Se la fede è violenza di idee o narrazioni condivise?

 



La fede si nutre di narrazioni.
Quando i racconti si ergono a realismi imprescindibili per difendere i quali si giustifica la violenza fisica o verbale, i dogmi diventano strumenti contro Dio e definizioni prive di significato: diventano bestemmie. I dogmi sono le basi condivise della fede non le somme massimaliste delle esperienze.
 


[Icona del Natale, Icona presente spesso con motivi anche simili nella tradizione orientale. Si può osservare il bambino al centro dell'icona adagiato su un fondo nero, lo stesso sfondo presente nelle rappresentazioni iconografiche della resurrezione di Cristo]  


Umberto Rosario Del Giudice

 

La fede e le sue narrazioni tra realismo storico e tensione escatologica

Molti anni or sono un teologo, in un corridoio di una facoltà teologica, incontrando un gruppo di giovani studenti ebbe a dire che la resurrezione di Cristo sarebbe stata tale “anche se si fosse trovato il suo corpo”.

I giovani studenti di teologia rimasero sbigottiti e iniziarono a fare qualche domanda sporadica non senza interesse di alcuni che altri trasformarono in aperta sfida sull’ortodossia; il professore sviò il discorso dicendo che non era il luogo per confondersi le idee.

In realtà, so per certo che quel docente aveva in mente la differenza tra “realismo storico” e “fede escatologica” e che la risurrezione è, come qualcuno scrive, «l’ingresso di Gesù nella dimensione propria di Dio», e «non può essere un evento empirico, catturabile dai sensi. Questo non significa che non sia reale; anzi, questo semmai significa che essa è reale al sommo grado, esattamente come Dio, che è così reale da non poter essere empirico» (cfr. V. Mancuso, Io e Dio Una guida dei perplessi, 2011; cito Mancuso perché è una delle poche cose che mi vede abbastanza d’accordo con lui). D’altra parte, e come non essere d’accordo, «il cristiano è colui che crede che il Cristo è risuscitato. E tuttavia la risurrezione è anche affermata come evento storico. Il paradosso è totale: la risurrezione è un evento accaduto nella storia, e tuttavia non la si può riconoscere se non nella fede» (Bernard Sesboùé). Appare chiaro che il problema non è la sola “storicità” ma la fede che “vive la storicità”. E se questo è vero per la “resurrezione” lo sarà anche per il “Natale”.

 

Le narrazioni sul “Natale”

Allo stesso modo torna in questi giorni la questione sulla “maternità e verginità” di Maria.

La verginità corporale di Maria e la sua maternità avvenuta non “humano modo” diventano questioni teologiche che si rincorrono sui pulpiti, nelle aule teologiche, tra i banchi di scuola, talvolta a pranzo coi parenti e perfino al Bar… Si citano le dichiarazioni dei “dogmi” del Concilio di Efeso del 431 fino alle definizioni del Concilio di Costantinopoli nel 553… E continuano inetti rimandi che non tengono conto di mille fattori ma soprattutto che giustificano la “violenza delle idee” e dei “dogmi”, dimenticando il mistero profondo che ha avvolto la vita concreta di Maria di Nazareth.

Senza la capacità di percepire quei vissuti, così come ci si divide tra credenti che affermano che il corpo di Cristo sia risorto quasi in forma di rianimazione e altri che affermano la portata di “parola definitiva” della presenza del risorto non mitologica sul destino degli uomini, ci si divide sulla verginità e maternità di Maria: da una parte coloro che affermano la potenza e il controllo di Dio anche sulla e oltre la “naturale procreazione” e quelli che vogliono indicare la possibilità di una maternità “umana” ma che ha portato ad una vita del tutto speciale e unica come quella di Gesù, nel mistero profondo di vite vissute nella presenza reale di Adonai (il “mio Signore”, secondo la lingua ebraica). Addirittura, per cercare di rendere più credibili le varie posizioni, si trovano qui e lì affermazioni del genere: «Anche Joseph Ratzinger, che pure difende il dogma della verginità di Maria, ritiene che la dottrina della divinità di Gesù non verrebbe intaccata se egli fosse nato da un normale matrimonio umano» (e cita J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 2005). Alla violenza, nell’uno e nell’altro senso, si aggiunge l’autorità razionale!…

 

Narrazioni diverse, fede unica

Ma è proprio davvero indispensabile essere d’accordo sulla narrazione piuttosto che sul suo reale e sostanziale significato per la fede? Non è più pertinente all’atto di fede essere concorde nella carità sulla sostanza delle narrazioni? Non è meglio relativizzare le questioni secondarie per affermare l’importanza tutta nuova e innovativa di quella vita e di quella presenza tenera e decisiva che chiamiamo, tra cristiani, Cristo Gesù? Non è forse proprio questo l’intento della definizione del dogma della maternità e verginità di Maria? Questi argomenti ci portano a scontrarci tanto da preparare una nuova “guerra dei trent’anni”… Basta leggere i commenti di una qualsiasi chat o di una qualsiasi rubrica. Davvero sconcertanti…

Perché un dogma deve essere interpretato solo in senso “realistico” e “esclusivista”? Un “dogma”, ovvero una “verità di fede”, una “opinione (doxa) non opinabile per i credenti” comporta una narrazione unica e intollerante?

Le verità di fede sono raccontate da ciascuno e per ciascuno, secondo le sensibilità, le esperienze e la fede, dal “devoto” al “pensatore”… Le narrazioni servono per vivere nella fede non per idealizzarla. I dogmi sono le basi condivise della fede non le somme massimaliste delle esperienze.

La fede cristiana è per tutti; le sue narrazioni sono diverse; il suo scopo, unico: l’esperienza e la presenza di Dio nella vita. Tuttavia, è chiaro che dovremmo anche essere più capaci di narrare secondo una mentalità simbolica e religiosa e non con le maglie strette dello scientismo teologico e del razionalismo catechistico. Dovremmo ritornare alla sapienza degli antichi Padri che hanno gettato le fondamenta della Chiesa e dei dogmi stessi.

Ha scritto un antico vescovo e teologo greco, Padre della Chiesa: «Allorché, dopo la fredda stagione invernale, sfolgora la luce della mite primavera, la terra germina e verdeggia di erbe, si adornano i rami degli alberi di nuovi germogli, e l’aria comincia a rischiararsi dello splendore di Helios. La schiera degli uccelli si slancia verso l’etere, tutta traboccante dei suoi melismi. Ma, badate, per noi v’è una celeste primavera, ed è il Cristo che sorge come un sole dall’utero della Vergine. Egli ha messo in fuga le fredde nubi burrascose del diavolo e i sonnacchiosi cuori degli uomini ha ridestato alla vita dissolvendo con i suoi raggi solari la nebbia della ignoranza. Per tanto eleviamo lo spirito alla luminosa e beata magnificenza celeste di questo splendore!». (Ps. Crisostomo, In Christi Natalem, PG 61, 763).

Su queste parole si potrebbe argomentare molto. Ma qui basta riprendere il senso fondamentale: per il cristianesimo antico è chiaro che il “Natale non è altro che una Pasqua celebrata in anticipo” (H. Rahner).

La gioia pasquale del prossimo Natale sia l’unica forza che unisce i cristiani, anche se ciascuno preferisce racconti e narrazioni diverse dell’unica fede. Questa gioia condivisa sia anche luogo di sereno dialogo e mai di scontri. Le narrazioni univoche hanno già prodotto tanta violenza e tante guerre anche e soprattutto a partire dai monoteismi; e questo i cristiani non se lo possono assolutamente permettere: sarebbe una bestemmia.

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