Prassi ecclesiali e preparazione al matrimonio
Appunti sugli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale
Umberto Rosario Del Giudice
Il
recente Documento intitolato Itinerari
catecumenali per la vita matrimoniale. Orientamenti pastorali per le Chiese
particolari ha suscitato varie riflessioni e reazioni.
Il
Documento (sarà chiamato così per sintesi), pubblicato dal Dicastero per i
Laici, la Famiglia e la Vita, che riprende quello pubblicato dal Pontificio
Consiglio per la Famiglia nel maggio del 1996 (Preparazione
al sacramento del matrimonio) vuole essere una «proposta pastorale
concreta e complessiva, che ogni Chiesa locale è invitata a prendere in considerazione
nell’elaborazione di un proprio itinerario catecumenale per la vita
matrimoniale, rispondendo così in modo creativo all’appello del Papa».
Non
va dimenticato che le varie Conferenze Episcopali avevano già Documenti di riferimento
anche per gli itinerari di preparazione al matrimonio. In Italia, ad esempio, la
Conferenza Episcopale Italiana aveva già prodotto un Direttorio
di pastorale familiare per la Chiesa in Italia nel 1993;
successivamente la Commissione Episcopale per la famiglia e la vita (sempre
della CEI) aveva pubblicato gli Orientamenti
pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia (nel 2012). A
poco meno di dieci anni, quegli orientamenti, alla luce della nuova proposta
dicasteriale, andranno rivisti.
Non
propongo una lettura sinottica di questi documenti appena citati, ma vorrei
richiamare l’attenzione su alcuni elementi che, in altri modi e con altri stili
sono già emersi sia nel recente intervento esemplare di Basilio Petrà (Itinerari
catecumenali e castità) che nel bel dialogo tra Antonello Siracusa
e Andrea Grillo, apparso sul blog di quest’ultimo (Itinerari
catecumenali per gli sposi? Un dialogo su fede e matrimonio).
I
due interventi mettono in luce due elementi critici essenziali: da una parte
Petrà ricorda come sia riduttivo richiamare la virtù della castità senza tener
conto del livello esistenziale ben oltre la valutazione giuridica dell’esperienza
di coppia; Grillo, tra l’altro, mette in guardia il pericolo di clericalizzazione
del matrimonio o sua “consacrazione”.
In
linea con questi due interventi vorrei evidenziare due elementi: il centro è il
battesimo purché questo sia tutelato nell’esperienza di fede e nello stile
di ciascuno senza che ci debba essere formazione di serie A e formazione di
serie B; la “pastorale”, il cui sostantivo o aggettivo di per sé rimanda
già alla figura e alla funzione di chi è “pastore” (vescovi e presbiteri), va
tutelata per quel che è, vale a dire un’opera di tutta la comunità
ecclesiale, e a tutti i livelli.
Il “battesimo” al centro
Nella
premessa del Documento, papa Francesco riprende alcune sue affermazioni rispetto
alla centralità del battesimo proponendo un parallelismo tra “cammini” catecumenali
e matrimoniali. Egli scrive: «come per il Battesimo degli adulti il
catecumenato è parte del processo sacramentale, così anche la preparazione al
matrimonio diventi parte integrante di tutta la procedura sacramentale del
matrimonio, come antidoto che impedisca il moltiplicarsi di celebrazioni
matrimoniali nulle o inconsistenti» (Discorso alla Rota Romana, 21 gennaio
2017). Si noti che la preoccupazione principale è evitare celebrazioni “nulle”
o “inconsistenti”.
Due
note sintetiche:
- Se per la preparazione prossima e
immediata al matrimonio il modello è quello del cammino catecumenale per gli
adulti, allora si afferma indirettamente fin dal principio che tutte le coppie
che si apprestano a celebrare il matrimonio hanno avuto un cammino di iniziazione
cristiana quanto meno limitato. Questa evidenza rivela ancor più la crisi dell’attuale sistema di iniziazione (pedobattesimo, prima comunione all’età
di circa dieci anni, cresima…).
- La giusta preoccupazione del Pontefice
è quella di evitare celebrazioni “nulle” o “inconsistenti”. Se la prima è
prevalentemente una preoccupazione canonistica, la seconda è esistenziale.
Tuttavia, se è vero, come è vero, che le due dimensioni (giuridica ed
esistenziale) non possono essere separate, è anche vero che la formazione pastorale
dei ministri che si occupano delle future coppie è di solito orientata più sul
piano giuridico (matrimonio valido/non valido…) e morale (i beni/doveri del
matrimonio). L’attenzione “pastorale”, in questo caso, è di carattere prevalentemente
etico-giuridica e comunque rimandata alla responsabilità dei soli “pastori”. Se
la dimensione “esistenziale” della vita di coppia non si esaurisce (e non nasce)
né nella forma giuridica né in quella etica allora c’è bisogno di ulteriori
competenze che raramente si possono ritrovare in un solo “pastore”. Ragion per
cui, se la seconda preoccupazione è evitare “celebrazioni inconsistenti”,
la preparazione, la cura e la mens della formazione al matrimonio
non può essere delegata ai soli “pastori” che magari concepiscono il matrimonio
come “consacrazione”. C’è bisogno di un cammino molto più articolato tra
formazione spirituale, etica, affettiva, esistenziale, dinamica… ma che
rispetti le prerogative della formazione alla “vita” e alla “vita cristiana” in
genere.
I soggetti e le strutture della formazione
pre-matrimoniale: una questione “pastorale”?
Il
Pontefice riconosce che la Chiesa «è madre, e una madre non fa preferenze fra i
figli. Non li tratta con disparità, dedica a tutti le stesse cure, le stesse
attenzioni, lo stesso tempo. Dedicare tempo è segno di amore: se non dedichiamo
tempo a una persona è segno che non le vogliamo bene. Questo –afferma il Papa– mi
viene in mente tante volte quando penso che la Chiesa dedica molto tempo,
alcuni anni, alla preparazione dei candidati al sacerdozio o alla vita
religiosa, ma dedica poco tempo, solo alcune settimane, a coloro che si
preparano al matrimonio. Come i sacerdoti e i consacrati, anche i coniugi sono
figli della madre Chiesa, e una così grande differenza di trattamento non
è giusta. Le coppie di sposi costituiscono la grande maggioranza dei
fedeli, e spesso sono colonne portanti nelle parrocchie, nei gruppi di
volontariato, nelle associazioni, nei movimenti».
Anche
per questo passaggio suggerisco due note:
- La preparazione al matrimonio è riconosciuta nella sua complessità tanto che si evoca un’attenzione particolare per la formazione dei nubendi (e degli sposati). Certo è che il richiamo alla formazione seminariale (per i candidati al sacerdozio) o alla formazione religiosa (per coloro che vogliono abbracciare la vita consacrata) non sembra del tutto scevra dal pericolo di introdurre non tanto una giusta, equilibrata, qualificata formazione per la preparazione al matrimonio ma quella tentazione di riduzione clericale anche del matrimonio, pensando ad una formazione sottoforma di “apprendistato”: gli sposi sarebbero chiamati ad apprendere uno stato di vita (così giuridicamente) al di là del loro stile e della forma di esperienza che già hanno, e che pure è al centro non solo del loro cammino ma anche del loro (prossimo) sacramento, specchio dell’amore passionale di Dio (chissà cosa ne penserebbero i protagonisti del Cantico dei cantici!?...). La qualità del sacramento del matrimonio non deriva originariamente dallo “stato di vita matrimoniale” (tendenza etico-giuridica) ma dall’esperienza di autodonazione propria della coppia, che solo la coppia realizza e può realizzare nella complicità d’intesa e non nella rigidità comportamentale (preoccupazione di stile moderno).
- I soggetti della formazione sarebbero in ordine Vescovi diocesani, Parroci (e diaconi) e altre coppie impegnate. Se qui si nota una certa attenzione ad allargare “pastorale” al concetto di “azione ecclesiale”, il pericolo di ridurre ancora “pastorale” a “pastori” e dietro l’angolo. La formazione eppur sempre autoformazione poiché nessuna formazione potrà raggiungere completamente il suo scopo se non voluta e cercata. Non solo autoformazione; la questione rimanda anche alle competenze di chi forma. Soprattutto, non tutti possono fare tutto: una pastorale basata su competenze esclusive dei “pastori” prepara ad un corto circuito tra esperienza, complessità dell’umanità (e dell’affettività) e passionalità/volontà dei singoli. La “pastorale”, dunque, va considerata sempre come “azione d’insieme”. Nel caso della preparazione al matrimonio, l’azione non può esaurirsi nelle ultime settimane prima del matrimonio ma richiede quello che Familiaris consortio al n. 66 ricordava essere la “preparazione remota” che iniziava fin da piccoli e con l’inserimento in una comunità cristiana: «la preparazione remota ha inizio fin dall’infanzia, in quella saggia pedagogia familiare, orientata a condurre i fanciulli a scoprire se stessi come esseri dotati di una ricca e complessa psicologia e di una personalità particolare con le proprie forze e debolezze». Tale impostazione, sebbene quasi massimalista e che pensa ad una società cristiana “perfetta”, non distoglie la preoccupazione da una realtà: la formazione non è un fatto intellettuale che si può risolvere in poche settimane di preparazione prossima e immediata.
Matrimonio tra battesimo e pastorale
Riprendo
gli elementi sopra citati, ovvero battesimo e pastorale.
Dichiarare
che il cammino per la preparazione al matrimonio debba seguire lo stile “catecumenale”
è comprensibile se si tiene conto della gradualità del percorso catecumenale,
del suo ambito liturgico e del suo ambito umanistico-catechetico oltre che dottrinale.
Ma rimandare la preparazione a “puro cammino catecumenale” significa dichiarare
l’inaffidabilità e l’irrilevanza (ormai) dei nostri cammini di iniziazione
cristiana. Non sarebbe meglio preoccuparsi della “vita cristiana” anziché pensare
alla preparazione prossima al matrimonio come un’occasione per rifondare la
vita di fede? Non sarebbe il “matrimonio cristiano” coronamento della capacità
di autodonarsi e accogliere nella fede con tutta la propria esperienza, la
propria passione, la propria responsabilità di essere se stessi? Non sarebbe il
“matrimonio” una forma di donazione già iniziata nel battesimo? Non si rischia
di ridurre ad indottrinamento il percorso di autodiscernimento sulle
proprie forze, sulle proprie capacità e sulla propria fede vissuta per e con il
bene dell’altro? E questo rischio non deriva dal fatto che al matrimonio si
arriva con una formazione cristiana spesso minima? E allora, perché chiedere il
matrimonio cristiano?
Sulla
forma “pastorale” dell’azione ecclesiale circa la preparazione al matrimonio, vorrei
ricordare che la parrocchia deve essere comunità educante per tutti:
essa o è luogo di formazione per tutti o verrà continuamente ripensata come “agenzia
per laici", una “periferia ecclesiale. Il rimando alla complessa
questione della formazione dei seminaristi diocesani è d’obbligo: se la
differenza tra i luoghi e le strutture di formazione rimane così rigida e
separata si nutrirà ancora la disuguaglianza di fondo tra il sacramento dell’Ordine
sacro e quello del Matrimonio. In realtà, non si tratta di pensare la formazione
al matrimonio come quella per il ministero o per la vita consacrata. Si tratta
principalmente di ripensare la comunità parrocchiale come luogo di formazione in
sé, anche per seminaristi, almeno in parte. Forse è un’utopia, ma se le comunità
parrocchiali fossero comunità di vita cristiana piuttosto che porzione di
popolo affidate ad un pastore, si eviterebbero le diseguaglianze pratiche e
ideologiche tra “i due generi di cristiani” e soprattutto si aiuterebbero tutti
i cristiani ad essere se stessi, anche secondo funzioni e ministeri.
Va
aggiunto che se è vero che la comunità parrocchiale deve essere sempre più
comunità di formazione, è anche vero che in essa le competenze non
possono essere solo quelle dei soli “pastori”: una “pastorale” che voglia
essere formativa deve tener conto di un comune progetto formativo ma con
diverse funzioni e professionalità: la parrocchia dev’essere pensata come
luogo di esperienza religiosa e spirituale e solo così sarà anche luogo di formazione.
Inoltre,
non si capisce perché la parrocchia, con sistemi minimi, basterebbe alla
formazione dei nubendi mentre per i seminaristi c’è bisogno della struttura
ordinata e gerarchica del “seminario”, con tutte le sue guide, confessori, equipe,
psicologi… La discrepanza di forze impiegate nella formazione non solo aumenta
la distanza ma anche la separazione tra vari “stati di vita”. In questo modo,
la parrocchia come periferia del cattolicesimo gestita dal solo “pastore-guida-presbitero”
è già, dalla forma originaria della formazione, pensata e consumata.
Conclusione
Nel leggere il Documento del 2022, la mia mente è andata al Direttorio di Pastorale familiare pubblicato dall’Episcopato italiano nel 1993 a conclusione della XXXVII Assemblea Generale. Da quelle pagine però la mia mente è andata ad un altro evento, più recente: il Convegno del 2015 organizzato dalla Congregazione del Clero intitolato Una vocazione, una formazione, una missione. Ho ripreso le parole del Pontefice che, all’Udienza per quella occasione, si rivolse ai vari partecipanti. Alcune di quelle affermazioni mi sembrano valide anche per il percorso matrimoniale.
Un
esempio su tutti è questo passaggio tratto dal discorso del Pontefice in cui si mette
bene in guardia dalle dinamiche psichiche tra “seminaristi” e “strutture forti”.
Non solo l’Ordine sacro ma anche il matrimonio se diventa una “struttura forte”
rischia di divenire una “camera magmatica” la cui esplosione, sottoforma di inaffettività, aggressione diretta o indiretta, regressioni, fughe..., può far saltare ogni “vincolo sacro”.
Questo
il passaggio:
«Una
cosa che vorrei aggiungere al testo –scusatemi!– è il discernimento
vocazionale […]. Cercare la salute di quel ragazzo, salute spirituale, salute
materiale, fisica, psichica. Una volta, appena nominato maestro dei novizi,
anno ’72, sono andato a portare alla psicologa gli esiti del test di
personalità, un test semplice che si faceva come uno degli elementi del
discernimento. Era una brava donna, e anche brava medico. Mi diceva: “Questo ha
questo problema ma può andare se va così…”. Era anche una buona cristiana, ma
in alcuni casi era inflessibile: “Questo non può” – “Ma dottoressa, è tanto
buono questo ragazzo” – “Adesso è buono, ma sappia che ci sono giovani che
sanno inconsciamente, non ne sono consapevoli, ma sentono inconsciamente di
essere psichicamente ammalati e cercano per la loro vita strutture forti che li
difendano, così da poter andare avanti. E vanno bene, fino al momento in cui si
sentono bene stabiliti e lì incominciano i problemi” – “Mi sembra un po’
strano…”. E la risposta non la dimentico mai, la stessa del Signore a
Ezechiele: “Padre, Lei non ha mai pensato perché ci sono tanti poliziotti torturatori?
Entrano giovani, sembrano sani ma quando si sentono sicuri, la malattia
incomincia ad uscire. Quelle sono le istituzioni forti che cercano questi
ammalati incoscienti: la polizia, l’esercito, il clero… E poi tante malattie
che tutti noi conosciamo che vengono fuori”».
Nella
stessa Udienza, il Pontefice declinò alcune regole. Un “prete” non avrebbe
dovuto assumere alcuni atteggiamenti. Mi permetto di sostituire “prete” a
“coniuge”: credo che il risultato parli da solo.
«Un
buon “coniuge” è prima di tutto [una persona] con la sua propria umanità, che
conosce la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha
imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un
discepolo del Signore. La formazione umana è quindi una necessità per i [“coniugi”], perché imparino a non farsi dominare dai loro limiti, ma piuttosto a
mettere a frutto i loro talenti.
Un
“coniuge” che sia “una persona pacificata” saprà diffondere serenità intorno a
sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col
Signore. Non è normale invece che un “coniuge” sia spesso triste, nervoso o
duro di carattere; non va bene e non fa bene, né al “coniuge”, né al suo
popolo.
[…].
Un
“coniuge” non può perdere le sue radici, resta sempre [una persona] del popolo
e della cultura che lo hanno generato; le nostre radici ci aiutano a ricordare
chi siamo e dove Cristo ci ha chiamati».
In
questo senso non si capisce perché, se la formazione all’Ordine sacro deve
tutelare l’educazione affettiva e spirituale oltre che intellettuale, ovvero, se la
formazione deve aiutare ad armonizzare il “sé” per ben relazionarsi, nel
proprio “stato di vita”, con la “propria forma di vita”, col “proprio stile”,
con sé stessi, con gli altri e col Dio di Gesù Cristo, non debba essere tutelata allo stesso modo anche la formazione umana degli “sposi”.
Certo,
differenze sono secondo funzione: ma la base dev’essere più che comune perché battesimale. A meno che non pensiamo al “battesimo” solo come utile e funzionale al “peccato originale”.
Ecco:
i Direttori dovrebbero partire tutti da una base comune, che noi troppo
sbrigativamente chiamiamo “vita cristiana”, dall’iniziazione cristiana in poi…
Se la vita di fede non aiuta ad abbracciare e maturare pienamente la propria umanità prima e durante qualsiasi decisione o qualsiasi funzione, si rischia di creare spazi di “strutture rigide” pensate sulla carta dei Direttori piuttosto che promuovere, accogliere e valorizzare la profonda esperienza di fede dei singoli, dei nubendi e degli sposi: esperienza nei quali Dio si rivela. Come un sacramento, della vita e dell’amore, che noi chiamiamo Battesimo e Matrimonio.
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