Se la teologia “abita i confini”, la canonistica quando?
L’occasione di un seminario per un gruppo di ricerca è utile per rilanciare “temi fondamentali” anche per i canonisti. E se la teologia è chiamata a parlare “dai contesti”, cosa farà la canonistica?
Umberto Rosario Del Giudice
Si è da poco concluso un incontro del gruppo di ricerca per “Il
Mediterraneo come luogo teologico”, legato ad un progetto che vuole riflettere
sulla possibilità di un pensiero critico, di “rete evangelica”. L’inizio di
questo percorso si deve ad una comunicazione del maggio 2017 dal titolo “Una
nuova teologia per il Mediterraneo” offerta dall’allora Decano della
Sezione San Luigi della PFTIM, p. Pino Di Luccio, alla quale ha fatto
seguito l’insediamento di vari gruppi di studio oggi guidati da Pina De Simone,
attuale coordinatrice del Biennio di Teologia Fondamentale. Il lavoro di ricerca oggi, grazie anche al sostegno dell'attuale Decano, p. Mario Imperatori, favorisce
il dialogo tra docenti di diverse facoltà e istituti di ricerca.
Nelle intenzioni del gruppo di docenti, l’orizzonte del “pensiero
mediterraneo” rivela ai teologi la necessità di “abitare confini”.
Se questo è vero per i teologi che, già da anni, riarticolano
le loro riflessioni, e che ora continuano anche a partire dai contesti del
“Mediterraneo”, cos’è chiamata a fare la canonistica? Avrà bisogno anch’essa
di affrontare alcune tematiche con mens “confinale”, “aperta”,
“accogliente”, “non rigida”, “flessibile”.
Sarebbe un errore se la canonistica non si sentisse raggiunta da quest’appello. L’approccio epistemologico della canonistica rimarrà sorda a queste istanze? Tutto è possibile, infatti, ma non tutto è sostenibile. Alcuni canonisti, sia delle università statali che pontificie, stanno cercando un dialogo (ne ho parlato qui riprendendo un articolo pubblicato su Il Regno del prof. Pierluigi Consorti). Va annotato anche che l’introduzione nei curricula studiorum venti anni fa della Teologia del Diritto canonico, come disciplina obbligatoria per il percorso canonistico, ha favorito un ritorno alle questioni epistemologiche della riflessione canonistica, ma con risultati diversi, a volte opposti se non conflittuali.
Abitare il Mediterraneo
Il gruppo di oggi [29 gennaio 2022] è stato guidato da comunicazioni, di cui di seguito una brevissima scheda, di Carla Danani e Pina De Simone, rispettivamente docente presso l’Università di Macerata e docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia; a chiudere i lavori le riflessioni metodologiche del prof. Rivoltella.
L’abitare e il pensare: l’intervento di Carla Danani
Carla Danani, riprendendo la filosofia della percezione,
della prossemica e della glocalità, ha accompagnato il gruppo a una rilettura
dello spazio come luogo da abitare poiché “esistere è abitare”. Per questo, pensare
l’esistenza è relazionarsi al gioco socio-spazio-temporale. Ha poi affermato
che «si vive del mondo, e non solo nel mondo, nel modo dell’empatizzare con
esso e del nutrirsene. I luoghi perciò non sono mere scenografie o palcoscenici
su cui l’esistenza accade, ma “contenuti” dell’esistenza. Un luogo accade: è
evento, più che sostanza».
Il Mediterraneo come “luogo teologico”: Pina De Simone
Pina De Simone ha ricordato le riflessioni di Franco Cassano e di Edgar Morin rispetto al “pensiero meridiano” o “mediterraneo” per dedurne possibili implicazioni per l’elaborazione del pensiero teologico (“per una teologia dal Mediterraneo”). Il Mediterraneo è comunicazione, conflitto, pluriverso irriducibile, unità e diversità; è pensiero complesso e relazione al tempo stesso. Se il pensiero teologico si facesse sollecitare da tale “contesto”, come stile e come narrazione, cosa ne potrebbe venire fuori? E su queste e con queste sollecitazioni che bisogna continuare a lavorare e riflettere.
Questioni teoretiche e interdisciplinari: Pier Cesare
Rivoltella
Le riflessioni metodologiche di un approccio transdisciplinare le ha proposte Pier Cesare Rivoltella, dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, ricordando alcuni elementi. Il primo è il passaggio dalla monodisciplinarità alla consapevolezza della complessità: «la nostra tradizione culturale –afferma– intende proporre soluzioni rigidamente monodisciplinari, attente solo ai limiti interni dei saperi. Esattamente il contrario di quel che la complessità richiederebbe». Per superare tale impasse vi è bisogno di multidisciplinarità e transdisciplinarità che richiedono di “pensare oltre i confini”, per un pensiero aperto. Ci vogliono pensieri “lenti”, capaci di “tornare alle cose”, fino a “pensare contro se stessi”.
Se la complessità è accolta dalla canonistica: alcune reazioni
Le preziose comunicazioni dei relatori hanno dato luogo a varie
reazioni.
Propongo anche qui alcune reazioni che nascono dal fondo di
una riflessione personale ormai continua su “rito” e “diritto”. Pochi passaggi, che a
tratti riprende il lessico dei relatori, per una sintesi che raccoglie un approccio interdisciplinare e che sorge come “confine” di
saperi (e che ho illustrato precedentemente qui).
Un dato: fare teologia a partire dall’uomo e dall’esperienza
religiosa
La “teologia” non è solo una disciplina accademica, né solo un riflettere per “dare ragione” della fede senza fonti, oggetto e metodo. La teologia accoglie vari aspetti ma senza precluderne altri e senza perdere lo statuto di disciplina. Fare teologia significa “non chiudersi” perché per “parlare di Dio” bisogna “agire” nella sequela e non “pensare” nelle parole. Fare teologia non può (più) rivestire le altisonanti parole della metafisica, del teismo, della razionalità apologetica; alla teologia non possono bastare neanche le parole consolatorie della poetica e della “filosofia da camera”. Per “parlare di Dio” si deve “parlare dell'uomo”, anzi, “delle persone”, “con le persone” e “a partire dalle persone”. Le persone, però, non sono “monadi nomadi”: esse vivono luoghi, spazi e tempi e, a partire da questi, sono in relazione. Per questo i “contesti” diventano fondamentali per pensare. Anzi. Bisogna riconoscere che i contesti nutrono pensieri glocali e dinamici, non vincolati a sole idee statiche. Una riflessione teologica per essere tale non può dimenticare i contesti se non vuole tradire le persone e i vissuti. A tale scopo, papa Francesco nel giugno 2019 fece sua l’istanza di una “teologia del Mediterraneo” come metodo per il dialogo e per la riflessione accademica.
Sollecitazioni per la canonistica?
Ma se ad essere sollecitati ad un “pensiero aperto”, “di confine”, “complesso”, fossero i canonisti avremmo varie reazioni; dall’impassibilità all’attenzione creativa: dal rifiuto che un tale approccio possa essere valido per un “diritto della Chiesa” all’accoglienza sottoforma di dialogo comparativo dei “sistemi giuridici”, fino alla riflessione epistemologica che ponga le basi di una mentalità dei confini della “codificazione” e oltre la “codificazione”.
Se la canonistica ragiona ancora nel limite del solo “diritto
certo e astratto” e della sola “logica giuridica strumentale” il limite possente
di un amministrativismo esasperato e di un tecnicismo dogmatico
faranno ancora da “blocco” al pensiero che non riuscirà a produrre saggezza
giuridica, per fare giustizia e “dire ius” (gius-dicere).
E tutto questo funziona non solo da blocco alla canonistica ma,
a ben vedere, alla teologia stessa. Tempo fa un canonista soleva dire che i
teologi avrebbero potuto riflettere su tutto, ma poi sarebbero venuti i
canonisti a dire quel che si poteva e non si poteva fare. Un tale blocco
non ha creatività perché non rispetta i luoghi, i contesti, i vissuti.
Oltre un “diritto distillato”?
La canonistica farà passi avanti, ma dovrà lavorare oltre i
sistemi di cui la arricchisce la tradizione. La storia, infatti,
dona al Diritto canonico una molteplicità di strumenti la cui efficacia e
opportunità si nasconde dietro una coltre di dogmatismi sedimentati.
Alla rilettura dei sistemi giuridici ecclesiali sono
dedicati i lavori di alcuni canonisti. Vanno però evidenziate alcuni passi che
potrebbero risultare ulteriormente utili.
Forse, iniziare una riflessione comparativa dei sistemi
giuridici religiosi aiuterà a comprendere che i vissuti possono ridire la
realtà in modo differente, anche nella stessa fede monoteista e nello stesso
cattolicesimo.
Forse, un diritto comparato delle religioni aiuterà a raggiungere
i “confini” del proprio pensiero, per riformulare i propri sistemi.
Forse, un dialogo coi sistemi giuridici attuali aiuterà a
mettere da parte la frenesia di “razionalità” e “rigidità” dei sistemi di
stampo moderno e raccogliere quegli elementi strutturali che hanno
tradotto ciò che ha caratterizzato la sana modernità: dignità ed eguaglianza.
Forse, la canonistica, in quanto disciplina di indole
teologica, dovrà stare più attenta a due elementi radicali della riflessione contemporanea: l’azione e il corpo. Solo l’attenzione a questi “ambiti”
aiuterà una diversa “narrazione” canonistica.
Se i canonisti non impareranno a “ripensare” il sistema
codice, il blocco delle prassi diventerà una “riserva mentale” incapace di
dialogo e di avventura.
Nella citata prolusione papa Francesco ebbe a dire: «abbiamo bisogno di teologi –uomini e donne, presbiteri, laici e religiosi– che, in un radicamento storico ed ecclesiale e, al tempo stesso, aperti alle inesauribili novità dello Spirito, sappiano sfuggire alle logiche autoreferenziali, competitive e, di fatto, accecanti che spesso esistono anche nelle nostre istituzioni accademiche e nascoste, tante volte, tra le scuole teologiche». Ora, ciò che si dice dei teologi vale, ancor di più, per i canonisti, che non sono “fuori” dalla teologia. E poiché «la teologia di laboratorio, la teologia pura e “distillata”, [...] non sa di niente», quanto più una canonistica “in vitro” legata alle forme razionalmente pure rusulterà insipida?
L’autoreferenzialità della “canonistica” può realizzare “laboratori
chiusi” che producono sistemi impeccabili, così limpidi che ne risulterebbe un “diritto
distillato” ma non incarnato. E se è vero che «il teologo che si compiace del
suo pensiero completo e concluso è un mediocre» (VG,
3), quanto più un canonista, compiacendosi della struttura chiusa della
codificazione senza coglierla come strumento (riformabile) della Chiesa e della
sua missione, concepirà e progetterà prassi distillate di “Ius” inutili
o dannose per le pratiche di prossimità, molto ben ordinate quanto gravemente
dozzinali.
Serve una canonistica valida che aiuti i contesti ad essere “abitati”;
a “dirsi”; a “rivelarsi”.
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