Ad reddendam rationem fidei catholicae contra errores

 


 Dalla Teologia manualistica, alla teologia del Denzinger, dalla Teologia del Magistero a quella del senso del Popolo di Dio. L’assenso di fede, la fede rivelata, la fede ritenuta… L’approfondimento della fede e del suo contenuto è inevitabile. Ma se c’è solo “assenso” può esserci spazio per analisi critica e scientifica?

 

Umberto Rosario Del Giudice


In questi giorni, in cui la “vicenda Lintner” ha mostrato alcune criticità del rapporto tra magistero e teologia, un post di Andrea Grillo intitolato L’ombra del codice sul caso Lintner. La teologia come zerbino?, ha richiamato l’attenzione su alcuni aspetti giuridici relativi alla formulazione tra la prima e la seconda codificazione. Facendo mie quelle riflessioni, aggiungerei alcuni elementi per suggerire uno “status quæstionis”.

 

L’intervento di Andrea Grillo

Nel suo post, Andrea Grillo riprende delle riflessioni del giurista Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo il quale vi è stato un «mutamento di stile prevalente tra “negare l’errore” (magistero negativo) e “affermare la verità” (magistero positivo)»; tra le righe di questo cambio di modello «possiamo rilevare un mutamento della normativa che sovraintende ai “doveri professionali” del teologo».

A corroborare questo cambio di intervento (dall’indicare l’errore all’affermare e sistematizzare le dottrine) basta ricordare i titoli di alcuni tra i principali documenti della Congregazione pubblicati subito dopo il Concilio Vaticano II (Lettera circolare ai Presidenti delle Conferenze episcopali circa alcune sentenze ed errori insorgenti sull’interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II, 1966; Mysterium Filii Dei, Dichiarazione riguardante gli errori circa i misteri dell'Incarnazione e della Trinità, 1972; Mysterium Ecclesiae, Dichiarazione riguardante alcuni errori circa la dottrina cattolica sulla Chiesa, 1973; Persona humana, Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale, 1975).

Dal 1984 in poi, i titoli non citano più gli “errori” ma diventano “Istruzioni” o “Dichiarazioni” (mentre continuano le “notifiche”). È innegabile che il cambio tra “errori” e “istruzioni” abbia comportato uno stile magisteriale “positivo” che tende a “fare teologia”. Non perché la Congregazione (oggi Dicastero) non debba promuovere la riflessione teologica: il vero limite è sostituire tutta la teologia con le dichiarazioni del Magistero. Il risvolto giuridico sarà poi dettato dalla Professione di fede.

 

 

La Professione di fede e la vacatio legis

Che la Congregazione fosse preoccupata che il magistero dei teologi rimanesse nell’alveo della riflessione proposta non solo dal Magistero solenne ma anche da ogni insegnamento e predicazione dei Pastori, è evidente nella Professio fidei redatta nel 1988 e che va a sostituire quella del 1967. La considerazione attenta di quella Professione non solo viene ribadita ma conduce nel 1998 alla modifica del can. 750.

Nella seconda parte della Professione del 1988 si cita ciò che “dichiarano” i Pastori. La forza delle loro “dichiarazioni” risiede non nelle dichiarazioni stesse ma nell’essere autorevoli in quanto “autentici dottori e maestri della fede”. Si nota come in queste “dichiarazioni” l’autorità gerarchica superi quella dottrinale.

Queste le Professioni:

 

Professio fidei 1967

Professio fidei 1988/1998

Credo…

Credo…

Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina sulla fede e i costumi, sia che siano state definite dalla Chiesa con giudizio solenne sia che siano state asserite e dichiarate con magistero ordinario, come dalla stessa sono proposte, soprattutto quelle che riguardano il mistero della santa Chiesa di Cristo, i suoi Sacramenti e il Sacrificio della Messa come pure il Primato del Romano Pontefice.

Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.

Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo.

 

Nell’esercitare l’ufficio, che mi è stato affidato a nome della Chiesa, conserverò integro e trasmetterò e illustrerò fedelmente il deposito della fede, respingendo quindi qualsiasi dottrina ad esso contraria.

 

[…]

 

Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e presterò fedelmente aiuto ai Vescovi diocesani, perché l’azione apostolica, da esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia compiuta in comunione con la Chiesa stessa.

 

Come si può notare, la Professio del 1988 introduce nella seconda parte alcuni commi «al fine di meglio distinguere il tipo di verità e il relativo assenso richiesto» (così commenterà il m.p. Ad tuendam fidem).

 

Questo in sintesi il risultato:

 

Professio 1967

Magistero

Fede richiesta

Verità definite

Dottrine asserite e dichiarate (con giudizio solenne) o proposte

Accogliere e ritenere

 

Professio 1988/1998

Magistero

Fede richiesta

Dottrine divinamente rivelate

Solenne e ordinario

Assenso di fede divina e cattolica (fede teologale) = de fide credenda

Singola dottrina

Proposta come definitiva (ma non infallibile): «verità necessariamente connesse con la divina rivelazione… per ragioni storiche sia come logica conseguenza» (secondo ATF)

Obbligo di ritenere per fede (fede dottrinale) = de fide tenenda

Magistero autentico

Dichiarazioni. Nessuna definitività né infallibilità

Religioso ossequio (cristiana obbedienza per fede e nella fede) = obsequium religiosum

 

Come si vede, e senza entrare molto nel merito delle distinzioni, la “fede implicata e richiesta” (teologale, ritenuta, ossequiosa) cambia a seconda del “grado di verità” (infallibile, definita o dichiarata).

Ne risulta che chi fa teologia è praticamente inserito in questo schema che, nonostante le chiare distinzioni giuridiche e dogmatiche, lascia poco spazio alla riflessione critica e implica nella realtà una sovrapposizione di “fedi” che a volte non solo sono difficili da distinguere ma creano (e chiedono) esse stesse un “campo di assenso e obbedienza” generico e generale.

 

Il nuovo assetto della Professione poi condusse alla modifica del can. 750 (sempre col motu proprio Ad tuendam fidem) che praticamente si sdoppiò in due paragrafi:

 

can. 750 CIC 1983

can. 750 §1-2 (modifica ATF 1998)

Can. 750 - Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria.

Can. 750 - §1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria.

 

 

§2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la dottrina della fede e dei costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente.

 

A questi si aggiunge il non modificato can. 752:

«Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell'intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda».

 

È chiaro lo schema di dottrine che richiedono fede “divina e cattolica” (dottrine infallibili e deposito inalienabile), fede “ritenuta” (dottrine definite) e di fede “ossequiosa” (dottrine autentiche) e le sempre più impercettibili differenze (le definizioni e le dottrine autentiche sono sempre più legate agli schemi di dottrine infallibili). Il lavoro critico del teologo è azzerato, quasi asservito, o, addirittura, annichilito e mortificato. L’autocensura dei teologi più che una necessità esplicita appare come l’unica risposta implicita possibile per rimanere “autentici”. Una strada che forse si intraprende non tanto per quieto vivere quanto per incapacità della teologia di essere scientifica e critica in un contesto in cui il pensiero è implicitamente vincolato senza poter offrire la verifica dovuta.

Eppure, quando la Congregazione nel 1998 dichiara che le dottrine da ritenere appaiono come «verità necessariamente connesse con la divina rivelazione… per ragioni storiche sia come logica conseguenza» (secondo ATF), sorge il lecito e necessario dubbio che quelle ragioni storiche e logiche vadano costantemente verificate proprio per poter conservare il loro carattere di “dottrine definite” (sebbene non ricevano il carattere di infallibili). Ma se i teologi sono dapprima scoraggiati o inclini a non verificare quelle dottrine che loro stessi devono “accogliere e ritenere” a priori, come farà il Magistero gerarchico a servirsi delle competenze della teologia e della sua critica per la verifica storica e logica? È possibile che il fatto di “dover ritenere e accogliere” scoraggi o impedisca i teologi dal loro necessario servizio? Se poi i teologi, più che verificare gli asserti dottrinali, continueranno a riproporre stesse idee e stessi percorsi logici senza neanche la verifica storica dei presupposti (logici e contestuali), possono ancora dirsi tali? O non sarebbe meglio chiamargli “addetti stampa”? Più che un dubbio rimane una possibile realtà. Certo, teologi che sappiano fare davvero il loro mestiere ce ne sono: ma la critica scientifica ha bisogno di verifica ecclesiale e gerarchica e non di uno schema in cui rientrare.

Alla Chiesa (e non solo al Magistero) sarebbe tolta la possibilità della continua verifica storica e logica: ciò che rende la teologia una scienza. D’altra parte, se il Magistero gerarchico dispone solo “con autorità” come farà la teologia a ricevere una verifica autorevole?

 

Alcuni ambiti da “ritenere”

Almeno tre ambiti sembrano davvero importanti per i risvolti dell’equilibrio tra Magistero e Teologia. Credo si possano così sintetizzare: rapporto tra dottrina e Scrittura; rapporto tra dottrine e storia; rapporto tra sensus fidei e dottrine.

Per quanto riguarda la relazione tra Scrittura e dottrine bisogna chiedersi, alla luce dei canoni succitati, se la riflessione teologica può ricorrere alla critica testuale. Se il ricorso alla Sacra Scrittura è un punto qualificante il lavoro teologico, in che modo possono essere proposte interpretazioni critiche. Il teologo che deve “accogliere e ritenere” e ossequiare ciò che viene insegnato dai pastori (come autentici dottori e maestri), sarà ancora totalmente in grado di non asservire la Scrittura al dogma? Se i passi della Scrittura sono usati, selettivamente, solo in funzione della dottrina definita, come sarà possibile verificare la dottrina?

Il pericolo di condurre la Scrittura al dogma o alla dottrina autentica deve essere sempre contenuto proprio nell’attenzione e nella vigilanza tanto dei Pastori quanto dei teologi.

 

Dal punto di vista della verifica storica, può la comunità di teologi proporre una sempre più condivisa ricostruzione storica delle “idee” e dei “concetti” che stanno dietro o che sono presupposti alle dottrine “definite” e (almeno non ancora) non inalienabili per il deposito? In che modo e in che misura i teologi possono presentare liberamente i risultati di verifiche storiche intorno a idee e contesti verificati con gli strumenti della scienza storica e della logica filosofica? Se la istruzione decisiva delle dottrine è contenuta nelle “dichiarazioni” che a volte ripropongono anche itinerari storici e logici, a cosa serve il lavoro teologico se non a ripetere quelle dichiarazioni o a sostenerle? È vero: i teologi trovano anche motivazioni fondamentali per le loro ricerche nelle indicazioni del Magistero gerarchico; ma tutto questo non crea un contesto senza condivisioni scientifiche? Se il Magistero e i Pastori conservano un rapporto aprioristicamente critico verso le scienze storiche, verso gli strumenti della logica moderna e verso i nuovi vissuti dei fedeli, come potranno ascoltare le istanze di chi cerca di dire e ricomprendere i frutti e le indicazioni del deposito? Se Roma e solo la “parola di Roma” sono determinanti anche nelle ricostruzioni e negli strumenti logici, non ne risentono poi tutti gli sforzi ecumenici (esterni) oltre che dialogici (interni) per una Chiesa che si vuole presentare come “dialogante”? Adoperare solo alcuni strumenti logici per tradurre il deposito non comporterebbe di nuovo e di fatto un assolutismo romano? Non è forse vero che teologi non occidentali di origine ora fanno teologia prevalentemente con gli strumenti “logici occidentali”?

Non è che la “fede teologale, quella da ritenere e l’ossequio” formino un “partito” delle dottrine da difendere senza più cogliere la possibile bontà della ricerca teologica e dei vissuti che pure possono “dire dottrine”?

 

Il sensus fidei

L’ultimo elemento sopra citato e che riprendo volentieri a parte è quello del “sensus fidei” (richiamato dal 750 §1): non è solo un “romantico rimando ecclesiale” ma è il contesto della “infallibilità delle dottrine”. Non si tratta di “consentire ai fedeli di provare qualcosa in ordine alla fede”. Il “sensus” non è un “sentimento”: il “sensus fidei” è altro dal Magistero dei teologi e dal Magistero dei Pastori ed è quel “senso del soprannaturale” che vive nei fedeli tutti che credono e seguono il Cristo che si è autodonato, che è morto ed è resuscitato per noi: questo senso è particolarmente autentico perché precede le categorie logiche e vive nella storia la fede. In esso vi è la percezione di tutte le verità che il popolo conserva e percepisce sebbene sotto la guida del Magistero che però non può restringere il “sensus” a ciò che capisce della fede ma deve conservare la fede cercando di comprendere anche quel “sensus” della fede vissuta. Il Magistero ecclesiastico è chiamato a conservare la fede e a riconoscere il suo senso soprannaturale prima di dettarlo. Tale finalità insieme allelaborazione sistematica delle dottrine non può essere perseguita senza la scientificità teologica che non si identifica nella sola autorità dei Pastori.

Infatti: «La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio, il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte, con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente lapplica nella vita» (Lumen gentium, 12).

Questo “sensus” preme affinché le dottrine siano verificate, discusse, ben formulate fino ad arrivare a ciò che il can. 749 §3 chiede: la dottrina manifestamente infallibile («Nessuna dottrina si intende infallibilmente definita, se ciò non consta manifestamente»).

 

Conclusioni

Quello del Magistero gerarchico è sicuramente un compito delicato e sarebbe un vero “errore” dichiarare e istruire senza permettere che la ricerca teologica esprima il proprio munus ecclesiale: la teologia deve promuovere interpretazioni e comprensioni della Parola scritta e rivelata armonizzando diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale. Nella dinamica di vera ed equilibrata collaborazione tra certezza magisteriale e scientificità teologica la fede non potrà che tutelarsi e crescere.

Se la predicazione ha bisogno di semplicità e di chiarezza, il Magistero ecclesiale e gerarchico ha bisogno della comunità dei teologi per bene custodire, scrutare, annunciare e diffondere, senza far cadere in errore tutto il Popolo. Purché non ci si fermi alla Denzingertheologie...

Anche il magistero dei teologi, nel suo essere rigore, valutazione, riflessione scientifica, deve essere tutelato dal magistero dei Pastori per rendere ragione della fede cattolica contro gli errori: ad reddendam rationem fidei catholicae contra errores. Sarebbe un errore grave, infatti, pensare la fede solo in ordine agli schemi prodotti dall’autorità gerarchica e non cercare vero equilibrio tra dottrine proposte e fede intelligente.

 


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