranno solo parole false, dannose e demoniache che fanno rivoltare i morti nelle tombe e dannano i vivi che piangono i morti. E non saranno solo parole vuote (e ce ne sono fin troppe), ma dannose: parole che non fanno risunare alcuna “Parola” creando vuoto e, peggio, panico e rabbia.
La Liturgia deve tornare a scoprire il suo cristocentrismo: stare nel Cristo.
Che le omelie riscoprano la narrazione cristocentrica: far stare nel Cristo, nei suoi sentimenti (cfr. Fil 2, 6).
E che almeno i nostri morti (nella speranza cristiana “eletti” perché con, per e nel “figlio eletto”) siano lasciati “dormire” nella morte di Cristo che tutto abbraccia e nulla determina e preordina, tantomeno “la sofferenza dei suoi eletti”.
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