Modifiche al Libro VI? Non è Francesco…
Le recenti modifiche al Diritto penale canonico non si possono dire una vera riforma: sono accorgimenti che scaturiscono da un lavoro auspicato fin dagli anni ’90. Il frutto delle modifiche, inoltre, non sembra completamente in linea con l’attuale pontificato. Intanto, una riforma sarebbe utile: dallo “scandalo” alla “certezza della pena”, dalla “correzione fraterna” alla “tassatività della pena” per i gravi reati, dal “recupero del reo” alla “salvaguardia dei diritti”, soprattutto delle vittime di abusi sessuali. Forse il diritto penale canonico deve conservare la propria flessibilità ma non può ancora non essere pensato alla luce di altri presupposti fondamentali.
Umberto R. Del Giudice
Anche ad una veloce lettura sinottica, appare chiaro che
non sono numerose le modifiche dei canoni del Libro VI del Codice di Diritto
canonico del 1983 (CIC) relativi al diritto penale canonico (le modifiche non
riguardano il CCEO).
Ci sono sensibili cambiamenti ma la struttura e la mens rimangono identiche: e questo è il vero limite dell’operazione sul Libro VI. Ma per accorgersene bisogna valutare le modifiche nel loro insieme, rivederle alla luce degli ultimi trent’anni di lavoro e consultazioni, compararle con i principi del diritto penale di un ordinamento moderno garantista e tirare le conclusioni anche e soprattutto alla luce del pontificato attuale.
Le circostanze antecedenti e concomitanti delle
attuali modifiche
Le modifiche sostanziali sono
poche, pochissime. Gli 89 canoni appaiono in alcuni passaggi certamente rivisti
ma non apportano grandi novità. Sicuramente la logica che guida il diritto
penale canonico non cambia.
In ogni caso, i cambiamenti sono
frutto di una lunga (forse troppo lunga) riflessione e nascono dalla necessità
di aiutare gli Ordinari del luogo, all’indomani della pubblicazione del CIC, di
disporre di indicazioni e procedure precise e dettagliate.
In tal senso, già nel 1988 l’allora
Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (CDF), Card. Ratzinger,
aveva interpellato il Card. Castillo Lara, allora Presidente della Pontificia
Commissione per l’Interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico, affinché
indicasse una “procedura più rapida e semplificata” circa i casi in cui i
chierici, resi colpevoli di gravi e scandalosi comportamenti, potessero essere
“ridotti allo stato laicale”. Stando ai dettami complessi del CIC, infatti, gli
Ordinari non riuscivano ad orientarsi.
Senza entrare troppo nel
particolare, qui basta annotare che quella richiesta accelerò i lavori della Commissione
al fine di garantire una procedura più snella. In ogni caso e a pochi anni dalla promulgazione del CIC, fu uno degli
episodi che palesarono l’urgenza di mettere mano al Libro VI.
Bisognerà però aspettare il 2011 affinché
un primo schema di modifiche sia inviato a 160 soggetti, tra cui molti Vescovi.
Questa consultazione “larga” fece poi raccogliere 12000 riposte che aprirono ad
un altro lungo periodo di lavoro e di sintesi.
Le notizie reiterate di abusi su
minori o di violenze sessuali in genere, gli investimenti finanziari alquanto
“spregiudicati” o almeno “imprudenti” di alcuni prelati, hanno accelerato la
pubblicazione delle modifiche.
Queste, dunque, le circostanze
antecedenti e concomitanti la pubblicazione del “nuovo” Libro VI.
Da questo quadro si comprende che lo scopo delle
modifiche non è il tentativo di riformare il diritto penale canonico, ma quello
di assicurare una più precisa e semplificata procedura agli Ordinari che nel
frattempo si sono visti moltiplicare i casi da giudicare e da punire.
In altre parole, nelle
“intenzioni del legislatore universale” le modifiche sono più precise indicazioni per i “legislatori particolari” (i vescovi) al fine di precisare procedure
e garantire una solida “certezza morale” circa i casi da esaminare, le azioni
da porre e le pene da comminare.
Tutto qui…
Quale diritto penale?
Sono stati giustamente indicati
vari limiti e criticità di queste modifiche rimandando al cambio di paradigma
epocale tra il Sillabo e le dichiarazioni di papa Giovanni XXIII
(Dal
Sillabo alla “legge Zan”. In dialogo con Mattia Lusetti di
Andrea Grillo).
In modo particolare, le nuove disposizioni hanno suscitato commenti allibiti sia rispetto al cambio del Titolo III, da “Usurpazione
degli uffici ecclesiastici e delitti nel loro esercizio” a “Delitti
contro i sacramenti” sia alla contestuale introduzione tra i delitti
dell’attentata ordinazione di una donna (can. 1379 § 4) con conseguente scomunica
latæ sententiæ riservata alla Sede Apostolica: in questo senso, le giuste critiche delle teologhe del Catholic Women’s Council non si sono fatte
attendere.
Personalmente ritengo che le modifiche apportate siano alquanto irrilevanti se lette dal punto di vista giuridico (non procedurale) e considerando i principî presupposti al diritto penale canonico: assicurare l’unità della Chiesa, riparare agli scandali e correggere il “reo”.
Questi elementi rimandano al
carattere di flessibilità proprio del Diritto canonico in genere (che in questo
caso lo pone in continuità col diritto penale della tradizione di common law
– anche se bisognerebbe dire il contrario) ed evidenziano allo stesso tempo il grande limite della
normativa penale della Chiesa.
Il punto è questo: il principio cardine non è la
salvaguardia dei diritti delle vittime ma la sanazione delle azioni
“peccaminose”.
Qui va chiarito un aspetto:
sebbene il CIC abbia superato il precedente assetto per il quale “il peccato era sempre un reato”, creando la distinzione formale tra “foro esterno” e “foro
interno” è pur vero che il principio radicale del Diritto penale canonico, come
si presenta tuttora, risulta essere quello di “purificazione del peccatore”
(cfr. GS 18) in un cammino di penitenza e rinnovamento dei “peccatori che pure
vivono nel suo seno” (cfr. LG 8), come si può leggere in un qualsiasi manuale.
Ma una vera modifica della struttura del diritto penale canonico non può gravitare intorno a questo principio: essa deve convergere necessariamente anche, e oggi più di prima, sui principî di “certezza della pena” e “difesa dei diritti”, dell’accusato e soprattutto delle vittime. Questi aspetti rimangono a latere nell’impianto del Libro VI, pur modificato.
Né è chiaramente delineata
l’azione dei Vescovi che, sebbene non abbiano più il dovere di provvedere (promovendam
curet) ma quello di intervenire (promovere debet) con una procedura
(cfr. can. 1341), hanno il pieno potere di determinare la penitenza da comminare
fino anche alla sanzione “a propria discrezione”. Un canone che di fatto lascia
la indeterminatezza della pena: altro nervo sensibile del diritto
canonico penale.
Una sola novità sembra accogliere i principî del diritto penale statuale in quello canonico: il novello can. 1321
§ 1 che recita: “chiunque è ritenuto innocente finché non sia provato il
contrario”. Un rimando troppo timido ai complessi principî garantisti del diritto penale
statuale.
È vero che il sistema penale canonico
può insegnare qualcosa agli altri sistemi giuridici, ma è pur vero che il
principio cardine a cui il Libro VI rimane ancorato non è la difesa dei
diritti inviolabili della persona ma l’identità e l’unità della Chiesa,
riparando scandali, ristabilendo la giustizia e conseguendo l’emendamento del
reo, anche solo con la correzione fraterna, mezzo da privilegiare (“præsertim fraterna correctione”).
Conclusioni
Il CIC, com’è noto, s’ispira ai principî del Concilio Vaticano II.
Ora è molto indicativo il fatto
che quando nella Gaudium et spes si parla di “peccati” si rimanda ad una
natura umana oscurata, debilitata, ferita, deforme,
schiava, corrotta, deformata, turbata… Di questo la
Chiesa se ne fa carico, ponendo rimedi quali quelli della penitenza o
delle pene.
Ma quando parla di “diritti
fondamentali della persona umana”, pur riconoscendoli (GS 41), rimanda
ai diritti statuari, ovvero alla comunità politica, il dovere di “tutela dei
diritti” (GS 73ss).
Ora, se anche il Diritto penale
canonico si facesse carico della difesa dei diritti delle vittime quanto degli
accusati (anche se quest’ultimi sono tutelati già dal “sistema”) si potrebbe
parlare di “riforma del diritto penale canonico”, così da intravedere presunzione
di innocenza, garanzie processuali ma anche e soprattutto
certezza della pena, garanzie di tutela delle vittime, norme tassative, tutela
dei beni individuali e morali dei violati o degli aggrediti…
Per ora siamo solo davanti a limpide
quanto minime modifiche.
Si pensi solo che la citazione
dei reati di abuso sessuale contro i minori è stata presentata come innovativa
“attenzione
da riservare nei confronti delle vittime”. In realtà, leggendo il testo dei
nuovi canoni ci si accorge che il secondo dei due canoni che formano il Titolo
VI circa i “delitti contro la vita, la dignità e la libertà dell’uomo”, cita il
reato di abusi sessuali su minori ma non contiene nessuna indicazione circa la
tutela, l’attenzione, la cura sui minori (rimandando ancora e implicitamente alla procedura civile/statuaria, se c’è…) né sulla certezza della pena: lo stesso canone, infatti,
provvede quale sanzione per il reo la perdita dell’ufficio ecclesiastico (che
non significa non poterlo in futuro reintegrare in altro luogo o ministero…) mentre
la dimissione dallo stato clericale, sebbene non esclusa, rimane possibile ma
non obbligatoria (“non exclusa dimissione e statu clericali, si casus id
secumferat”).
Davvero la Chiesa può permettere che un chierico o un religioso reo di tali delitti di pedofilia possa conservare il ministero sacerdotale? Lo stesso reato commesso da un catechista o da altri operatori pastorali non merita attenzione particolare? Se è vero –come sostiene il Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi– che il diritto penale serve anche a prevenire, perché un pedofilo, chierico o religioso (e non solo), deve poi preoccuparsi tanto se dopo le sue azioni criminali potrebbe anche “trincerarsi” dietro allo stato clericale o religioso per mancanza di pena tassativa? Davvero la pedofilia, la violenza sessuale, la distrazione di beni, la corruzione, non si legano col principio di tassatività della pena come invece l’aborto, che prevede la scomunica latæ sententiæ? È questa la “massima serietà” auspicata?
Insomma, sono queste le “riforme”
di papa Francesco?
Se è lui, non si riconosce.
E queste domande forse se le sarà
poste anche il Card. Marx, prima di presentare le proprie dimissioni.
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