Primus non habet emeritus: contro il relativismo canonistico in memoria di Ratzinger





Le “sfumature” delle parole sono attinenti alla carità ecclesiale. E il diritto sa di cosa parla quando mette i puntini “sull’emerito”. Le sfumature sono possibili: ma a nessuno la canonistica concede di relativizzare i princìpi. “Emerito” può andar bene con “vescovo” mai con “papa”, a meno che non fai chiacchiere da bar: e questo ti deve essere chiaro per non cedere al “relativismo giuridico”.

 



Umberto Rosario Del Giudice

 

Nel giorno in cui si esprime il proprio ringraziamento per l’anno trascorso (“Te deum…”) bisogna onorare e ricordare bene la figura di uno dei papi che ha fatto storia e ne farà ancora, sotto il segno del realismo pastorale e della volontà di governo lucido. La sua Introduzione della Introduzione lio credo... amen diventa viatico per il suo incontro. Ma intanto, grazie al suo esempio, non si smette di essere lucidi per evitare ogni relativismo anche giuridico

 

Cordoglio e resurrezione

È morto papa Ratzinger; è morto Benedetto XVI; è morto il vescovo emerito di Roma; è morto quello che fu il Romano Pontefice. Dispiace che sia morto oggi un grande uomo, onesto e generoso. Nella speranza cristiana però la tristezza si traduce in pace serena, soprattutto davanti al decesso di una persona mite, umile, santa.

Ma il cordoglio non sarebbe pieno se non riapprezzassimo le parole di Ratzinger, il quale scriveva, nella sua ormai conosciuta Introduzione al cristianesimo[1], che

«il dialogo di fondo, che è il primissimo elemento da cui l’uomo vien costituito nel suo vero stato d’uomo, sfocia senza soluzione di continuità nel dialogo di grazia, che ha nome Gesù Cristo. E come potrebbe essere diversamente, se Cristo è in tutta la realtà il “secondo Adamo”, l’autentico appagamento di quell’infinito anelito che prorompe dal primo Adamo, ossia dall’uomo in genere?»[2].

Nella fede sappiamo che l’incontro è ora appagamento di quell’infinito anelito, sempre cercato e testimoniato, di Joseph Ratzinger.

 

L’espressione “papa emerito”

Al cordoglio vanno aggiunte precisazioni. In queste ore, infatti, si rincorrono comunicazioni e cordogli che coinvolgono l’espressione di “papa emerito”. Questa espressione è entrata nel “volgo” ma rimane tecnicamente scorretta sebbene ne faccia uso anche la Sala Stampa della stessa Santa Sede. Dal punto di vista della comunicazione immediata essa non appare scorretta; dal punto di vista tecnico lo è; se poi la Sala Stampa della Santa Sede non vuole creare equivoci potrebbe evitare l’espressione; ma solo i “duri di cervice” non capiscono ancora che accanto alla ragione di “opportunità” ce n’è anche una tecnica.

Dispiace dover scrivere oggi su questo e annotare le differenze: ma non si tratta di sottigliezze (come qualcuno le ha chiamate) né di effimero sofismo. Si tratta di lucida ragionevolezza giuridica. E di questa, non dei relativismi giuridici, la Chiesa ha bisogno. Sempre.

Quale l’argomentazione di logica giuridica?

Va chiarito che l’espressione “papa emerito” è “generalmente usata” e, come ci insegnano linguisti, può trovare un suo uso nella comunicazione immediata senza timore di errare. Io stesso qualche tempo fa la usai in una pubblicazione (di carattere divulgativo) anche se, ritenendo utilissima la chiarezza anche tecnica, oggi non la userei neanche in un “post” senza chiarire.

L’espressione “papa emerito” è dunque permessa se usata nell’immediata comunicazione ma tecnicamente sbagliata. Se poi si aggiunge che non molti sanno fare le debite distinzioni, allora sarà utile non usarla in ogni contesto o come “espressione normale”. Essa rimane eccezionalmente comune, “volgare”.

 

Distinzioni

Per emerito si intende colui che non esercita più un ufficio pur conservandone il titolo. E questo è il motivo della mia astensione, e quella della canonistica, dall’espressione di “papa emerito”.

È chiaro, infatti, che il Vescovo di Roma è anche Romano Pontefice (can. 330). I due uffici sono congiunti ma differenti poiché un Vescovo ha potestà derivane dai tria munera dell’ordinazione in sacris esercitata su una porzione di popolo, mentre il Romano Pontefice ha potestà universale. Ma la proporzione delle due potestà non è in rapporto alla Diocesi ma al Collegio Apostolico. Il Vescovo di Roma è primo tra gli Apostoli. Quindi la relazione di comunione e, al tempo stesso, primarziale è la distinzione sostanziale con gli altri Vescovi. In più, quello di ogni Vescovo è la posizione di “sintesi dell’unità” del popolo locale. Quella del Romano Pontefice è la posizione della sintesi di “unità della cattolicità” permanendo, per questo, “primo tra gli Apostoli”.

Ora appare chiaro che dal momento che il Pontefice rinuncia al soglio pontificio smette di essere “primo” tra i successori degli Apostoli. Ma non smette di essere Vescovo.

D’altra parte, il titolo di Vescovo emerito di una Diocesi è previsto dal Codice (cann. 185, 402 §1); il Pontefice (il primo tra gli Apostoli), non può essere “emerito”: o si ha la potestà universale o non si ha; o sei primo o sei tra pari. Infatti, il Codice non riporta “emerito” per un Pontefice che dichiari la libera rinuncia che, si badi, non deve essere accettata (contrariamente alle dimissioni presentate dal Vescovo diocesano).

La differenza, dunque, è nominale, funzionale e sostanziale: sei Romano Pontefice perché sei “primus Apostolorum”; ma se rinunci non smetti di essere Vescovo ovvero di avere dignità sacramentale secondo il terzo grado dell’ordine sacro e di conservare un “titolo” in relazione ad una “Chiesa particolare” (nella fattispecie, di Roma), nella quale anche si esprime tutta la Chiesa cattolica[3].

L’errore nell’espressione “papa emerito” è giuridico: non vi è un vice Romano Pontefice… Ma è anche quello di dare una falsa sensazione di realtà giuridica: che vi sia un “vice”, un “ex”, un “secondo dei primi”.

Ma su questo, la tradizione, la canonistica e la teologia hanno evitato, per i noti motivi storici, qualsiasi confusione. Fare confusione è un “relativismo giuridico” che la Chiesa cattolica non vuole, non può, e non deve permettersi.

 

L’uso di “vescovo emerito” secondo un Pontefice

Durante l'intervista rilasciata alle giornaliste Maria Antonieta Collins e Valentina Alazraki, Papa Francesco ribadisce che, nel caso di rinuncia, penserebbe a sé come al “Vescovo emerito di Roma”.

Tralasciando altre questioni, va ribadito che tale titolo sarebbe l’unico attualmente in linea col Diritto canonico per un Vescovo che rinunci al mandato petrino e quindi alla sede di Roma. Basta ricordare dunque alcune evidenze:

1. il Codice di Diritto canonico non cita mai la parola “Papa”, tantomeno “Papa emerito”; il Vescovo di Roma è detto per lo più Romano Pontefice;

2. è Romano Pontefice colui che è eletto Vescovo della Chiesa di Roma (cfr. can. 331);

3. c’è differenza tra potestà episcopale (immediatamente connessa con l’ordinazione e la comunione col vescovo di Roma) e la potestà universale del Romano Pontefice connessa all’appartenenza al Collegio episcopale (e dunque in comunione) e con l’essere, poiché accettata la elezione del Collegio, primo su altri. Questo passaggio risulta essenziale per comprendere la potestà universale e immediata del Romano Pontefice.

Un Vescovo di Roma che rinunci al suo ufficio, per il diritto stesso (ex cann. 185 e 402 §2, eccezion fatta l’accettazione della rinuncia poiché nessuno deve accettare la rinuncia libera del Romano Pontefice, ex can. 332 §2), diventa Vescovo emerito, non Papa emerito. Se, infatti, è emerito colui che non esercita più un ufficio pur conservandone il titolo, il titolo che si può conservare è solo quello di Vescovo non di Romano Pontefice, poiché quest’ultimo sott’intende il carattere primarziale di potestà universale. E poiché anche in dottrina “Romano Pontefice” si dice “Papa” è evidente che “papa merito” è un titolo inesistente e fortemente forviante.

 

L’espressione per il Devoto-Oli

Se è vero che l’edizione del 2021 del Devoto-Oli registra quello di “papa emerito” come «titolo conferito a un papa in seguito all’eventuale sua rinuncia al pontificato» e se è vero che il noto dizionario monolingua in questo modo annota l’uso dato alle parole dal lessico comune e dai social, è altrettanto vero che il “titolo” di “papa emerito” è fuori da ogni logica del Diritto canonico attuale; e faccio molta fatica a pensare che tale titolo potrà un giorno trovare spazio nella codificazione o nella disciplina canonica.

Forse in futuro avremo una particolare “disciplina per la rinuncia del Romano Pontefice” che vedrà quel titolo come la libera possibilità di indicare il Romano Pontefice rinunciatario (ma bisognerà vedere in che modo verrà presentato un tale titolo); intanto, abbiamo sia il Diritto canonico quanto la piccola ma tutta cattolica realtà che al Vescovo di Roma, primo nel Collegio e per questo successore di Pietro, è legata la potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale.

La viscida tentazione di fare della titolazione comune di “papa emerito” la subdola indicazione che ci possa essere un altro “papa” è poi fuori da ogni comunione ecclesiale e gerarchica.

Il Diritto canonico, ovvero la Tradizione cattolica, su questo è chiaro.

Il resto sono parole comuni, titoli improvvisati, onori ossequiosi, magari anche onorevoli, ma dal punto di vista del Diritto e della sostanza rimangono “parole del volgo”; nient’altro e nulla di più.

 

Concludendo: Ratzinger insegna

L’uso dell’espressione “papa emerito” è dunque corretta, o comunque non problematica, per una comunicazione immediata ma non tecnica e, per questo, mal si concilia con comunicazioni ufficiali.

L’uso della stessa espressione con subdoli interessi è diabolico.

Dal punto di vista canonistico la stessa espressione è inesistente; la relazione della forma di “emerito” è relativa ad un titolo; nella Chiesa cattolica, non ci sono mezzi titoli universali poiché la relazione giuridica non è col titolo ma con la funzione acquisita dal Romano Pontefice nell’ambio del Collegio episcopale: “primo tra gli Apostoli” e sempre in comunione con loro.

Ma chi vuole deviare le sottigliezze cerca di intendere ciò che non è: relativizza lo stesso “primo” o il “diritto, per togliere qualcosa al “primo vigente”. E questo non è “cattolico”.

Ma lascerei la parola al “papa emerito” (visto che ora ho chiarito) e direi che la “cattolicità” rimane una profonda realtà di comunione al servizio della quale tutti sono chiamati. Le “sfumature” delle parole sono attinenti solo alla carità ecclesiale. E il diritto sa di cosa parla quando mette i puntini “sull’emerito”. Le sfumature sono possibili: ma a nessuno la canonistica concede di relativizzare i princìpi.

 

Ratzinger scriveva:

«solamente la comunità unita al vescovo è ‘chiesa cattolica’, mentre quindi non lo sono affatto i gruppi parziali che –per qualsiasi motivo– se ne sono staccati. In secondo luogo, si afferma l’unità delle chiese locali fra loro, le quali non possono rinchiudersi e incapsularsi in se stesse, ma possono rimanere davvero chiesa solo mantenendosi aperte l’una verso l’altra, in quanto formano un’unica chiesa nella comune attestazione della Parola e nella comunione della mensa eucaristica, che è aperta a tutti in ogni luogo. Nelle antiche spiegazioni del Credo, la chiesa ‘cattolica’ viene contrapposta a quelle “chiese che sussistono soltanto nelle loro rispettive province”, ponendosi così in netto contrasto con la vera natura della Chiesa.

Come si vede, nell'aggettivo “cattolica” si esprime la struttura episcopale della chiesa, e ha contempo la necessità dell’unione di tutti i vescovi fra loro; il Simbolo non contiene quindi alcuna allusione diretta alla cristallizzazione di quest’unità nella sede episcopale di Roma. Sarebbe però senz’altro sbagliato dedurne che un tale spunto orientativo dell’unità rappresenti solo uno sviluppo secondario. A Roma, dove il nostro Simbolo ha avuto i natali, questa idea è stata subito sottintesa come ovvia e scontata. Esatto è invece che questo postulato non va annoverato fra gli elementi primari del concetto di chiesa, e non può nemmeno quindi accampar la pretesa di rappresentare la sua genuina a base di costruzione. Elementi fondamentali per la costituzione della Chiesa appaiono invece il perdono, la conversione, la penitenza, la comunione eucaristica e in derivazione da questa la pluralità e l’unità; pluralità costituita dalle chiese locali, che però restano chiesa unicamente tramite il loro inserimento nell’organismo dell’unica chiesa. Quale contenuto dell’unità devono fungere innanzitutto la Parola e il sacramento: la chiesa forma un tutto unico grazie all’unica parola di Dio che è l’unico pane celeste. La strutturazione episcopale si presenta soltanto sullo sfondo, come mezzo per cementare questa unità. Essa non esiste per conto proprio, ma rientra invece nella categoria dei mezzi; la sua posizione va sintetizzata la preposizione ‘per’: serve insomma alla realizzazione dell’unità delle chiese locali, in se stesse e fra di loro. Un ulteriore stadio, sempre nell’ordine dei mezzi, sarà poi costituito dal servizio prestato alla chiesa dal vescovo di Roma»[4].

 

 

 



[1] J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das apostolische Glaubensbekenntnis, München 1968; qui citerò l’edizione italiana: Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia 1969.

[2] Introduzione al cristianesimo, 394-395.

[3] «Fin dall’epoca apostolica si trovano quelle che in se stesse sono Chiese, perché, pur essendo particolari, in esse si fa presente la Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali. Sono perciò costituite “a immagine della Chiesa universale”, e ciascuna di esse è “una porzione del Popolo di Dio affidata alle cure pastorali del Vescovo coadiuvato dal suo presbiterio”». Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, 8 maggio 1992, n. 7 (a firma del prefetto Ratzinger…).

[4] Introduzione al cristianesimo, 285-286.

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