Tradizione chiara e opportunità ecclesiale. Sul motu proprio Traditionis Custodes
«La facoltà, concessa con indulto della Congregazione per il Culto Divino nel 1984 e confermata da san Giovanni Paolo II nel Motu proprio Ecclesia Dei del 1988, era soprattutto motivata dalla volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre. La richiesta, rivolta ai Vescovi, di accogliere con generosità le “giuste aspirazioni” dei fedeli che domandavano l’uso di quel Messale, aveva dunque una ragione ecclesiale di ricomposizione dell’unità della Chiesa». Francesco
Umberto Rosario Del Giudice
Oggi papa Francesco ha scritto e ha chiarito il perché della possibilità del rito “extraordinario” e perché oggi qualcosa va cambiato. Due lettere, un’intenzione: il motu proprio pubblicato oggi, dal titolo Traditionis Custodes (poi TC) e la lettera di Presentazione.
A molti già era chiaro che le giuste aspirazioni erano mutate in pessime presunzioni, sul rito
e sulla dottrina. Ora, le lettere fanno un po’ di chiarezza.
Ripercorriamole brevemente.
Va ribadito che non è consentito uso parallelo al Messale Romano. L’unico messale è quello
del 1969 e promulgato da papa Paolo VI. L’uso dell’altro messale, quello del 1962 che riprendeva quello di Pio
V per intenderci, era consentito in quanto “espressione straordinaria
della stessa lex orandi” e tutto questo senza misconoscere la Riforma
liturgica del Concilio Vaticano II, anzi, accettandone “chiaramente il
carattere vincolante”. L’unità auspicata dal consenso all’uso
della forma extraordinaria del messale (per i non “addetti ai lavori”, messa
in latino e prete di spalle all’assemblea – per essere rapidi…)[1] è stata
invece quasi abbandonata se non addirittura tradita
in certi casi con la scusa che “il rito e la dottrina ante Concilio fossero
migliori o comunque autentici”. Da ricordare che l’uso del Messale del 1962 era
stato consentito per facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si
sentivano vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e non
ad altri. Una puntualizzazione fondamentale.
Ma
l’unità della Chiesa, come ricorda TC, deve ricondurre, sotto la guida dello Spirito, ad un annuncio
e ad una celebrazione fedele della e nella tradizione: il resto è
presunzione. È evidente, infatti, che papa Francesco riconosce chiaramente la
continuità tra dottrina, spiritualità e celebrazione: la forma del rito
non è indifferente all’annuncio e tantomeno all’identità della Chiesa.
Tutto
ciò considerato, il Papa, onde scongiurare ulteriori equivoci, dichiara che esiste
una sola espressione della lex orandi del Rito Romano (TC art. 1),
e che non è possibile costituire nuovi gruppi (TC art. 3 §6) o nuove
parrocchie (TC art. 3 §2) e che i gruppi esistenti che voglio avvalersi
della forma extraordinaria devono avere tempi e luoghi indicati dal Vescovo per
la celebrazione (TC art. 3 §§2-3). Il Papa stabilisce, inoltre, che i presbiteri
ordinati dopo TC che vogliono usare il messale del 1962 devono chiedere
al Vescovo e attendere il parere della Sede Apostolica (TC art. 4). I presbiteri
che accompagnano i gruppi nella forma extraordinaria devono essere poi animati da “viva
carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale” (TC art. 3 §4).
Concludendo, le decisioni del Papa erano nell’aria o comunque auspicate da più parti. La salvaguardia dell’autocomprensione ecclesiale nella sana tradizione in continuità col Concilio Vaticano II è un bene che non si può barattare: identità e unità ecclesiali non sono distanti o distaccate dal rito. Il rito non è mai indifferente.
Questa
decisione pontificia rende giustizia alla Riforma liturgica e alla tradizione,
che vive di esperienze, di storie, di incarnazione; è una decisione che solleva
gli animi ma al contempo riapre una questione: se il rito non è mai indifferente,
bisogna ricordare che non lo è neanche nella forma, nella qualità e nelle
modalità.
L’unità
ecclesiale deve ripartire da una ars celebrandi del Popolo di Dio,
vera, consapevole e attiva, per un’esperienza della fede non ambigua, ovvero per una
esperienza concreta del Cristo vivo e presente nella sua Chiesa, nei sacramenti
e nella storia dell’umanità. Da qui passano anche le buone spiritualità (in continuità con la tradizione) e la buona dottrina. In altre parole, la ortoprassi (il rito) è la prima porta della ortopatìa (spiritualità) e della ortodossia (dottrina). Prima ma non ultima; eppure sempre prima. Semplicemente, fonte e culmine. Più chiaro di così?!...
[1] Sia
consentita la semplificazione utile forse a chi non è coinvolto nelle vicende
ecclesiali in riferimento alla forma extra ordinaria.
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