Effetti simbolici del crocifisso tra “maggioranza civile” e “passività teologica”
Oggi la notizia di una sentenza della Cassazione sul tema del “crocifisso nelle aule scolastiche”. All’origine di tutto una valida delibera degli studenti riuniti in Assemblea di Classe. Appare dunque doveroso sintetizzare i fatti e il merito in diritto dal quale emerge la “passività formale” del crocifisso/oggetto che per i credenti cristiani si rivela come una “passività teologica”, affine ad una assenza-presenza con la quale, nel Crocifisso, siamo chiamati a valorizzare il dialogo piuttosto che i dogmi, il confronto anziché gli oggetti d’arte sacra.
Umberto Rosario Del Giudice
Il 6 luglio 2021 in Camera di Consiglio, la Corte Suprema
di Cassazione in Sezioni civili unite, ha adottato una decisione (ovvero
sentenza) di cui oggi sono state pubblicate le motivazioni.
Molte testate giornalistiche hanno pubblicato titoli e
articoli anche se, fino alla tarda mattinata di oggi (10 settembre) era
possibile scaricare dal sito istituzionale solo un Comunicato
stampa.
In ogni caso, vale la pena
riprendere alcuni punti della decisio e proporre una breve riflessione
anche dal punto di vista teologico.
Facti
species: alcuni punti fondamentali del “caso”
I dati relativi ai fatti del caso.
1.
Negli anni 2008 e 2009 il professore FC,
docente di ruolo di materie letterarie presso l’Istituto “Alessandro
Casagrande” di Terni, è sottoposto a procedimento disciplinare perché,
prima dell’inizio delle sue ore di lezione, rimuoveva sistematicamente, in “autotutela”,
il crocifisso dalla parete dell’aula.
2.
Gli studenti in Assemblea di Classe deliberano
a maggioranza di mantenere affisso il simbolo durante tutte le ore di lezione,
comprese quelle del prof. FC.
3.
Il
Dirigente scolastico ordina con regolare Circolare che il simbolo
religioso sia fissato stabilmente alla parete diffidando formalmente il docente
«dal continuare in questa rimozione che sta creando negli studenti frustrazione,
incertezza e preoccupazione».
4.
Anche
in un Consiglio di Classe, i docenti a maggioranza prendono atto della
volontà degli studenti di mantenere il crocifisso nell’aula riconoscendo la
circostanza di “laicità” della decisione degli studenti tra i quali alcuni di
fede musulmana. Tuttavia, durante il Consiglio di Classe il docente rivolge improperi
all’indirizzo del Dirigente scolastico.
5.
Il
docente viene sospeso dal servizio della competente autorità scolastica provinciale.
Tra i sei punti di motivazione del provvedimento spicca il primo e il quinto,
rispettivamente: che «l’insegnante aveva reiteratamente attuato un
comportamento in contrasto con la volontà espressa dalla maggioranza degli
alunni» e che «il gesto di “togliere e mettere” il crocifisso, collegato
all’ingresso in aula dell’insegnante, non era educativo, perché non teneva
conto della particolare sensibilità dei soggetti in fase evolutiva a lui
affidati».
6.
Il
prof. FC oppone ricorso poi respinto dal Tribunale territoriale competente. La motivazione,
che rilegge una sentenza del 2011 della Cour européenne des droits de l’homme
di Strasburgo, è lapidaria e si articola su di un concetto di “passività” del
crocifisso/oggetto rispetto alla scelta e alle convinzioni dei soggetti: «se la
presenza del crocifisso non produce una indebita influenza sugli allievi, a maggior
ragione non è idonea, in quanto tale, a limitare la libertà di
religione, di espressione e di insegnamento di un docente di materie
letterarie, ovvero di una persona dotata di età, esperienze, maturità e
formazione ben superiori a quelle di un ragazzo». La Cassazione commenta: «In
definitiva, secondo il Tribunale [di Terni, nda], il comportamento del
docente ha integrato una violazione dei doveri di formazione ed educazione
propri di ogni insegnante, perché, al di là delle convinzioni personali del
ricorrente, la questione dell’affissione in aula del crocifisso era stata
oggetto di plurimi approfondimenti, in contesti diversi, sia da parte dei
ragazzi che dei docenti, all’esito dei quali risultava evidente il senso
della presenza del predetto simbolo in aula e la mancanza di qualsivoglia
intento discriminatorio diretto a limitare la libertà del singolo insegnante».
7.
Anche
la Corte d’appello di Perugia respinge ricorso d’appello precisando che «che l’esposizione
del crocifisso non ha limitato la libertà di insegnamento e che il
ricorrente non ha titolo per dolersi dell’asserita violazione del principio
di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione nonché di
quello di laicità dello Stato, perché gli stessi danno origine, non a diritti
soggettivi dei singoli, bensì ad interessi diffusi, la cui tutela è
affidata agli enti esponenziali della collettività nel suo complesso e
solo nei casi di espressa previsione di Legge ad associazioni o enti collettivi
che di quegli interessi sono portavoce».
8.
Il
professore ricorre in Cassazione eccependo ben otto motivi terminando con la
richiesta il risarcimento danni.
In iure: alcuni dati di diritto
Anche se la Sentenza meriterebbe una lettura integrale, questi
alcuni dati di diritto che sembrano interessanti per ben comprendere l’equilibrio
necessario tra libertà di religione, laicità dello Stato e libertà di coscienza.
1.
La
questione verte essenzialmente sull’ordine impartito dal Dirigente scolastico
di esposizione del crocifisso. Una disposizione che però era relativa alla decisione
dell’Assemblea di Classe.
2.
L’esposizione
del crocifisso nelle aule scolastiche non è imposta da disposizioni di legge ma
solo da regolamenti, risalenti nel tempo passando il cui quadro di
riferimento giurisprudenziale è stato ricostruito[1] e
confrontato con gli approdi del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione[2].
3.
L’art.
118 del Regio Decreto n. 965 del 1924 è ancora formalmente in vigore
anche per le scuole “medie” superiori che poi hanno cambiato nome di grado
(superiori e secondarie di secondo grado): quindi è anche compreso l’Istituto
tecnico professionale di Stato nel quale si è svolta la vicenda.
4.
La
sentenza della Corte di Strasburgo del 2011 non è del tutto sovrapponibile alla
presente fattispecie.
5.
La
Sezione di Lavoro pone la questione «se, a fronte della volontà manifestata
dalla maggioranza degli studenti e dell’opposta esigenza esplicitata dal
docente, l’esposizione del simbolo fosse comunque necessaria o se non si
potesse realizzare una mediazione fra le libertà in conflitto, consentendo,
in nome del pluralismo, proprio quella condotta di rimozione
momentanea del simbolo della cui legittimità qui si discute, posta in
essere dal ricorrente sull’assunto che la stessa costituisse un legittimo
esercizio del potere di autotutela».
6.
La
Scuola rimane sede primaria di formazione del cittadino anche
nella neutralità: principio che non vuol dire laicità imposta ma rispetto
delle convinzioni.
7.
I
soli principi che possono aiutare alla riflessione sul caso sono quelli
relativi alla libertà religiosa, al principio di laicità nelle
sue diverse declinazioni, al pluralismo, al divieto di discriminazioni
(a tutti i livelli), alla libertà di insegnamento nella Scuola pubblica
aperta a tutti.
In
facto: alcuni dati della Sentenza
Il simbolo del “crocifisso” è
essenzialmente “passivo” e la sua esposizione nel luogo di lavoro è
stata ritenuta non idonea ad influenzare la psiche dei lavoratori e degli
allievi. La sua esposizione esclude la sussistenza della discriminazione
indiretta e l’azione di autotutela del prof. FC non è difendibile solo per
far valere diritti soggettivi inviolabili. Non c’è, in altri termini, alcuna
relazione tra nesso confessionale e insegnamento e valori del
cristianesimo.
Il sistema educativo della Scuola
pubblica è obiettivo, pluralista e orientato allo sviluppo del senso critico
ed è improntato ai valori costituzionali di uno Stato laico e di una
società aperta. D’altra parte, se effettivamente la presenza del
crocifisso fosse suscettibile di connotare l’esercizio della funzione pubblica
che si svolge nelle aule e di evidenziare che l’insegnamento si esercita sotto
l’ala protettrice della fede, allora non vi potrebbe essere mai spazio
per il crocifisso in un’aula scolastica, dalla quale dovrebbe essere, sempre ed
in ogni circostanza, bandito. Ci dovrebbe essere un divieto assoluto di
esposizione del crocifisso. Così non è; il principio di intangibilità del
foro interno della persona e il diritto di professare liberamente la propria
non-credenza non appare violato per il solo fatto di convivere, anzi: sono
entrambi tutelati proprio nella scelta libera.
Nel caso particolare, la Scuola, con
segni, rappresentazioni o manifestazioni di un pensiero libero e diverso e,
soprattutto, non imposto dall’autorità, appare come libera fruizione del
servizio scolastico e apice di libertà.
Pertanto, non è consentita nelle
aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei
pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso e, sebbene l’art. 118 del
Regio Decreto n. 965 del 1924 sia in vigore, deve essere interpretato in
conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi
costituzionali. La comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso
in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti
i componenti della medesima comunità, ricercando un “ragionevole
accomodamento” (reasonable
accommodation) tra eventuali posizioni discordanti.
Conclusioni
Da quanto emerge dalla Sentenza si
può concludere che la Cassazione ha saputo operare con grande equilibrio.
Se da una parte ha ribadito che l’obbligo dell’esposizione del crocifisso,
pur vigente anche per le scuole secondarie di secondo grado, non è opposto
alla libertà di coscienza, alla libertà di religione, tantomeno alla
laicità dello Stato dall’altro non lo ritiene, stando alla Costituzione
italiana, un obbligo che non debba tenere conto del rispetto reciproco e del
dialogo. Nella fattispecie non solo emerge la necessità di accogliere il prevalente
sentimento degli alunni, ma che questa accoglienza è per sé stessa “laicità”.
Non solo; la Corte ha ribadito
che il simbolo del crocifisso indica l’origine religiosa dei valori di
tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di
affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della
coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto
di ogni discriminazione che pure connotano la repubblica italiana.
Ma appare alla stessa Corte la
necessità di affrontare queste questioni con la massima cautela, col rispetto
reciproco e in totale accordo dialogante. Potremmo dire, d’intesa (come
è lo statuto dell’IRC e degli IdR…).
Ciò che rimane è che il
crocifisso sia un “simbolo essenzialmente passivo”, poiché non si può
attribuire alla sua presenza un’influenza sugli allievi paragonabile a quella
che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose anche
con riguardo al ruolo che essi danno alla religione, purché ciò non implichi
forme di indottrinamento.
È su questa “passività”
del crocifisso/oggetto, in quanto suppellettile, con cui ragiona la giurisprudenza
che bisognerebbe ragionasse anche il “fedele/credente”, studente, docente o
genitore.
Mi sembra che in una società aperta, multiculturale e
multireligiosa, la “passività del crocifisso” sia una categoria teologica
con cui apprezzare e valutare il dialogo, il confronto, la comprensione vicendevole,
l’arricchimento reciproco e il rispetto delle identità.
Credo che questa forma giurisprudenziale
di intendere il crocifisso/oggetto sia la chiave utile a riaffermare la
necessità di mediare e di dialogare. Tant’è vero che il Crocifisso/persona
è egli stesso “il Mediatore”. Più che irrigidirsi sulle dottrine o sugli oggetti
bisognerà dunque modulare la professione di fede, i valori e le convinzioni
personali sulla “intesa”, ciò che davvero ha operato il Crocifisso/persona
il quale, nella totale passività, ha apportato un cambiamento epocale,
storico, e, direi, dal punto di vista della fede, universale.
E vedere dove alcuni crocifissi/oggetto
sono ormai relegati fa capire quanto il Crocifisso/persona sia attivo
passivamente, sia il presente-assente ovvero l’assente-sempre-presente
quasi come se stesse ancora cercando un “ragionevole accomodamento”. A costo
della vita.
[1] Cfr. Regio decreto 30
aprile 1924, n. 965, art. 118; Regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297, art. 119.
[2] Cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 febbraio
2006, n. 556. Sezioni Unite, Sentenza
14 marzo 2011, n. 5924; In sede penale: Cassazione
penale., Sez. IV, 1° marzo 2000, n. 4273.
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