“Dotti” che nascondono e “piccoli” che rivelano
Assimilare i “dotti” a chi si dedica al lavoro intellettuale e i “semplici” a coloro che
non hanno “istruzione” è davvero un artificio per confermarsi chiusi nelle proprie
“idee” e quindi per svelarsi “dotti”.
Umberto
Rosario Del Giudice
Gesù il “piccolo”
La Liturgia della
Parola di oggi propone la lettura di Mt 11, 25-30.
Vorrei brevemente
soffermarmi sul primo versetto, il v. 25, che si rivela un punto fondamentale
della narrazione di Matteo.
Tuttavia, esso
si comprende bene se si tiene conto delle dichiarazioni del v. 27: «Tutto è
stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e
nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà
rivelarlo».
Questo versetto
si allaccia alle altre centrali e fondamentali dichiarazioni della narrazione
matteana e che rimandano al battesimo di Gesù («Questi è il Figlio mio, l’amato:
in lui ho posto il mio compiacimento»; 3, 17b), all’episodio della trasfigurazione
(«Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
Ascoltatelo»; 17, 5b) e ai detti del Cristo risorto («A me è stato dato ogni
potere in cielo e sulla terra»; 28, 18b).
Questi rimandi
sono importanti per cogliere il senso del v. 25 che spesso viene pensato senza tener
conto del contesto.
“Dotti” e “piccoli”
sono messi in relazione al “Figlio” che nella dinamica appare come il vero “piccolo”.
“Dotti” e “piccoli”
Dovremmo però
soffermarci sulla parola con cui la versione della CEI traduce “piccoli”: nel
testo in greco troviamo “νηπίοις” (nepiois) ovvero dell’aggettivo
“νήπιος” (nepios)[1].
Per non
cedere a tecnicismi basterà evidenziare l’opposizione che c’è tra i “dotti” e i
“piccoli” ovvero i “semplici” (come qualcuno traduce): i primi “dicono”, “osservano
e dettano leggi”, “si conformano alle idee”, seguono “desideri”, acconsentono “ai
voleri di qualcuno”…, i secondi sono coloro che “fanno”, che “ascoltano”, che “sono
mansueti”, in qualche modo “infantili”, che sono “giovani” perché posti sotto la
tutela di qualcuno; nella letteratura greca questo termine è associato, per l’uomo,
al bambino semplice, senza lungimiranza, o anche al “cieco”.
Allora qual è
l’opposizione fondamentale tra i dotti e i semplici? È l’origine della propria
identità: il “Padre”. Egli è quella fonte di identità altra rispetto ai
soggetti; una fonte che chiede relazione e che va scoperta nella vita, nei
vissuti.
Tra i “semplici”
va annoverato Gesù stesso: lui è il “piccolo”, il “semplice” del Padre, che
costruisce la propria identità seguendo ciò che “ascolta” dal Padre: per questo
diventerà colui che ha “ogni potere”, colui che “cavalca l’asina” (cfr. Zc 9, 9-10
prima lettura) contrariamente ai “dotti” che hanno il “potere” delle “idee” e
non dei “fatti”. I “piccoli” sono quelli che “ascoltano” non quelli che “dettano”.
Il contesto immediato ce lo ricorda: qualche versetto prima Gesù appare come
stanco del rifiuto di chi non voleva ascoltare Giovanni il Battista (che appare
come l’altro piccolo) e i suoi discepoli (gli altri piccoli perché seguono Gesù)
e dice:
«Tutti i
Profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete
comprendere, è lui quell’Elia che deve venire. Chi ha orecchi, ascolti!
A chi posso paragonare questa generazione? È simile a bambini che
stanno seduti in piazza e, rivolti ai compagni, gridano: “Vi abbiamo suonato il
flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti
il petto!”».
Gesù,
dunque, in questa pericope appare come colui che loda il Padre perché nei “piccoli”
si è rivelato: e in questo caso i piccoli sono Giovanni battista, Gesù e i suoi
discepoli.
Dotti che nascondono e
semplici che rivelano
Alla luce di
quanto detto assimilare semplicisticamente i “dotti” a chi si dedica al lavoro
intellettuale e i “semplici” a coloro che non hanno “istruzione” è davvero un
artificio per confermarsi chiusi nelle proprie “idee” e quindi per rivelarsi tragicamente “dotti”.
Quest’ultimi
continueranno con le loro “idee autodeterminate” e non riusciranno a “conoscere”
e a “rivelare” il volto del Padre perché non potranno viverne la vicinanza, la “fonte”,
la “paternità” di tutto nel loro vissuto. Non si mettono mai in discussione; vivono
di certezze; “vedono idee” ma non “ascoltano parole”.
Gesù a più
riprese fa uso di “sapienza”, cita le Scritture, dà prova di “fine intelligenza”
(come nel caso delle varie dispute), mantenendo sempre piena empatia e linearità
trasparente con gli interlocutori che si avvicinano a lui nella propria verità.
Dire che Gesù
amava i “piccoli” perché disprezzava la “sapienza” è tradire il messaggio
evangelico.
Nella pericope
proprio Gesù viene manifestato come il “piccolo”: colui che segue il “Padre”. Ecco
perché il brano scelto per questa domenica (XIV del tempo ordinario – anno A) si
conclude con l’indicazione “venite a me”.
Gesù, la sua
vita, le sue parole e i suoi gesti, in continua relazione col Padre, diventa il
confine tra “dotti” e “semplici”.
Dunque, assimilare
“i dotti” agli “intellettuali” e i “semplici” a chi semplicemente “non ha
competenze” e quindi contrapporre “intellettuali” a “ignoranti” è ricorrere ad
un sofisma che nel vangelo non c’è.
Accade però
che chi ha forti insicurezze debba proteggersi dietro strutture forti: così l’ignoranza
non diventa l’ambito di chi sa poco ma di chi pretende di “sapere tutto per
puro fideismo” ingabbiando anche le immagini del “Padre”.
Proprio per
questo accade nella fede che alcuni “intellettuali” sono “semplici” e molti “fideisti”
fanno i “piccoli” ma si rivelano dei veri e propri inabili all’ascolto: e
diventano i “dotti”, i “sapienti”.
La differenza
non sta nelle competenze intellettuali o nelle capacità cognitive ma nella “capacità
di ascolto”: solo l’ascolto radicale rende “semplici”. E nel rimandare al Padre
la propria identità, l’identità delle cose, il sapere, ci si ritrova; e (come
suggerisce ἀναπαύσω, anapauso) nell’ascolto, ovvero nel
rimandare al Padre la propria sorte e nel riconoscere nel Padre la fonte di ogni
identità, si trova “ristoro”, ci si ricarica!
[1] Questo termine
è costruito dal suffisso negativo “ne” (che sta per una negazione) più “ἔπος”
(epos) che rimanda al verbo ἐπω (epô) che vuole dire
sostanzialmente “dire” – molto presente in Matteo.
Interessante il confronto semplici-dotti
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