“Grazie Signore che ci hai dato il calcio”. L’urlo liberatorio come densità rituale

 

 

Al termine della lotteria dei rigori, Fabio Caressa esplode in un commento che mette insieme fede, calcio e… esultanza[1]. Un atto liberatorio di “salvezza” e di “vittoria” molto poco simile, purtroppo, al “rendiamo grazie a Dio” a liturgia compiuta. Cosa manca? Pastasciutta?


 


Umberto Rosario Del Giudice

Accostare evento sportivo e rito è relativamente semplice se si pensa agli studi di antropologia culturale. Ma riesaminare brevemente i fatti, ci aiuta a guardare le nostre liturgie con una precomprensione in più che può diventare una opportunità di riflessione: senza tralasciare pudore e compostezza, le liturgie hanno bisogno di non dimenticare emozioni e mediazioni, oltre la preoccupazione individualistica e soggettivistica del culto dovuto, pubblico, integrale e interiore. Le emozioni e gli scopi comuni crano più significati di mille catechismi.

Provo a spiegarlo così.  


Un’esperienza autobiografica

L’11 luglio di trentanove anni fa ero a casa di mia nonna. È inutile dire che lei non s’interessava di calcio mentre io lo stavo appena conoscendo. Poi la festa, i colori, i cori, tra canti e caroselli, per festeggiare una squadra Campione del mondo: l’indimenticabile 3-1 consacrava l’Italia vincente sulla squadra già campione d’Europa 1980, l’allora Germania Ovest.

Per ragioni di lavoro i miei genitori mi affidarono a mia nonna in quello scorcio d’estate che si accavallò con i mondiali del 1982 giocati in Spagna disputati tra 13 giugno e l’11 luglio: solo a casa, coccolato dai manicaretti di nonna, nell’attesa dei miei familiari. Non persi una partita. Ogni giorno seguivo i gironi e più partite al giorno, fino alle semifinali e a “quella” finale. Avevo visto tutto, tutto quello che c’era da vedere: mia nonna era molto tollerante; d’altra parte, sapeva che in quel frangente non avevo altro da fare.

Fu un vissuto di piena e ricca immersione totalizzante. Fu un’esperienza assoluta, non ripetuta, o rivissuta solo in parte, nemmeno con il primo scudetto del Napoli nella stagione 1986-1987. Cosa mancava tra i mondiali del 1982 e lo scudetto del 1987? Avevo seguito tutte le partite dei mondiali in poco meno di un mese mentre allo stadio non c’ero mai andato né avevo la possibilità di seguire la squadra: e poi, in famiglia, neanche mio padre era così tanto tifoso, anzi, semplicemente non lo era… Ma per i mondiali ero da solo, col “mio” calcio, al seguito accorato di Bearzot, Zoff, Rossi… che ormai diventavano i “miei amici”. In poco meno di un mese quel mondiale aveva costruito e costituito tutto il mio mondo…

 

Solo calcio?

L’esperienza del 1982 si caratterizzava per me nella sua condivisione totale. Magari se avessi avuto altro da fare e se non avessi seguito tutte le partite, anche per me quella finale del 1982 sarebbe stata “solo” una finale di calcio come giusto che sia, e questo lo posso dire ormai da adulto che vede con piacere una partita di calcio ma che vive la propria vita, “immerso” in altro.

Eppure, anche oggi, come ieri sera e come stanotte, abbiamo visto, sentito, migliaia di ragazzi scesi in piazza per gridare frasi come “campioni!” e “abbiamo vinto!”, o solo per cantare e strombazzare tra bandiere e trance collettiva. Anche Mattarella esulta; non come Pertini, ma gioisce.

Questo è il calcio.

Tutto qui?

No. Questo è il rito, o almeno una parte di quel trasferimento della sacralità simbolica dal religioso al collettivo sociale. È il luogo in cui sacro e profano si incontrano. È il momento in cui tempo presente e speranza futura si abbracciano confondendo attese individuali e fortuna comunitaria. Questo è un frutto di quello che possiamo chiamare “rito”.

C’è una sottile ma inscindibile continuità tra eventi e ritualità, tra significati condivisi e sentimenti comuni, tra azione collettiva e tensione simbolica: e il calcio, come molte altre realtà, non è da meno nell’essere luogo simbolico totalizzante.

Molti non comprendono perché festeggiare per una vittoria che, in fondo, “non è nostra” e che comunque non porterà niente alle “nostre tasche” (al di là delle scommesse, ma questo è un altro ambito). Se i fatti pratici gli dànno ragione non così i dati simbolici.

Se è vero che nulla è acquisito dal tifoso, in relazione ad una partita vinta, è anche vero che la partecipazione allo sport (e nella fattispecie alla “fede calcistica”) comporta una condivisione emotiva e di significati che va ben oltre alla sola conquista personale e del tornaconto economico. Certo, i giocatori ne guadagnano in termini economici, carrieristici, emotivi, e non avranno niente a che fare con le migliaia (i milioni?) di persone che esaltano le loro prestazioni e condividono la loro vittoria. Ma il “tifoso” entra in una condivisione totale che determina “un’interpretazione della realtà”, un essere “connessi con tutto” e che Clifford Geertz, antropologo statunitense, già nel 1973 indicava come “Density” (densità), come “cultural System” (sistema culturale)[2], evidenziando così quegli elementi coerenti capaci di dare un significato ai vissuti nella continua tensione alla realizzazione di sé e della propria comunità. Ogni persona ha bisogno di vivere in una realtà significativa attraverso la quale esibire la, determinarsi nella, anelare alla propria identità che mai è scissa da quella collettiva.

 

Rito, sentimenti e fede

La distanza e la differenza che c’è tra una liturgia composta e una finale di calcio spettacolare è evidente. Tuttavia, ciò che mette insieme liturgia e calcio è quella azione rituale attraverso la quale tutti dànno un significato emotivo al vissuto, proprio e collettivo.

E i significati, che si dànno attraverso un percorso lungo (che Bonucci ha sintetizzato con quel suo “ancora pastasciutta devono mangiare”) e attraverso le decisioni, hanno bisogno di riconoscimenti reciproci e sentimenti condivisi. Riprendendo Geertz potremmo dire che «per prendere una decisione dobbiamo conoscere i nostri sentimenti riguardo alle cose, e per conoscere questi abbiamo bisogno delle immagini pubbliche del sentimento che soltanto il rituale, il mito e l'arte possono fornire» (p. 105). Ma se le liturgie sono, oltre che composte e decorose, anche non rappresentative e non immersive dal punto di vista emotivo e dal punto di vista dei significati non pienamente condivisi, può accadere (come di fatto spesso accade) che il rito rimane un precetto e che la partecipazione attiva all’evento sia solo uno slogan, al massimo una pia devozione personale. L’immediatezza interiore e solo intellettuale con cui si propone/impone il rito senza emotività solidale può diventare un grave ostacolo alla condivisione di fede e di vissuti, tanto che appare meno intenso sebbene composto acclamare “rendiamo grazie a Dio” e più facile e sensato gridare “grazie Signore che ci hai dato il calcio”.

Forse che la bellezza spirituale, emotiva, sensata del rito, sia solo per pochi e che i giovani hanno davvero bisogno solo di “sballarsi”? Oppure, dovremmo ripensare categorie teologiche, rivedere l’arte della celebrazione, riproporre la mediazione immersiva della liturgia per riportare alla densità condivisa l’esperienza di fede?



[1] È possibile riascoltare il commento al minuto 3:08 di questo video: https://www.youtube.com/watch?v=lPjmLCs2ung

[2] Cfr. C. Geertz, The interpretation of Cultures, New York 1973.


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