Megafoni e scribi del Magistero ecclesiastico?
All’indomani del “caso Lintner” alcuni commenti apparsi danno davvero a pensare… Vale la pena ricordare che i teologi non sono affatto chiamati semplicemente a raccogliere e descrivere argomenti solo probatori di ciò che afferma il Magistero.
Umberto Rosario Del Giudice
Rispetto
alla vicenda che ha visto p. Martin Lintner raccogliere molta solidarietà, sono
apparsi, di contro, commenti indelicati che non meriterebbero neanche di essere
presi in considerazione: commenti che però dicono tanto rispetto alla
percezione della “fede vissuta e pensata” e che narrano il contesto in cui si sta consumando
una vicenda molto delicata. Da una parte, il non sentirsi “chiesa”; dall’altra
la confusione e la incomprensione del ministero del teologo.
Il tenore di
alcuni commenti è questo:
ü “La teologia cattolica è a servizio
della Chiesa cattolica e del Magistero…”;
ü “La teologia non ha il compito di
sindacare, criticare, inventarsi altre strade…”;
ü “Il problema è che oggi la teologia
vuole emanciparsi dalla funzione discente e docente della Chiesa cattolica”.
ü “Lasciate stare la ecclesiologia e il
magistero: il vangelo si fa nella carità…”
Innanzitutto,
dovrebbe essere chiaro che non è possibile dire che cosa sia la teologia se non
già facendo teologia. Di fatto la teologia non può essere ridotta alla
comprensione della fede o a catechismo, ovvero sistematizzazione generica dei
contenuti di fede: essa è comprensione critica della fede che si avvale
delle metodologie scientifiche. Se infatti la comprensione della fede è
atto intrinseco all'esperienza di fede, poiché chi ha fede percepisce le verità
sostanziali di fede condividendole nella Chiesa (l’io credo vive nel noi
crediamo della Chiesa che professa), la comprensione scientifica e critica
della fede non è un atto di autocomprensione della propria esperienza nella
fede comune ma è interrogazione profonda e scientifica sui presupposti della
fede e dei contenuti dottrinali. Il livello comune è caratterizzato dall’attività passiva e
attiva della fede: ogni fedele del popolo di Dio riceve la e risponde alla iniziativa
di Dio. Ma il magistero del teologo interroga con metodologia scientifica i
presupposti della dottrina. Interrogarsi con metodo scientifico significa
innanzitutto conseguire competenze bibliche, patristiche, liturgiche, storiche,
filologiche, filosofiche e quindi teologiche che non sostituiscono ma
completano, approfondiscono e qualificano le competenze del lavoro
intellettuale del teologo. Ed è anche chiaro, oggi più che mai, che le
competenze citate, molto raramente possono essere totalmente conseguite da un
solo “esperto”. Ecco perché il lavoro nel teologo (e in modo decisivo già
almeno da due secoli) si completa in un lavoro di dialogo e confronto in quella
che oggi chiamiamo comunità scientifica teologica, pur permanendo
la responsabilità personale dei teologi in ciò che insegnano, scrivono e
divulgano. Al magistero non è chiesto di articolare un discernimento critico
scientifico del depositum fidei; al magistero ecclesiastico è chiesto di
insegnare e custodire il depositum fidei; così al tempo stesso al
magistero ordinario dei teologi è chiesto di verificare i presupposti, i mezzi e
le forme con cui il depositum viene veicolato. In questa dinamica i teologi non
possono fare a meno del magistero della Chiesa e il magistero della Chiesa non
può fare a meno del magistero dei teologi. Questo equilibrio è essenziale al
deposito il quale sovrasta sempre le forme con cui è mediato nel linguaggio pur
necessario alle attività pastorali e alla funzione catechetica e magisteriale
nella Chiesa.
In altre
parole, da una parte c’è il magistero della Chiesa che custodisce il depositum
e controlla l’operato dei teologi; dall’altro vi è il ministero dei teologi a cui
è affidato il compito di «studiare ed esporre la dottrina della fede» ma anche
di controllare le forme e i presupposti logici con cui è custodito il depositum.
Magistero della Chiesa e magistero dei teologi non si annullano a vicenda ma si
completano: il primo nella custodia e nella diffusione del depositum con
atti di governo e con prassi pastorali, il secondo nella tutela e
valorizzazione con atti di diffusione e verifica scientifica oltre che di
divulgazione[1].
Se dunque da
una parte vi è un elemento comune («conservare, penetrare sempre più profondamente,
esporre, insegnare, difendere il sacro deposito della Rivelazione»)[2],
dall’altra, mentre il Magistero ecclesiastico conserva, tutela, insegna su
questioni di fede e di costumi nelle forme di governo e azioni pastorali
che ritiene opportune e utili, il lavoro dei teologi è quello di mediare tra il
sensus fidei del popolo di Dio e di verificare, attraverso le istanze che
provengono dal mondo scientifico e intellettuale, i presupposti con cui l’unico
depositum è trasmesso dal Magistero ecclesiastico il quale opera con autorità
sacramentale e con potestà gerarchica. Pur non essendo gerarchica, quella dei
teologi, però rimane una autorità accademico-scientifica. La differenza permane
nel carattere scientifico della teologia che il Magistero non può arrogare a sé
solo con argomenti di autorità. Il Magistero ecclesiastico, dunque, è l’autorità
gerarchica sulla trasmissione di dottrine che implicano la fede e i costumi
della Chiesa ma non ha tutta l’autorità scientifica soprattutto quando pone alle
elaborazioni dei teologi e sulle loro spalle argomenti di sola autorità; se lo
facesse, il Magistero ecclesiastico mortificherebbe il depositum stesso che “è
verità di fede” e sua “ricerca ragionata”. Alla libertà del magistero di
governare, di controllare, corrisponde la libera responsabilità dei teologi che
deriva dalla ricerca e critica scientifica e dal corretto lavoro intellettuale.
Se quest’ultima è bloccata con e per soli atti di governo, è la stessa “ricerca
della verità” che viene mortificata; il Vangelo stesso può essere messo in
pericolo.
In questa dinamica
le tensioni sono inevitabili: ma dialogo, confronto, cammino insieme (stile sinodale),
partecipazione alla fede e al vissuto, comprensione dei “segni dei tempi”, che
sono anche “segni di Dio”, possono e devono fare la differenza.
Gli atti di
governo autoritari e le imposizioni di argomenti senza confronto rimangono
la mortificazione del lavoro intellettuale dei teologi ma anche la umiliazione
della funzione del Magistero ecclesiastico dei pastori.
Tra il
magistero ecclesiastico (di governo e di autorità) e il magistero dei teologi
(di responsabilità e autorità critico-scientifica) sta il “sensus fidei”
ovvero il vissuto e la percezione che ha della fede tutto il Popolo di Dio e in
cui tutti i fedeli vivono e pensano, ivi compresi pastori e teologi. Per questo
il rapporto non è a due (Pastori-Teologi), ma a tre (Popolo-Pastori-Teologi).
È in questa
articolazione della comprensione della fede che i teologi continuano, nella
sequela Christi, responsabilmente a proporre argomenti e verifiche delle indicazioni
del magistero ecclesiastico che traduce in “fede e costumi” il depositum.
Per non
venire meno alla loro responsabilità nella Chiesa, davanti al popolo e davanti
al Magistero, i teologi non possono solo divenire “megafoni” e “catechisti”. Il
vangelo e la funzione ecclesiale e ministero responsabile dentro la Chiesa cattolica non lo
permettono.
Vale la pena
allora ricordare ciò che l'allora cardinal Ratzinger disse presentando la Donum veritatis:
«La
teologia non è semplicemente né esclusivamente una funzione ausiliaria del
Magistero: vale a dire essa non può limitarsi a fornire argomenti probatori di
quello che afferma il Magistero»[3].
E se l’ha
detto lui?!…
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