Visitare con fede e verificare nella fede
Riflessioni sull’indulgenza come penitenza, in occasione della penitenziale parrocchiale
Parrocchia San Luca (Diocesi di Aversa) – 20 dicembre 2023
In occasione dei venticinque anni della Dedicazione della Chiesa parrocchiale di San Luca, il parroco, don Angelo Aminto ha chiesto e ottenuto dalla Penitenzieria apostolica che la Chiesa fosse per un anno luogo in cui “lucrare le indulgenze”.
Quella
delle “indulgenze” è una prassi consolidata nel cattolicesimo.
Si
rende però necessaria una riflessione.
Riporto
qui volentieri lo schema di quanto presentato in occasione di una penitenziale comunitaria. Il tempo e il contesto hanno imposto una presentazione sintetica
del percorso che qui ripropongo in forma estesa.
Umberto R. Del Giudice
Giubileo
parrocchiale: un’occasione
In occasione dell’anno
giubilare della nostra Parrocchia, mons. Spinillo, su richiesta del nostro
Parroco, ha chiesto e ottenuto dalla Penitenzieria Apostolica che la
Parrocchia, per i venticinque anni di Dedicazione, fosse dichiarata, per un
anno intero, luogo di culto indulgenziato
ovvero, in termini più tecnici, Chiesa in cui lucrare le indulgenze.
Le “pratiche” minime
ed essenziali sono conosciute (come prescrivono le norme)[1].
Ora cerchiamo di
riflettere sulle “dinamiche” massime e motivazionali (una tendenza che spesso
manca nelle nostre comunità; tendiamo più al minimo necessario, e anche per
questo spesso i giovani non trovano corrispondenza al loro bisogno di
spiritualità e alla loro necessità di capire).
L’indulgenza, dunque,
diventa per tutti noi un’occasione di riflessione sul nostro cammino cristiano
che è anche, e sempre, un cammino “penitenziale” sebbene a diversi livelli.
Cammino
di fede e penitenza
La “penitenza” non è
solo un sacramento: essa è anche una realtà intrinsecamente connessa alla
sequela di Cristo. Penitenza non significa esclusivamente “chiedere il perdono
dopo un peccato” (in realtà questo è un’espressione moderna della penitenza);
penitenza è incamminarsi per migliorarsi e stare nella sequela di Cristo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è
vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15).
Il battezzato è al
tempo stesso santo e penitente: è un dato sempre sostenuto dalla
tradizione cristiana e cattolica. Un dato che oggi è condiviso dalle tradizioni
cristiane maggioritarie e principali (cattolici, ortodossi, luterani,
metodisti, anglicani, calvinisti).
Dobbiamo ricordare che
le indulgenze sono state aspramente contestate, e anche a ragione. La
predicazione dell’epoca di Lutero era impressionante: «Quando cade il soldin
nella cassetta, l’anima vola in cielo benedetta», insegnava Giovanni Tetzel[2].
E a questo automatismo
che Lutero reagisce. Per fortuna, e dopo tanto lavoro, il 3 gennaio 2021, a 500
anni dalla scomunica di Martin Lutero, è stata pubblicata la seconda versione della
Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, firmata,
tra gli altri e a nome del papa, anche dal Card. Kurt Koch (allora Presidente
del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani oggi
Prefetto del Pontifico Consiglio divenuto nel frattempo – giugno 2022 –
Dicastero)[3].
In questa Dichiarazione
possiamo leggere:
«Insieme confessiamo che nel battesimo lo Spirito Santo unisce l’uomo a
Cristo, lo giustifica e effettivamente lo rinnova. E tuttavia il giustificato,
durante tutta la sua vita, non può mai fare a meno della grazia
incondizionatamente giustificante di Dio. Inoltre l’uomo non è svincolato dal dominio
che esercita su di lui il peccato e che lo stringe nelle sue spire (cfr. Rm 6,
12-14), né egli può esimersi dal combattimento di tutta una vita contro l’opposizione
a Dio che proviene dalla concupiscenza egoistica del vecchio Adamo (cfr. Gal 5,
16; Rm 7, 7.10). Anche il giustificato deve chiedere ogni giorno perdono a Dio,
così come si fa nel Padre nostro (Mt 6, 12; 1 Gv 1, 9); egli è continuamente
chiamato alla conversione e alla penitenza e continuamente gli viene concesso
il perdono»[4].
Queste parole fanno
eco alle dichiarazioni conciliari. Nella Lumen gentium leggiamo:
«…mentre Cristo, “santo, innocente, immacolato” (Eb 7,26), non conobbe il
peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del
popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è
perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente
per il cammino della penitenza e del rinnovamento» (LG 8).
Dunque, la sequela
Christi è anche cammino di penitenza
e di rinnovamento. Sempre. Siamo tutti in cammino, e il cammino è anche penitenza, dal primo all'ultimo battezzato [motivo per cui ho scelto l'immagine di questo post]
Tenterò di definire e
circoscrivere questa affermazione e riflettere brevemente sulla pratica delle
indulgenze stesse. Per tale motivo propongo un breve percorso che si vuole
articolare su due realtà dell’indulgenza e su tre momenti
penitenziali.
Le due realtà: visita e verifica.
Questi i tre momenti
con cui vorrei articolare la presente comune riflessione come percorso dettato
dalle due realtà: visita
(occasione), verifica (opportunità) e
verifica della visita (orizzonti).
Visita
e indulgenza: occasione
La pratica dell’indulgenza
può essere una buona opportunità o solo anche un’opportunità sprecata,
soprattutto se considerata con aspetti di automatismo moralistico[5].
La tradizione della
Chiesa (cattolica) ha posto alcune condizioni per lucrare le indulgenze. Diciamo
subito che esse non sono condizioni burocratiche (“se fai questo,
automaticamente sei perdonato”, come sosteneva il domenicano Johann Tetzel) ma
sono condizioni esperienziali e esistenziali. O meglio: sono
condizioni che realizzano un’esperienza che ci aiuta a camminare alla sequela
Christi.
In altre parole, non è
Dio ad avere bisogno delle nostre pratiche di indulgenze; siamo noi che abbiamo
bisogno di pratiche penitenziali per sperimentare e vivere la libertà che Dio
Padre ci ha concesso e ci concede in Cristo per mezzo dell’azione dello Spirito
Santo[6].
Come facciamo
esperienza?
La visita ci ricorda
che il nostro continuo miglioramento non può essere solo “interiore” o
“intellettuale”; non si vive e non si cresce con “buone intenzioni”.
Per cresce devi
camminare. Devi impiegare tempo. Devi entrare in uno spazio. Devi entrare in
una dimensione.
Entrare in Parrocchia
è tutto questo. È muoversi.
E noi ci muoviamo col
corpo. Da qui possiamo dedurre che facciamo esperienza col corpo.
Tutte le forme di
indulgenza (e ce ne sono tante) chiedono una “pratica”; e le pratiche impiegano
sempre una parte di tempo o di spazio. La “visita” vuole tempo e spazio
insieme.
Non si fa penitenza
“solo con l’anima”. Coi riti e con le pratiche la Chiesa sa che non c’è anima
che possa fare esperienza se non c’è un corpo che fa una pratica. E oggi, le
neuroscienze ci invitano a riflettere sulla profonda connessione che c’è tra
corporeità, emozioni, sensazioni, conoscenza, mente… e poi, dove finisce il
corpo e dove inizia l’anima?
Le pratiche rituali ci
ricordano che profonda realtà: non possiamo fare esperienza di Dio con la
testa, con le idee. Questo sarebbe come una bestemmia.
Visita
come verifica: opportunità
Allora come porre
verifiche esistenziali per il nostro credere?
La verifica più
immediata l’abbiamo chiamata “esame di coscienza”, presupponendo
che ciascuno di noi possa verificare il proprio cammino davanti ad uno
schema.
Questo poteva andare
bene fino a qualche decennio fa: le relazioni sociali erano fin troppo
controllare e veicolate. Oggi quello che un tempo era “l’esame di coscienza”
relativamente (soprattutto) ai “doveri del cristiano” (e quindi del decalogo”)
appare bisognoso di una lettura più ampia. A tale proposito qualcuno ha
proposto che “l’esame di coscienza” diventasse un “mettersi avanti le
beatitudini” (almeno quelle elencante nel Vangelo secondo Matteo). Sostituire,
cioè, il testo del decalogo con quello delle Beatitudini.
Non voglio indulgere
molto su questo. Vorrei invece evidenziare una realtà: se dovessimo
concepire “l’esame di coscienza” come un atto con cui misuriamo noi
stessi davanti ai “doveri di stato”, ovvero, se pensiamo solo a ciò
che era nostro dovere fare e che abbiamo omesso, o se pensiamo a noi
stessi solo rispetto a ciò che abbiamo fatto di male o rispetto a
ciò che ci era consentito o meno di fare (o anche di essere), il nostro
esame di coscienza rimane molto limitato: “esame”
intellettuale di una “coscienza” doverosa. Approccio minimale e moralistico
sebbene possa oggi apparire per qualcuno inizialmente utile.
Uno schema d’esame di
coscienza alquanto articolato lo troviamo già in appendice al Rito della
penitenza (ma ricordiamo che il testo è del 1973/1074!). E sebbene il Decalogo
e le Beatitudini possano rimanere il “nostro orizzonte”, metterci
davanti ai testi con la nostra solo coscienza di “fare o non fare”, di “essere
o non essere”, limita la coscienza stessa e quindi anche il suo esame. Pensare alla “coscienza” come uno specchio di
input esterni fa parte di un’antropologia che non tiene conto delle dimensioni
e delle complessità dell’esperienza umana.
I nostri
“doveri” e le nostre “beatitudini” non ci diranno mai completamente dove siamo
né potranno mai dirci davvero “chi siamo”.
Ci potranno dire l’aspetto “sintetico-moralistico” di cosa viviamo ma non “come
viviamo”, il modo con cui viviamo e le forme con cui abbiamo deciso di
affrontare il nostro vissuto.
In altre parole, non è
tanto il termine di paragone (la Legge
o le Beatitudini) l’elemento
fondamentale dell’esame di coscienza: per crescere nella fede, bisogna
rispondere ad una domanda fondamentale: «in che modo percepisco Decalogo e
Beatitudini? come orizzonti di dovere?».
Se la nostra relazione
con Dio, con noi stessi e con gli altri, la facciamo passare attraverso “ciò
che si fa e ciò che non si fa”, direbbe Paolo, siamo ancora dei neonati[7].
Ai bambini, infatti, si dice ciò che si
deve e non si deve fare, ma solo
perché hanno bisogno di indicazioni. Poi bisogna accompagnarli per i mille
sentieri della vita.
In realtà, sia il Decalogo che le Beatitudini sono testi fondamentali in cui rivedere e rivivere la
profondità del nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con Dio e grazie
a Dio. Ma se intendiamo questi “elenchi” come “doverosità burocratica” facciamo
la fine del “fariseo senza macchia”, che parlava “tra sé”[8].
Non dobbiamo e non
possiamo dimenticare, infatti, che tanto il Decalogo
quanto le Beatitudini sono nate in un
contesto di esperienza di fede e libertà. I Comandamenti
sono stati dati per suggellare una liberazione già avvenuta (l’uscita dall’Egitto).
Le Beatitudini furono pronunciate da
Cristo, nuovo Mosè (così come almeno ce lo presenta il Vangelo secondo Matteo),
per coloro che già lo seguivano. Qualche versetto avanti, troviamo anche queste
parole: «17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i
Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5, 17). Ma
questo non va letto come attenzione burocratica di Gesù. Un teologo del XX
secolo, commentando queste parole, scrisse:
«la sequela è un vincolo soltanto e
immediatamente con Gesù Cristo. Tuttavia qui, in modo del tutto inaspettato, i
discepoli vengono vincolati alla legge dell’Antico Testamento. Due cose dice in
tal modo Gesù ai discepoli, e cioè che il vincolo alla legge non è ancora
sequela, ma anche che un vincolo alla persona di Gesù Cristo senza la legge non
può chiamarsi sequela […]. Solo per il fatto che Cristo vincola i suoi seguaci
a questa legge, essa diventa comandamento nuovo. […]. Così si può capire che
Cristo parli di sé per la prima volta in questo passo del discorso della
montagna. Tra la giustizia migliore e discepoli, da cui egli la richiede, c’è
lui stesso. Egli è venuto per compiere la legge dell’antico testamento. Questa
è la premessa di tutto […]. Egli non ha niente da aggiungere ai comandamenti di
Dio; li osserva, e questa è l’unica cosa che aggiunge […]. Ma in questo
adempimento “tutto è compiuto” […]; egli solo infatti comprende la legge come
legge di Dio, senza fare della legge in se stessa un Dio; infatti, né la legge
è Dio, né Dio stesso è la legge, come se la legge avesse preso il posto di Dio»[9].
La legge, qualsiasi
legge, non è mai “originaria” e “fondante”.
E allora, come
possiamo “verificare” il nostro cammino nella fede? Come possiamo verificare se
siamo ancora “uditori profondi e radicali” delle parole e dei gesti di Gesù?
La tradizione
cristiana (e in particolare quella cattolica) conserva una forma tutta
particolare di verifica: si chiama “penitenza”. Da sempre,
sebbene in modi diversi, il cristianesimo ha riconosciuto che ciascuno di noi
ha bisogno di verificare il proprio cammino (anche per questo sono nati i tempi
forti della liturgia). Il tempo o il momento di verifica noi lo chiamiamo
“penitenza”. Gli spazi di penitenza sono molti anche durante la
celebrazione eucaristica.
La
penitenza non è l’atto formale con cui “Dio ci perdona”. È il momento in cui risuonano
su di noi e sulle vite che stiamo vivendo, le parole, i gesti, la vita e la
missione del Figlio. Così, in
quella parola iniziale, ovvero nella vita di Cristo in cui siamo stati immersi,
ritroviamo forza e motivazioni per riprendere il cammino anche se abbiamo smarrito
libertà profonda, ovvero abbiamo smarrito la percezione, la solennità dell’amore
di Dio in cui siamo radicati.
La
penitenza, oltre ad essere il nostro sprofondare nel perdono datoci nell’evento
pasquale, è dunque il cammino della nostra libertà. Nella penitenza, ogni fedele dichiara
di aspirare alla sua libertà, alla sua bellezza, alla sua bontà, alla sua
verità. Quelle dimensioni, cioè, che Cristo ci ha acquistato con la sua morte e
resurrezione. Siamo in cammino “nella pace” che Cristo ci ha donato e ci dona:
quella pace e quella libertà profonda di cui ci scopriamo sempre non
proprietari.
Se oggi, nell’epoca
dei diritti universali, siamo pronti a dichiararci liberi sul piano politico e
civile, e siamo pronti a chiedere che ci siano riconosciute le libertà
democratiche fondamentali e inalienabili, dobbiamo anche ammettere che sul
piano esistenziale non siamo i detentori della nostra libertà. Nessuno di
noi, infatti, può donare a sé stesso la propria libertà, come nessuno di noi ha
donato a sé stesso la propria vita.
Nel cammino di fede, e
nella penitenza, noi sperimentiamo che non siamo noi all’origine di noi
stessi. Non riusciamo a stare in noi stessi, presso noi stessi, perché non
riusciamo a stare totalmente e irrevocabilmente nell’amore e nella carità.
Noi non custodiamo la
nostra libertà. E lo sperimentiamo continuamente.
Seppure non dovessimo
più aver bisogno di nessuno, avremmo sempre bisogno di crescere per affrontare
il nostro vissuto.
E soprattutto, se pure
non dovessimo più aver bisogno di crescere dovremmo riconoscere che non ci
siamo fatti da soli; non ci siamo “autocreati”. E per questo, non possiamo
autoriconoscerci.
Così scopriamo che la
libertà, come la vita, ha una fonte che “non siamo noi”; che la nostra
libertà “non è di nostra proprietà”; non riusciamo a bloccarla a
fermarla una volta e per tutte. Non riusciamo a possedere definitivamente la
nostra libertà perché noi siamo chiamati ad essere altri Cristo. E “Dio”
è sempre totalmente altro da noi sebbene totalmente intimo a noi stessi.
A proposito di
comandamenti. Ricordate il secondo comandamento? «Non pronuncerai invano il
nome del Signore, tuo Dio» (Es 20,7). Papa Francesco ha ricordato che:
«giustamente leggiamo questa Parola come l’invito a non
offendere il nome di Dio ed evitare di usarlo inopportunamente. [[10]…] Ascoltiamole meglio. La
versione “Non pronuncerai” traduce un’espressione che significa letteralmente,
in ebraico come in greco, “non prenderai su di te, non ti farai carico”. L’espressione
“invano” è più chiara e vuol dire: “a vuoto, vanamente”. Fa riferimento a un
involucro vuoto, a una forma priva di contenuto. È la caratteristica dell’ipocrisia,
del formalismo e della menzogna, dell’usare le parole o usare il nome di Dio,
ma vuoto, senza verità.
Il nome nella Bibbia è la verità intima delle cose e
soprattutto delle persone. Il nome rappresenta spesso la missione. Ad esempio,
Abramo nella Genesi (cfr 17,5) e Simon Pietro nei Vangeli (cfr Gv 1,42)
ricevono un nome nuovo per indicare il cambiamento della direzione della loro
vita. E conoscere veramente il nome di Dio porta alla trasformazione della
propria vita: dal momento in cui Mosè conosce il nome di Dio la sua storia
cambia (cfr Es 3,13-15). Il nome di Dio, nei riti ebraici, viene proclamato
solennemente nel Giorno del Grande Perdono, e il popolo viene perdonato perché
per mezzo del nome si viene a contatto con la vita stessa di Dio che è
misericordia.
Allora “prendere su di sé il nome di Dio” vuol dire assumere
su di noi la sua realtà, entrare in una relazione forte, in una relazione
stretta con Lui»[11].
Ci sono anche altre
possibili letture; “non pronunciare il nome di Dio invano” significa anche non
usarlo per cose frivole o non usarlo contro la stessa legge di Dio[12]; in
questo senso, non si può dire: “in nome di Dio ti uccido”.
Ma “dire il nome”
nella tradizione ebraica significa anche riconoscere e accampare pretese per
ciò su cui si è pronunciato il nome. In questo senso, dire il “nome di Dio” può
significare anche pretendere di conoscere Dio. A tal proposito, a me
piace ricordare ciò che sostenevano i medievali che citavano Agostino: “si
comprehendis non est Deus”[13].
Dire il nome di Dio
invano, significa anche avere la presunzione di conoscere Dio. Avere,
cioè, la presunzione ingenua di aver raggiunto Dio una volta e per tutte. Di farlo
diventare “un nome”, “una legge”, “un ordine”, “un ente”.
Dio rimane sempre
inaccessibile, per questo non possiamo “pronunciare il suo nome”.
E come Dio, anche
la nostra libertà e le nostre potenzialità sono un mistero a noi stessi. Noi
non sappiamo da dove veniamo, né possiamo imprigionare la nostra libertà per
sempre. Anche per questo non possiamo pronunciare il suo nome. Né possiamo
dire di possedere per sempre la nostra libertà.
C’è un altro limite
alla nostra libertà ed è la libertà che il nostro corpo non ci concede.
Se pure non dovessimo aver bisogno di affrontare il limite del nostro vissuto,
avremmo sempre bisogno di affrontare il limite assoluto della nostra libertà:
sorella nostra morte corporale. La morte è il limite del nostro mistero ma anche
il mistero che ci rende senza limiti.
L’uomo è posto libero;
ma la sua libertà ha un limite all’origine (non ci siamo fatti da soli)
e ha un limite nel suo compimento (il limite futuro ci ricorda
che la nostra libertà non è illimitata).
In questi giorni, in
cui viviamo l’Avvento (ovvero quel tempo liturgico sospeso tra la futura
venuta di Cristo e la venuta nella carne – l’incarnazione) noi sappiamo che la
nostra libertà è una promessa che ci viene incontro (nella futura venuta di
Cristo) e che ci ha preceduto (nella prima venuta di Cristo, nella sua morte e
resurrezione)[14].
La nostra libertà è
racchiusa nella speranza che Dio Padre ci ha dato in Cristo. In quella “parola
che Dio pronuncia su di noi”, in quel bacio che ci precede e ci anticipa.
Non siamo liberi per
una dichiarazione universale; siamo liberi per una dichiarazione tanto antica
quanto nuova: la promessa che Dio Padre ha realizzato per noi in Cristo.
Il soffio di Dio su noi che ci dà vita; perché il nostro Dio è il Dio della
nostra vita della nostra morte[15].
È una promessa che
sempre ci anticipa; ed è una promessa che sempre ci attende (e in questo tempo
di Avvento lo ricordiamo).
La nostra “coscienza”
deve sentirsi in questa dinamica tra ciò che ci precede e ciò che ci
anticipa.
Per poterci sentire in
questo tempo di attesa e di speranza, viviamo tempi e spazi di confessione e
riconoscimento del limite della nostra libertà; viviamo come debitori di
libertà. Questi momenti la tradizione del cristianesimo li ha chiamati
“penitenza”.
Verifica
della visita: accogliersi e accogliere in Dio
La visita, dunque, non
può essere concepita come uno sforzo che mi fa conquistare qualcosa davanti a
Dio (già solo questo mi porterebbe lontano da Dio). La visita, come tutti gli
atti di indulgenza e penitenza, ci apre ad un’esperienza che ci permette di
iniziare o continuare un cammino di libertà nella fede, nella speranza e nell’amore
di Dio.
“Nessuno è confermato
in grazia”, dicevano i medievali.
Ma oggi sappiamo che
“la grazia” non è solo “uno stato” ma “un’esperienza”, perché Dio soffia le
nostre vite e sulle nostre vite.
La penitenza ci aiuta
a ricordare anche questo: devi fare esperienza dell’amore di Dio e fare esperienza
di Dio significa anche fare esperienza della propria libertà e della
propria identità. E lo devi fare col corpo: camminare, visitare, sforzarsi,
è il momento in cui il corpo si tende a Dio e fa esperienza di sé.
Se ci pensiamo, un
“pellegrinaggio” cos’è? È lo sforzo del corpo che, in questo modo e solo in
questo modo, fa esperienza di sé, dei suoi limiti, dei suoi affanni, della sua
forza, della sua resistenza. Senza il pellegrinaggio la resistenza del nostro
corpo sarebbe solo un’idea. Come la nostra libertà.
Senza un corpo che si
muove, anche la nostra libertà sarebbe solo un diritto soggettivo, a restare
soli e isolati, pur pensando a Dio. Sarebbe quasi un “nominare il nome di Dio
invano”.
Quando ci muoviamo col
corpo (come nel caso di una “visita in parrocchia” per anno giubilare) misuriamo
i nostri freni, ma anche ciò che è nostro alleato. Ci mettiamo in relazione con
la Chiesa, nel tempo e nello spazio (ci vuole “del tempo” e ci vuole “spazio”
per compiere una visita).
Quando si compie un “cammino” si è costretti a “sentire” il corpo.
Così, la nostra “penitenza” dipende dalla nostra capacità di “sentirci”.
A tal proposito, ridurre il nostro cammino penitenziale ad un “esame
intellettuale” diventa davvero riduttivo e, per certi versi, dannoso.
Verificare la nostra libertà significa, percepire noi stessi alla
presenza del mistero della vita che ci accompagna, che ci precede e che ci
attende, quel mistero che noi chiamiamo Gesù Cristo.
Come sentirci?
La nostra libertà si esprime riconoscendo la percezione di noi stessi verificando
di volta in volta in che modo siamo in grado di “camminare”.
Chi “cammina” ha fiducia di arrivare alla meta; abbiamo bisogno di
fiducia; ha bisogno di autonomia e sicurezza; sa dove andare; ha una propria
identità; sceglie di mettersi in cammino e non dipende dalla scelta degli altri;
ha bisogno di “sentirsi”.
Per questo, fiducia, autonomia, identità di sé, indipendenza, intimità,
creatività, armonia, spontaneità, appaino dimensioni irrinunciabili per dire la
nostra libertà di discepoli[16].
Allora possiamo chiederci: mi sento una persona amabile?
Vivo una corretta percezione di me stesso? Ho stima di me?
Ho la capacità di affidarmi agli altri, con realismo e senza essere
ingenuo né chiuso?
Credo di essere inaffidabile?
Credo di essere insostituibile?
Essere “servi inutili” significa essere consapevoli che il mondo non si
regge su di noi, ma anche che possiamo dare tutto di noi e in modo pieno.
Ne ho consapevolezza?
Sono capace di prendere decisioni? Sono capace di analizzare la realtà?
Mi informo davvero sulla realtà? Sono capace affidarmi alle mie scelte o dubito
continuamente di ciò che faccio o di ciò che devo/posso fare?
Mi fido troppo degli altri? Mi fido poco degli altri? Ne ho suggestione
o paura?
Faccio quello che vuole il gruppo e quello che il gruppo si aspetta da
me o riesco a proporre in modo fondato e coerente le mie scelte?
Riesco a sentirmi? Riesco ad accettare il mio corpo? Le mie sensazioni?
Riesco a percepire la mia persona con realtà, senza esaltare o mortificare il
mio modo di essere?
Cerco sempre qualcuno da emulare?
Vorrei o simulo il ruolo, le funzioni, la personalità di altre persone?
Mi sento confuso?
Riesco a capire come funziono?
Mi sento bene nella mia pelle?
Sono capace di rispetto verso me e verso gli altri?
Mi svaluto? Mi ritengo capace di possibilità? Riconosco realisticamente
le mie potenzialità?
Ho una relazione profonda con me stesso?
Mi apro alla relazione con gli altri senza paura?
Riesco, nel rispetto di me e degli altri, a comunicare il mio mondo
intimo?
Guardo in faccia ciò che mi fa male?
Riesco ad essere accorto ai miei sentimenti e, allo stesso tempo, ai
sentimenti altrui?
Riesco a condividere i miei pregi e i miei difetti?
Suscito e incoraggio atteggiamenti di creatività?
Parlo con franchezza ma anche con attenzione ai sentimenti altrui?
Riesco ad avere un dialogo creando luoghi di incontro?
Riesco a tornare, anche quando sono stanco, alla mia energia vitale, al
mio buon gusto di vivere?
Oppure sono arido, non mi sento, allontano ciò che mi fa dolore senza
volerlo assolutamente affrontare?
Mi blocco se qualcuno mi fa complimenti, mi sprona, mi incoraggia?
Mi isolo spesso? Riesco a stare da solo con me senza volere che tutto
sparisca?
Sono contento di me stesso, di quello che vivo?
Riesco ad andare alla profondità del mio essere o delle cose che vivo
oppure mi accontento dell’apparenza?
Mi sento senza senso, senza mete, senza amore? Vivo una solitudine
dolorosa a cui non riesco a dare un senso o di cui non riesco a parlare?
Faccio le cose con naturalezza? Nel mio lavoro, nel mio impegno riesco a
sentire energie fresche? Riesco ad essere immediato e spontaneo senza
abbandonarmi in aggressività o in intolleranze? Riesco a rispettare le funzioni
dei miei colleghi, dei miei preposti?
Gioco sporco? Mi determino secondo le opportunità? Sono ambiguo e
doppiogiochista?
Conclusione
Romano Guardini,
teologo definito il Padre della Chiesa del XX secolo, scriveva:
«Può perdonare solo Colui che può creare (…). Perdonare è più difficile
che creare! Il perdonare sta al di sopra del creare (…). È una creatività che
viene dalla pura libertà dell’amore»[17].
Stasera, come nelle
nostre varie pratiche di penitenza, ci affidiamo al perdono di Dio che “creerà
in noi un cuore nuovo”, e non perché quello che lui ha già creato in noi è da
buttare, ma perché i nostri cuori hanno continuamente bisogno di sentire la sua
parola creatrice su di noi. Il suo perdono è il suo amarci ora; il suo perdono
è quel bacio che ci fa rinascere alla nostra consapevolezza e alla nostra
libertà, nella sua promessa fedele che crea e ci rinnova.
[1] Cfr Norme sulle Indulgenze, 19-21, in Penitenzieria Apostolica, Manuale delle indulgenze. Norme e concessioni, Città del Vaticano 20084.
[2] A questa frase Lutero fa riferimento
nella ventisettesima tesi (sulle 95).
[4] Dichiarazione, n. 28.
[5]
Questi i requisiti minimi che possono condurre a una visione giuricistica e
moralistica della prassi penitenziale. Ricordiamo subito cos’è richiesto per
lucrare l’indulgenza.
Il
fedele, con cuore contrito, visita la Chiesa e, con l’intenzione di lucrare
l’indulgenza, adempia alle seguenti opere:
• recita della Preghiera del Signore
e il Simbolo della fede (il Padre nostro e il Credo)
• pentimento (esclusione di
qualsiasi affetto al peccato anche veniale)
• adempie a tre condizioni: confessione
sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le
intenzioni del Sommo Pontefice (recitando secondo le sue intenzioni un
Padre nostro e un’Ave Maria o altra preghiera secondo la pietà e la devozione
di ciascuno).
[6] Cfr. A. Grillo, Teologia delle
indulgenze, iin Indulgenza. Storia e significato, San Paolo, Cinisello Balsamo,
1999, pp. 38-67.
[7] «1Io, fratelli, sinora non ho
potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in
Cristo. 2Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne
eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, 3perché siete ancora
carnali. Dal momento che vi sono tra voi invidia e discordia, non siete forse
carnali e non vi comportate in maniera umana?» (1Cor, 3,1-3).
[8] Cfr. Lc 18, 9-14.
[9] D. Bhonoeffer,
Sequela, Queriniana, Brescia 2004, 113-114.
[10] NdR: cfr. CCC 2146; 2149.
[11] Francesco,
Udienza Generale – Aula Paolo VI, mercoledì, 22 agosto 2018.
[12] «Il peccato più grave commesso nel secolo
XX contro il «Non nominare il nome di Dio invano» è stato quello di Hitler che
faceva scrivere sulle insegne dei suoi eserciti e sui cinghioni delle sue SS il
motto: «Gott mit uns – Dio con noi». Dio è, sì!, l’“Emmanuele”, il Dio
con noi: lo afferma esplicitamente Mt 1,23. Ma è contro il suo santo
comandamento, ed è la più orribile delle bestemmie, l’uso del suo nome come
legittimazione del razzismo, del militarismo, e dello sterminio di milioni di
innocenti». G. Biguzzi, Le
quattro lettere del Nome divino, in Euntes Docete. Commentaria Urbaniana,
1, 2003, pp. 119-123.
[13] Agostino
di Ippona, Sermone, 117, 3, 5.
[14] Cfr. Moltmann,
Teologia della speranza.
[15] Cfr. K. Rahner,
Dio della mia vita,
[16] cfr. G. Sovernigo,
Amare con tutto il cuore. Laboratorio di formazione affettiva. Chiamati,
EDB.
[17] R. Guardini,
Il Signore, Milano 1976, p. 166.
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