Prassi, assoluzione generale e percorsi di corresponsabilità ecclesiale? Una possibilità per il Codice
La proposta di Michele Aramini e la riflessione di Andrea
Grillo riaprono il dibattito sulla “terza forma” della Penitenza. Un rito di
penitenza con assoluzione generale non sarebbe solo auspicabile per la prassi
pastorale e per l’esercizio comune dell’ascesi ma anche una possibilità di
concretizzare la struttura comunionale proposta dal Concilio e dal Codice.
Umberto Rosario Del Giudice
In occasione delle misure restrittive, si è avuto modo di
riflettere sulla terza forma del Rito della Penitenza, quella, cioè, che offre
la possibilità di assoluzione generale senza atto di confessione individuale e
auricolare.
Gli interventi su La terza forma della penitenza: un
dibattito sono stati ospitati sul Blog di Andrea Grillo: le riflessioni
hanno offerto un excursus
canonico, uno pastorale
(di M. Gallo), uno sacramentale
(A. Grillo) e uno più sociologico
(I. De Sandre).
La questione ritorna in questi giorni non solo come proposta
pastorale ma anche come prassi penitenziale comune, utile radice di atto
ecclesiale di una Chiesa semper reformanda e sempre in cammino (qui
la riflessione di Andrea Grillo che rimanda alla provocazione di don Michele
Aramini).
Condividendo tutto ciò che è stato riportato, vorrei brevemente
qui evidenziare due elementi costituiti da un passaggio dell’intervento
di Andrea Grillo e da un rimando non secondario dell’analisi di Italo
De Sandre.
Ritorno a una “giustizia”
Andrea Grillo, tra altre considerazioni, scrive:
«la riscoperta del sacramento come “percorso penitenziale”
ne sposta le competenze dalle formalità burocratiche ai percorsi di giustizia,
di pena e di riscatto del soggetto. Di qui scaturisce anche la sua pertinenza
“giuridica”, nel senso più alto e migliore del termine».
Il passaggio coglie appieno il limite attuale della norma
canonica. Il CIC, infatti, prevede la celebrazione nella terza forma solo in
caso di necessità, ovvero in caso di imminente pericolo di morte e in presenza
di grande numero dei penitenti contestualmente al caso di grave necessità (cfr.
can. 961 §1). E poiché anche in caso di assoluzione generale non va omessa,
appena possibile (quam primum),
la confessione individuale, l’impostazione giuridica di questa norma è chiara: la
“penitenza” è direttamente collegata all’accusa formale (secondo numero, specie
e genere) dei peccati.
La “penitenza” è dunque “confessione”.
Se la dottrina canonistica riconosce l’assoluzione generale (e quindi la penitenza sacramentale) solo in questo modo, non solo continuerà ad oscurare il valore stesso del IV sacramento ma lo tradirà, confinandolo nel recinto della patologia della sequela Christi. La dottrina canonistica dovrebbe perciò riconoscere che i canoni riferiti all’assoluzione generale (absolutio pluribus) sono riduttivi rispetto a tutta la tradizione canonica che, al contrario, valorizza e tutela le esperienze ecclesiali e comunionali. Ancor di più, la reductio ad pœnitentem di tutta la penitenza testimonia quanto il diritto canonico debba ancora operare ulteriori distinzioni tra tradizione formale e tradizione morale. Se il Codice pensa all’assoluzione generale solo in ordine all’accusa dei peccati, presentandone le caratteristiche in modo così univoco, tradisce l’indole moralista di una tale impostazione che una “vera giustizia” non può sopportare.
La “giustizia comunionale” è una continua ricerca dell’intera
Chiesa e, quindi, rientra con tutta la propria autorevolezza nell’ambito delle
possibili prassi penitenziali. D’altra parte, la penitenza è sempre correlata
alla conversione e alla fraternità, infatti:
«Parlare di riconciliazione e penitenza è, per gli uomini e
le donne del nostro tempo, un invito a ritrovare, tradotte nel loro linguaggio,
le parole stesse con cui il nostro salvatore e maestro Gesù Cristo volle
inaugurare la sua predicazione: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15),
accogliete, cioè, la lieta novella dell'amore, dell'adozione a figli di Dio e,
quindi, della fratellanza» (RP, Proemio).
Ma di questo il Codice non dovrebbe occuparsi?
In realtà, il CIC rimanda ad una possibilità: quella di stabilire
anche “giorni di penitenza comuni” (cfr. can. 1244 §§1-2) secondo prassi
penitenziali (can. 1249-1250) e altre forme di penitenza (can. 1253).
In quest’ottica, la possibile prassi penitenziale con l’assoluzione generale, opportunamente regolata (magari dall’Ordinario del luogo), aprirebbe la possibilità di percepire la “giustizia” come forma di conversione e di responsabilità, oltre che percepirne l’indole essenziale nell’evento pasquale: atto che rivela ad un tempo misercordia di Dio ma anche nuovo ordine “giusto”, nel Cristo crocifisso e risorto. Nella Chiesa, infatti, non vi è un “semplice” rimando alla giustizia distributiva.
Cammino come “libertà” e “corresponsabilità”
La possibilità, dal punto di vista canonico, di istituire
una giornata di “assoluzione generale” è, dunque, reale, purché si comprenda
tale prassi al di fuori del “caso di necessità” e della “confessione auricolare”.
Ma l’opportunità di una tale prassi, riformulata anche dal
punto di vista giuridico-canonistico, chiede di considerare anche il
cambiamento di percezione della Chiesa stessa. Essa non si autodetermina come
societas inegualis ma come communio fideles. E la struttura e la logica del
Codice riprende su questo la logica del Concilio Vaticano II.
Una prassi penitenziale comune, con assoluzione generale,
sarebbe anche una attestazione di corresponsabilità. Sarebbe giusto, sotto
questo profilo, considerare un altro aspetto ben evidenziato da De Sandre il
quale affermava giustamente che nella storia il sacramento della penitenza confessione
è stato un grande dispositivo di controllo delle persone-individui.
Non è una questione secondaria, né dal punto di vista pastorale né dal punto di vista canonico. Se, infatti, il CIC tende a tutelare la confessione auricolare “sempre e comunque” e non apre a neanche una celebrazione con assoluzione generale annuale, continuerà a perpetrare una pratica (pre-)moderna per la quale il controllo della singola coscienza era l’unica forma di formazione postcatechetica (contenutistica e mnemonica) e, soprattutto, l’unica forma di controllo entro una società che si percepiva “totalmente cristiana”. Se il cristiano di oggi è immerso in una società aperta, spesso tendente all’utilitarismo e all’individualismo delle scelte morali, una celebrazione comune di penitenza lo aiuterebbe a ripensare la propria libertà nell’ambito della condivisione fraterna e, quindi, nell’ambito della condivisione di valori (cristiani). Lo aiuterebbe a ripensare i contesti della propria libertà entro i quali spesso in confessione si afferma che “non c'è nulla da dire”... Una celebrazione comunitaria e di perdono comune, introdurrebbe la reale logica della penitenza condivisa (di tutta la vita cristiana) e la possibilità di percepire sempre meglio la partecipazione responsabile alla vita della Chiesa.
Ancora: se il sacramento della penitenza era pensato
come “controllo” nell’ambito di una società ecclesiale formata da “ineguali”,
nell’attuale composizione ecclesiale (comunionale e di corresponsabilità) la
celebrazione comune della penitenza, oltre che essere luogo di confronto e di
festa, sarebbe il luogo di sensibilizzazione delle coscienze e dei cammini,
impostati alla virtù della vita cristiana. Una forma di “corresponsabilità” a
cui la sensibilità ecclesiale chiede di conformarsi ben diversa dalla sola
obbedienza nella forma della “direttività” di oltre mezzo secolo fa.
La sensibilità in ordine alla corresponsabilità ecclesiale
del singolo fedele sarebbe più visibile se, a quella corresponsabilità, venisse
data forma penitenziale, comune e con assoluzione generale. Non si tratta solo di dare visibilità ad una forma ideale; si tratta di dare concretezza ad una necessità quella della formazione attraverso la immersione nel vissuto ecclesiale (e, dunque, attraverso il rito che forma).
Il CIC e la canonistica non si possono chiudere dentro le
logiche morali e sacramentali “moderne” ma devono rendere percorribile la communio Ecclesiæ, anche rinnovando
le pratiche pastorali.
E l’assoluzione generale appare sempre più una possibilità
concreta da normare anche e oltre i soli casi di “grave necessità”.
Commenti
Posta un commento