Il concorso del paradosso e i numeri precari tra trasparenza e avanzamento professionale

 


Il concorso ordinario per gli IdR ha amplificato il paradosso tutto italo-ecclesiale tra riconoscimento culturale del patrimonio cattolico e diritto al lavoro, esasperando gli animi e rendendoli più precari. Ma precari e non fruibili sono i numeri relativi ai dati: quanti insegnanti precari? Quanti da quanti anni?... e con quante ore?
La questione sullo sfondo, su cui concentrarsi ora, è relativa al “diritto al lavoro” che si incontra e si scontra con quella al “diritto al lavoro stabile”: ma riflessioni sul diritto dei lavoratori vanno comparate coi dati reali, che però sembrano poco reali…
D’accordo, è giusto ricordare che «dicette Munzignore: “Cucchié, va’ chiano, ca vaco ‘e pressa!”», ma è anche l’ora di fare qualcosa… Altrimenti ci rimettono tutti: cultura civile, qualità dell’IRC, generazioni di studenti e, nella fattispecie, insegnanti professionisti.
 

 

Umberto R. Del Giudice

 

Ho atteso molto prima di pubblicare questo post per vari motivi, alcuni dei quali legati alla perplessità della situazione non chiara in parte con riferimento ai princîpi concorsuali ma soprattutto in riferimento ai dati mai davvero resi pubblici. E questo credo sia il vero problema: mancano numeri attendibili con cui analizzare e riflettere sulla relazione tra diritto al lavoro non precario e (vera) cooperazione tra Stato e Chiesa. Anche se su quest’ultimo punto la tendenza a conservare una nicchia di autoritarismo e controllo sia sui lavoratori che sulle attività didattiche (oltre che sui contenuti) sembra evidente ed è uno dei fattori più critici di tutta la storia degli ultimi trent’anni.

Sul prossimo bando di concorso ordinario per gli insegnanti di religione, infatti, oltre alle perplessità giuridiche e costituzionali, a lasciare con poche parole è la quasi totale mancanza di dati chiari e precisi.

Insomma, per chiarire la posizione dei precari non bastano numeri precari.

I dati non sono secondari rispetto alla possibilità del concorso ordinario pur nella necessità di tutelare le “anzianità”. La difesa di princîpi generici e generali rischia di buttare ancor più confusione su di una disciplina “d’Intesa” aumentanto il suo non apprezzamento rispetto al patrimonio storico e culturale italiano ed europeo; e mi spiego riflettendo su tre aspetti: il concorso “prossimo”, le relative aspettative e critiche in riferimento al “diritto al lavoro”, la impossibilità di capire come stanno davvero le cose… Questo ultimo aspetto non mi sembra secondario.

Dichiaro subito che va difeso il diritto al lavoro dei “vecchi” precari (livello di principio di diritto), ma al tempo stesso bisogna davvero chiarirsi le idee sui dati per capire quante persone e quali persone corrano davvero il rischio di rimanere fuori (livello di dati reali e funzionali) e perché.

 

Il contesto immediato: l’Intesa “è da fare”

La firma dell’Intesa tra MIUR e CEI dello scorso 14 dicembre ha sollevato non poche preoccupazioni e ha riacceso il dibattito addirittura sullo statuto giuridico degli Insegnanti di Religione cattolica in Italia (IdR) con rimandi anche a questioni epistemologiche rispetto allo stesso Insegnamento di Religione Cattolica in Italia (IRC).

In prima battuta la notizia della firma dell’Intesa ha suscitato alcuni entusiasmi ma anche molte perplessità poiché, dopo le Note pubblicate sia dal Ministero dell’Istruzione (MI) che dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il testo è risultato reperibile solo da pochi giorni. L’Intesa è stata finalmente pubblicata (allegati inclusi) sul sito CEI nella sezione dell’Ufficio per l’IRC (sulla sezione del sito del MI a tutt’oggi nessuna traccia oltre la Nota con le relative foto che riprendono la Ministra Azzolina col suo staff e il Card. Bassetti e relativo staff, pronti alla “firma a distanza”…).

Questa ultima Intesa è il (dovuto) prologo giuridico per la legittima pubblicazione della procedura concorsuale per gli IdR che dovranno ricoprire i posti vacanti e disponibili nel prossimo triennio (AA.SS. 2021-2024).

Il testo non concede una lettura soddisfacente per chiarire alcune questioni che pure sono state sollevate in questi anni da sindacati del settore ed esperti in materia cosicché si traduce in una buona e in una cattiva, che, ahimè, aumenta i dubbi più che dissiparli.

Qui basti ricordare che al punto 5 del testo dell’Intesa si dichiara che

«il 50 per cento dei posti messi a bando nella singola Regione, ai sensi dell’articolo l-bis, comma 2, del decreto-legge n. 126 del 2019, è riservato al personale docente di religione cattolica, in possesso del riconoscimento di idoneità rilasciato dall’Ordinario diocesano[i], che abbia svolto almeno tre annualità di servizio, anche non consecutive, nelle scuole del sistema nazionale di istruzione».

Il testo non concede ulteriori risposte: che il 50% dei posti del concorso (che nel totale andrebbero a coprire il 70% dei posti totali per l’IRC) sia riservato a coloro che oltre i titoli hanno tre anni di “anzianità”, non chiarisce a chi sarebbe aperto l’altro 50%. È molto probabile che si tratti di altri titolati senza alcuna anzianità. La domanda, dunque, è: quanti precari con più di tre anni lavorano nelle Diocesi e con quante ore? E quante sarebbero le cattedre disponibili?...

È possibile che il testo finale della procedura concorsuale riservi una parte del rimanente 50% ai “più anziani”? Francamente sembra improbabile anche se sarebbe auspicata una soluzione in tal senso. E per questo bisogna aspettare il testo del bando.

Tuttavia, rimane la questione di fondo: quanti precari con più di tre anni? A quanti bisognerebbe assicurare la continuità di “diritto al lavoro”? quanti posti disponibili? Perché i “precari anziani” sembrano in alcuni casi “moltiplicati”?

 

La buona notizia

La buona notizia è che dovrebbe[ii] essere imminente la pubblicazione del Bando di concorso con il quale molti (non tutti) gli IdR attualmente precari (ovvero con “contratto a tempo determinato”) potranno accedere al “ruolo”, ovvero insegnare come lavoratori a “contratto a tempo indeterminato”. È inutile ribadire che un tale contratto agevolerebbe la vita di molti: stabilità economica, accesso a credito a lungo termine, finanziamenti, mutui… Per i giovani IdR (e meno giovani ma non troppo giovani) questo sarebbe un sogno che si realizza… Una prospettiva di non poco conto nell’ambito di una società (italiana) che, pur ricorrendo sempre meno al “posto fisso” e richiedendo competenze professionali ad ampio spettro capaci di una certa “mobilità e flessibilità”, non offre sicuramente alcun altro lavoro ai teologi e ai laureati in scienze delle religioni. Dato da non trascurare visto che in altri paesi europei le stesse competenze sono riconosciute anche nell’ambito della pastorale e della catechesi parrocchiale con una rimunerazione giusta a carico dello Stato e con un sistema simile (anche se non proprio in continuità) con quello che in Italia è conosciuto come 8x1000.

Come tenterò di illustrare, spesso, con lo spacchettamento delle cattedre, si è tentato di remunerare con l’IRC coloro che risultano attivi nelle parrocchie: fatto che genera confusione sia per la reale comprensione ecclesiale e ministeriale del servizio parrocchiale sia per il mancato riconoscimento delle competenze, tanto culturali quanto professionali; e tutto questo anche a scapito di una non perfetta complementarietà tra catechesi e IRC, sempre più confuse e, talvolta, inefficaci.

Il concorso, dunque, appare come buona ma anche come cattiva notizia; ma appare anche come l’opportunità di ridefinire competenze e piani senza procrastinare ambiguità ecclesiali e difese culturali.

 

La notizia (molto) cattiva

Sembra che la notizia dell’Intesa sia anche molto cattiva, o almeno lo sarà per alcuni (che, nella logica ecclesiale, si dovrebbe tradurre “per tutti”).

Un concorso “ordinario” (perché di questo si tratta) finirebbe col lasciare alcuni attuali e anziani precari nella stessa riprovevole ed incostituzionale situazione di lavoratori col contratto a tempo determinato, e questo con forte disinteresse dei diritti acquisiti sul campo quanto delle competenze professionali che, se non considerate, rischiano di vanificare o addirittura del tutto annullare valutazioni individuali capaci di costituire un vero sistema meritocratico. In altre parole, come è stato detto da più parti, l’impegno e le competenze pedagogiche e didattiche acquisite negli ultimi 10, 15, 20… anni sarebbero completamente misconosciute favorendo, al contrario, l’inserimento di giovani IdR in un “ruolo” che non avrebbero “meritato”.

Dalla notizia buona o cattiva ecco però che sorge una “lotta dei poveri/lavoratori precari”: perché se è vero che non si possono condannare alla precarietà/licenziamento molti IdR che da anni sono precari, è vero anche che non si può infliggere ad altri la medesima incostituzionale, non dignitosa e non professionale “condanna di precarietà”.

Quale sono state le scelte passate che hanno prodotto l’attuale situazione di stallo e di “guerra tra professionisti cattolici”?... Basterebbe un altro concorso ordinario tra tre anni per risolvere la faccenda?

Ma facciamo alcuni piccoli passi.

 

Le critiche al concorso ordinario

Già da tempo, sindacati ed esperti avevano riferito circa alcune criticità del concorso ordinario fino ad arrivare a palesare i propri dubbi alla Commissione per l’Istruzione sintetizzando i punti critici di un possibile “concorso ordinario” (così il prof. Sergio Ventura e il prof. Nicola Incampo). Ecco in sintesi le questioni sollevate dagli esperti in riferimento ai concreti rischi del Bando di concorso ordinario:

1.      esito con licenziamenti o forzose diminuzioni di orario;

2.      non riconoscere che l’idoneità all’Insegnamento della Religione Cattolica corrisponda giuridicamente all’abilitazione conferita dallo Stato per gli altri insegnanti;

3.      il concorso, inoltre, non selezionerebbe i “migliori” IdR [espressione molto limitata, nda], violando in tal senso le linee guida per i concorsi pubblici in relazione al merito (MPA, Direttiva n.3 del 24/4/18), forse prospettandosi un ulteriore aspetto di incostituzionalità (ex art. 97 Cost.);

4.      il concorso ordinario produrrebbe, infine, discriminazioni.

Tutti questi punti sono ripresi in un esaustivo articolo già pubblicato sulla rivista de “Il Regno” col titolo di “Insegnanti di religione: quale concorso?” e datato 24 febbraio 2020.

In sintesi (come appare dalla soluzione auspicata da molti sindacati e che trova formale istanza in una petizione online): «NO al concorso ordinario per i precari oltre i 36 mesi di servizio. Sì a un concorso riservato, per titoli e servizio».

Va dunque difeso il diritto al lavoro dei “precari più anziani”: ma bisogna pure riproporre riflessioni nette sulle questioni sollevate.

 

Le critiche all’appoggio della CEI al concorso ordinario

Sono molto rilevanti e giuste le critiche mosse non solo alla forma ordinaria del concorso ma anche circa l’appoggio che la Presidenza della CEI ha dato a tale assetto.

Andrea Grillo, nel suo intervento dal titolo “Senza rispetto” per gli insegnanti di religione: ma il Ministro Azzolina con quale vescovo ha parlato?, spiega: «Come cittadini italiani, e in qualità di docenti rimasti per 16 anni privi della possibilità di entrare in ruolo con regolare concorso, essi [gli IdR] ora scoprono che il concorso che sta per essere bandito non tiene in nessun conto la anzianità di servizio, che per i più esperti arriva fino a quasi 20 anni, e che pertanto, ai fini del bando, saranno equiparati coloro che insegnano da 3 anni e 1 giorno e coloro che insegnano da circa 20 anni». A questo bisogna ahimè aggiungere che, tenendo conto del possibile altro 50% dei posti disponibili, un anziano precario, in linea di principio, potrebbe essere sostituito da un titolato senza esperienza. Ma bisogna aspettare il bando…

Il giorno dopo sempre Andrea Grillo annota ulteriormente che «se il lavoro di formazione culturale del docente IdR fosse ritenuto davvero rilevante, non si accetterebbe la sua irrilevanza per il Concorso. Si preferisce forse un catechista obbediente ad un professore formato, critico e stabile? Proprio concedendo tanto spago alla posizione ministeriale, la visione dei responsabili CEI sembra poco abituata a pensare laicamente» (Modello trentino e modello tridentino: dimmi che concorso vuoi e ti dirò chi sei).

Il 22 dicembre appare un altro chiarimento dei “no” al concorso ordinario con un articolo a firma di Sergio Ventura dal titolo La chiesa italiana sulla via di Francesco? che ribadisce, incalzando, le motivazioni apparse nell’articolo citato de Il Regno cofirmato con Massimo Pieggi e che conducono ad un’unica soluzione: no al concorso ordinario.

Quello che va assolutamente condiviso con Andrea Grillo, Sergio Ventura e con Massimo Pieggi è che, stando così le cose, a) il concorso ordinario previsto davvero non tiene conto dell’anzianità di servizio. E sempre con loro b) va appoggiata e sollecitata qualsiasi collaborazione e cooperazione seria tra i due poteri (civile ed ecclesiastici) senza che a rimetterci siano i lavoratoti professionisti. Insieme a loro, questi due punti devono essere tenuti per imprescindibili.

Tuttavia, alle loro denunce aggiungo personali chiarimenti che spero anche loro possano condividere e che mirano da una parte a evidenziare che una certa collaborazione piena Chiesa-Stato già ci sarebbe ma anche che i numeri reali delle Diocesi non accessibili forse potrebbero diminuire le preoccupazioni pur nella necessaria difesa del “diritto al lavoro” e del “riconoscimento dell’anzianità”.

 

Cosa davvero non va (a mio parere) nel concorso ordinario

Personalmente credo che il concorso nella forma “ordinaria” sia un problema anche se non per tutti i motivi esposti dai relatori alla Commissione parlamentare già nel febbraio 2020. Credo che il vero scandalo non sia tanto la forma ma la lentezza (e non trasparenza) che ha portato allo status quo. E forse le colpe di questa lentezza vanno rilevate negli atteggiamenti un po’ di tutti, autorità politiche ed ecclesiali come anche di alcuni sindacati (forti).

Spiego le mie perplessità.

 

Il concorso discriminante, illegittimo e incostituzionale?

È chiaro che cercare il “concorso perfetto” per assumere “docenti perfetti” o rimandare tutto sine die al fine di stare “tutti un po’ benino” non sembra davvero una soluzione “solidale” e “eticamente ancora sopportabile”, anche se da più parti invocata. Davvero non comprendo come rimandare il concorso ad ogni costo sia una soluzione.

È certo però che la soluzione sarebbe quella di emanare il concorso con un congruo numero di posti riservati. Ma in che modo e perché?

Tento di rispondere ad alcune obiezioni che sono state usate come motivazioni fondanti l’avversione al concorso ordinario delle quali però, a me pare, solo una è davvero meritevole di attenzione pur nel dubbio dei dati (che sono il vero punctum dolens).

 

A proposito della idoneità e della abilitazione

Sarebbe incostituzionale non riconoscere che l’idoneità all’IRC corrisponde giuridicamente all’abilitazione conferita dallo Stato per gli altri insegnanti? Assolutamente no!

È vero (e lo dico spesso anche io per semplificare) che il decreto dell’Ordinario del luogo (in quanto atto amministrativo singolare) avrebbe valore abilitante in sé, ma va tuttavia chiarito che il valore non è univocamente potestativo poiché è finalizzato ad un contesto non canonico (e rientra nelle cosiddette res mixtæ perché di comune interesse). In altre parole, se è vero che l’idoneità, quale atto amministrativo del Vescovo non può essere impugnata da nessuna autorità italiana è vero anche che non è l’unico atto potestativo che riguardi l’abilitazione; in altre parole, se è vero che

«l’avere le norme concordatarie affidato in via esclusiva al giudizio dei competenti organi ecclesiastici la dichiarazione di idoneità all’insegnamento della religione comporta bensì l’impossibilità, per il giudice italiano, di censurare ex se l’atto dichiarativo in parola» è altrettanto vero, e questo deve essere chiarito, che «ciò non significa che esso non possa qualificarsi come atto endoprocedimentale finalizzato all’emissione dell’atto di nomina che resta di competenza dell’Autorità scolastica italiana» (Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza n. 6133 del 24 marzo 2000)

In altre parole, se l’idoneità è un decreto amministrativo singolare (ex cann. 35 e 47) per l’IRC (ex can. 804 §2 CIC) su cui nessuno autorità italiana può intervenire, è pur vero che esso, nella fattispecie e per forma di accordo bilaterale, è finalizzato per sua natura all’IRC nelle scuole italiane e, in riferimento al fine, è relativo ad un atto complessivo endoprocedimentale su cui la Repubblica ha il suo dire in relazione ai criteri di “ragionevolezza e di non arbitrarietà”; per cui il decreto di idoneità del Vescovo non è sindacabile in quanto valido in sé ma in riferimento al suo fine (l’IRC nella scuola italiana) resta «soggetto, perché possa costituire valido presupposto per la legittimità dell’atto di nomina e della sua revoca, ad un riscontro del suo corretto esercizio secondo criteri di ragionevolezza e di non arbitrarietà» come ha poi ribadito la Corte costituzionale (Corte costituzionale, Sezioni Unite, Sentenza n. 574, del 14 novembre 2002).

In altre parole, sarebbe impensabile sostenere (come fa qualcuno) che il solo decreto di idoneità sarebbe valido per l’immissione in ruolo senza alcun controllo da parte della autorità civile, controllo che invece avviene proprio col concorso. Giustamente, dunque, è stato rilevato che vi è una netta differenziazione tra “abilitazione” (materia mixta) e “idoneità” (riservata all’autorità ecclesiastica), che è espressione del “principio della distinzione delle competenze ‘proprie’, riconducibili a due distinte non sovrapponibili sovranità”, ma al tempo stesso rende manifesto “il senso della cooperazione tra due ordini differenti”. In questa prospettiva, dunque, il solo decreto di idoneità non basterebbe: nella realtà le due differenti autorità, ecclesiastica e civile, concorrono alla abilitazione[iii].

Ed è su questa collaborazione che si gioca molto dal punto di vista giuridico (sia canonico che civile) come senso solidale di giustizia oltre che dal punto di vista della cooperazione scientifica e dottrinale, come giustamente ha ricordato Andrea Grillo richiamando il “modello trentino” nel succitato intervento.

Sostenere, come fa qualcuno, che l’idoneità sarebbe da sola abilitante (e quindi il concorso sarebbe solo una forma di riconoscimento civile) è davvero giuridicamente non fondato ma anche, a mio parere, pericoloso: sull’abilitazione si gioca la vera cooperazione tra Stato e Chiesa in relazione al riconoscimento della valenza culturale e patrimoniale del sapere teologico per il sapere civile.

Lo prova, inoltre, il fatto che il concorso stesso riguarderebbe non i contenuti dei princîpi del cattolicesimo che “fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (si veda il cosiddetto “Accordo di Villa Madama” del 1984) ma quelli relativi alla legislazione scolastica e alle scienze dell'educazione. Come dire: lo Stato non sindacalizza l’idoneità in sé ma verifica quella, tenendo conto di criteri di ragionevolezza e trasparenza, per l’abilitazione. Le prove concorsuali, infatti, verteranno, secondo quanto previsto, su “accertamento della preparazione culturale generale e didattica come quadro di riferimento complessivo, e con esclusione dei contenuti specifici dell’insegnamento della religione cattolica” (art. 3 comma 5 legge 186/2003); inoltre, “nel rispetto di quanto previsto […] la preparazione dei candidati è valutata con riferimento ad un programma d’esame comprendente, oltre a quanto previsto nel citato comma 5, anche la conoscenza delle Indicazioni didattiche per l’insegnamento della religione cattolica” (Intesa 14 dicembre 2020).

Certo che una commissione mista sarebbe auspicabile… ma questa è un’altra questione…

 

Il concorso è “discriminante”?

Il Concorso ordinario sarebbe davvero “discriminante”? Aggiungerei, “per chi?”. Sarebbe discriminante per tutti quelli che hanno anni di esperienza e di precariato: e questo è un dato certo. Ma il precludere le porte ai giovani professionisti che hanno pochi anni di insegnamento e un profilo curriculare professionalizzante adeguato sarebbe, a mio avviso, altrettanto discriminante.

Se è giusto difendere i diritti dei lavoratori che da anni e da decenni sonno precari, è anche giusto e lecito difendere i diritti e le attese di chi, sebbene con soli tre anni e un giorno di insegnamento, si è preparato anche con “nuovi” corsi ed esami, formandosi all’insegnamento col “primo” tirocinio formativo della storia delle Intese tra MIUR e CEI per gli IdR. Non è un caso che dopo l’Intesa del 28 giungo 2012 sia vincolante, oltre ai titoli, un curriculum che attesti il conseguimento di crediti formativi per corsi quali Didattica generale, Metodologia e Didattica dell’IRC, Teoria della Scuola, Legislazione scolastica oltre alla formazione col Tirocinio formativo di non meno di 100 ore… (per almeno altri 12 ETCS). Sebbene sia vero che chi ha insegnato prima del mese di settembre 2017 non ha avuto la necessità giuridica e curriculare di conseguire quegli ECTS, è pur vero che le Facoltà teologiche e gli ISSR avevano già dal 2013 attivato i rispettivi corsi e tirocini (qualcuno già da prima). Quella Intesa, tra l’altro, mirava proprio alla professionalizzazione degli IdR in riferimento alle competenze pedagogiche, didattiche e alla consapevolezza delle finalità della scuola nonché del suo complesso quadro normativo. E non bisogna dimenticare che alcuni “insegnanti professionisti precari anziani” sono stati cooptati all’insegnamento senza neanche un diploma diocesano di teologia e senza, ovviamente, alcun studio dell’area giuridico-didattica per la scuola italiana: e questo non per colpa loro. È anche evidente che molti professionisti precari anziani hanno saputo (a loro spese e con grande fatica) colmare la lacuna; anche perché molti corsi o eventi di aggiornamento hanno tenuto conto più di tematiche teologiche e spirituali (come in occasione dell’anno della Misericordia) che di temi relativi alla didattica, alle metodologie e alla legislazione scolastica[iv]. Inoltre, è chiaro che le abilità acquisite sul campo nel corso di decenni di insegnamento sono molteplici e non possono essere confrontate in modo semplicistico con competenze conseguite coi nuovi corsi curriculari e col Tirocinio formativo. Si opporrebbero così precari professionisti con giovani professionisti.

Ma basterebbe davvero solo questo per dire che i “primi” sono “migliori” dei “secondi”? Sostengo la necessità e l’onestà di non fare nessun confronto se si vuole parlare di meritocrazia. Credo che sia più giusto e corretto parlare solo in riferimento al “riconoscimento del tempo di lavoro (precario) già svolto”.

E quindi bisogna stare attenti a tutte le discriminazioni.

 

Sui “tre anni”

Va anche chiarito che in relazione ai “tre anni” valutabili essi possono non essere consecutivi e che per “anno valutabile” s’intende quello con almeno 180 giorni consecutivi in un solo anno scolastico o di servizio ininterrotto dal primo febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio finale (cfr. art. 11, n. 14 Lg 124/1999).

In questo senso, e considerando quanto sopra si è detto, una quota di posti riservati per chi ha ben più di soli tre anni è d’obbligo pur senza sostenere la promulgazione né di un concorso-farsa né di un concorso-sanatoria.

Ma qui nascono altre domande tra cui quella fondamentale: quali sono le quote?...

Ecco la vera questione: ci sarebbero davvero licenziamenti o forzose diminuzioni di orario?

Per rispondere a questa domanda si dovrebbero avere dati affidabili.

Ed è questa la notizia: dati affidabili non sembrano esserci.

 

Dati affidabili?

Il concorso dovrà tener conto dei numeri disponibili ma ad una ricerca incrociata non si è capace di trovare informazioni in merito.

Il vero problema credo risieda qui: non ci sono dati affidabili su cui ragionare e quelli che ci sono aprono a considerazioni che ribadiscono la necessità di evitare autonomie ecclesiastiche troppo autogarantiste.

Questo significa che i numeri reali dei precari e dei posti disponibili (che devono essere conteggiati secondo i posti che «si prevede siano vacanti e disponibili negli anni scolastici dal 2020/2021 al 2022/2023»[v]) non sono al momento rintracciabili e consultabili.

La gestione degli Uffici di Pastorale scolastica, com’è noto, non è cosa semplice. I Direttori, insieme con gli Ordinari del luogo, agiscono spesso con grande attenzione ai casi singoli.

Questa “prudenza cristiana” però ha un doppio prezzo da pagare: non tutte le Diocesi compilano o pubblicano le graduatorie interne relative al 30% e, di questa quota, molte Diocesi hanno nel tempo “spezzettato” le cattedre con l’effetto non secondario di moltiplicare i precari. In altre parole, ci sarebbero persone che hanno molti anni di precariato ma, forse, non superano né le 12 ore all’anno né le supplenze quasi occasionali.

Spezzettare le cattedre è stata una delle consuetudini più deleterie per gli IdR. La mentalità autogarantista, per assicurare un po’ di entrate a tutti quei “volontari della parrocchia” che nel tempo hanno conseguito diplomi diocesani, titoli accademici o laurea in scienze religiose, e per distribuire un po’ di lavoro a tutti, ha favorito in molti casi spacchettamento di cattedre col duplice effetto di moltiplicare i precari e di meglio controllare l’insegnamento (controllo direttivo o preventivo). Questi precari però rientrerebbero in quale conteggio se si aprisse una “riserva” nel concorso ordinario, in quale numero? Ecco perché i dati sarebbero davvero interessanti se fruibili ed ecco perché si parla di forzose diminuzioni di orario: per dare 18 ore ai nuovi IdR di ruolo diminuirebbe lo spazio per le cattedre spezzettate (è matematica!)…

Ma il problema l’ha creato lo spezzettamento delle cattedre non le cattedre in sé. Dividere 24/18 ore per due o tre o addirittura quattro docenti ha moltiplicato in molti casi il numero dei precari con anni di anzianità.

E chi si troverà più in crisi saranno gli insegnanti di quelle Diocesi che hanno continuato la consuetudine dello spezzettamento… Ma i dati per ciascuna Diocesi non sono fruibili e consultabili.

Dubito fortemente che i sindacati vogliano difendere la consuetudine dello spacchettamento.

A tutto questo va aggiunto anche che non ci sono dati attualmente affidabili su quanti posti disponibili per la rimanente quota del 70% ci siano per ogni Diocesi. Negli ultimi anni molti IdR hanno cessato la professione (pensionamento, quota cento, decesso, altra attività, altro ruolo scolastico…). Non ultima la notizia che tra alcune Diocesi e i relativi Uffici scolastici regionali non ci sarebbero graduatorie e nominativi aggiornati: il docente che per la Curia è andato in pensione almeno due anni fa, per l’Ufficio scolastico è ancora in attività; l’altro docente che per la Curia è passato ad altro incarico scolastico, per l’Ufficio è sempre IdR…

Insomma, i numeri reperibili fanno riferimento a un dato davvero non attendibile: basti pensare che gli stessi Massimo Pieggi – Sergio Ventura nel loro intervento del primo luglio 2020 citano 13.000 IdR precari; lo stesso numero già citato in un articolo della rivista IRINEWS del 1 aprile 2013 (Gli insegnanti di religione chiedono un concorso e una graduatoria ad esaurimento, pag. 4): sette anni di distanza e nessun differenza? Si stenta a crederlo…

Una ricerca sul più popolare database di dati riporta la seguente notizia:

«Nell’anno scolastico 2009/10 in Italia vi erano 26.326 insegnanti di religione, con un aumento del 4% rispetto a quelli dell’anno scolastico 2008/2009. Gli insegnanti di ruolo erano 12.446 e i precari 13.880». Se quest’ultimo numero è vero nel 2009 come possono i precari essere 13.000 nel 2013 e, ancor più, nel 2020 visto l’incremento (questo sì documentabile) degli avvalentesi? E soprattutto, se questi dati sono rimasti almeno stabili, è evidente che è saltato da molto tempo il rapporto 70% - 30% tra IdR di ruolo e precari protraendo un evidente situazione giuridicamente illegittima e ecclesialmente insostenibile.

Ad una breve analisi poi degli avvalentesi è chiaro che c’è una netta distinzione tra nord, centro e sud Italia (rispettivamente 81,77%, 84,71%, 97,16%). Ma è da considerare poi che molte diocesi del nord accolgono volentieri giovani professionisti del sud per mancanza di IdR e alcune diocesi del sud, poi, stanno nominando supplenti anche giovani studenti che conseguiranno il titolo a giugno…

Insomma, quali sono i dati? Quali sono i numeri? Se è vero che il concorso ordinario non sia poi rispettoso del lavoro svolto e della condizione di precariato contrattuale di molti professionisti, quanto è vero che questi possano essere scavalcati dai “giovani professionisti”?

I Vescovi o l’Ufficio competente della CEI hanno numeri realistici e rassicuranti a riguardo?

Domande non secondarie rispetto al concorso.

Per chi non riesce ad arrivare alla fonte dei dati e se non ci sono i numeri ufficiali sarà difficile fare ulteriori considerazioni pur ribadendo fermamente un punto chiaro: gli anni di attività devono trovare riconoscimento.

Ma allo stato attuale e da una breve riflessione, le Diocesi interessate sembrano essere quelle che hanno spezzettato le cattedre e se non è così, non è dato di saperlo…

Tutto questo racconta una certa confusione generalizzata circa un insegnamento d’Intesa come quello dell’IRC che attende professionalizzazione, certezze, trasparenze, e, davvero, non discriminazioni o ghettizzazioni tantomeno strumentalizzazioni. La vera “funzionalità” dell’IRC in termini di servizio ecclesiale e sociale risiede negli IdR e nella loro capacità umana e culturale di sintesi tra dimensione religiosa e dimensione intellettuale: e questo è proprio degli IdR in quanto professionisti della mediazione culturale e che, per questo, devono conservare una propria equidistante dignità, sociale ed ecclesiale. È evidente che un contratto a tempo indeterminato sia utile perché un tale riconoscimento avvenga in entrambe le sfere senza confondere i piani e le competenze.

 

Sì al concorso (anche ordinario) con dati reali e trasparenti

Il concorso ordinario per gli IdR ha amplificato il paradosso tutto italo-ecclesiale esasperando ancora gli animi e rendendoli più precari… Davvero non si comprende su quali dati sia fondata la necessità di dare via libera ad un concorso ordinario senza ulteriori garanzie per gli IdR con anzianità pregresse. Non si comprende però neanche in quale altro modo e senza ulteriori rimandi si possa davvero passare da una situazione illegittima per tutti ad una fase di “ordinarietà” nello statuto giuridico dell’IdR e soprattutto ad una collaborazione effettiva e fattiva tra Stato e CEI.

Il concorso va fatto senza lasciare nessuno meritevole a casa: ma questo solo i dati reali ce lo possono dire. Allora quali sono i dati su cui ragionare? E perché si è lasciato per lungo tempo moltiplicare i precari?...

È chiaro che i vescovi hanno il dovere, etico e civile, di difendere il diritto al lavoro. Ma è chiaro anche che il concorso non può essere una semplice sanatoria senza considerare le professionalizzazioni né può creare una guerra di professionisti.

Ma esiste davvero il pericolo che qualcuno che finora ha insegnato con cattedra piena e ha ricostruzione di carriera rimanga a casa?

Per fare queste valutazioni c’è bisogno di dati certi per il presente e, in futuro, di una gestione più trasparente da parte di tutti gli Uffici di pastorale scolastica.

Le informazioni che giungono da più parti sembrano rassicurare sui posti disponibili pur nella differenziazione tra nord, centro e sud Italia.

In alcune Diocesi (compresa quella del Vicariato di Roma), non solo alcune ore per l’IRC sono affidate a religiosi e religiose che dopo qualche anno lasciano la città per motivi interni agli Istituti di vita consacrata, ma sono anche spesso in cerca di personale supplente… La Diocesi di Arezzo, onde evitare spiacevoli inconvenienti, ha stabilito che per insegnare è richiesta la residenza in loco: e non è l’unica diocesi a farlo. Se molti insegnanti si recano in altre diocesi a lavorare è perché in quelle diocesi non ci sono IdR…

Ma sono solo congetture (sebbene riferite a notizie personalmente appurate) perché mancano i dati ufficiali Diocesi per Diocesi…

Forse sarebbe anche un bel gesto se presbiteri e religiosi non si presentassero al concorso ordinario: ma questa è una valutazione che ciascuna persona dovrebbe fare in relazioni a dati della propria Curia…

In ultima analisi, mi auguro (anche come precario anziano) che l’anzianità venga riconosciuta ma anche che la gestione complessiva delle cattedre per l’IRC diventi sempre più trasparente, sempre più avulsa da qualsiasi controllo apologetico e da qualsiasi clientelismo, e tutto a favore del sapere teologico offerto quale patrimonio storico della cultura italiana ed europea e che sia messo un punto alla distanza che c’è tra una gestione ecclesiale (non ecclesiastica) e una civile (non solo ministeriale) i cui effetti negativi ricadono sui lavoratori e sugli studenti.

L’unica distanza tra CEI e MIUR che concediamo, la sola sopportabile, è quella fisica per la firma dell’Intesa: ma la vera considerazione dell’IRC passa anche attraverso il riconoscimento civile e la stabilizzazione del lavoro di tutti gli IdR. Creare spazi di trasparenza e di progressione professionale seria. Questa sarebbe davvero una buona notizia.

 


 In sintesi, sostengo che:

1.      la lentezza storica, politica ed ecclesiastica, ha determinato notevole confusione;

2.      non si può temporeggiare oltre rispetto ad un concorso già atteso da anni;

3.      i sindacati non devono fare ostruzionismo;

4.      le Curie devono elaborare dati nella massima parte trasparenti;

5.      la CEI deve essere (più) sicura dei dati;

6.      ci sono delle imprecisioni nella ricostruzione e nelle richieste rispetto al concetto di “idoneità-abilitazione”;

7.      lo spezzettamento delle cattedre ha creato ulteriori precari;

8.      lo spezzettamento delle cattedre tende a favorire il controllo delle Curie sugli insegnanti

9.      posti ce ne dovrebbero essere;

10.  il ruolo aiuterebbe a garantire maggiore giustizia e imparzialità.

 

 



[i] Potrebbe indurre a confusione il testo del precedente punto 4 che recita: «tra i requisiti di partecipazione alla procedura concorsuale è prevista la certificazione dell’idoneità diocesana di cui all'articolo 3, co=a 4, della legge 18 luglio 2003, n. 186, rilasciata dal Responsabile dell'Ufficio diocesano competente nei novanta giorni antecedenti alla data di presentazione della domanda di partecipazione». È evidente che il Responsabile rilascia una certificazione del decreto di idoneità e non è, né può essere, l’autore del decreto.

[ii] Il condizionale è d’obbligo in questi casi. La legge vuole che il bando sia pubblicato entro il 31/12/2020, ma… [aggiornamento: il decreto milleproroghe ha rimandato la pubblicazione del concorso ]

[iii] G. Dammacco, Stato giuridico dell’insegnante di religione e ordinamento italianoin L’insegnamento della religione cattolica in una società pluralista, a cura di G. Dammacco, Bari 1995, p. 37, secondo il quale l’idoneità è “inequivocabilmente” un atto “interno dell’ordinamento canonico” che contribuisce “insieme con l’abilitazione (…), atto equivalente distinto e interno all’ordinamento statale”, a delineare lo status giuridico del docente.

[iv] Purtroppo, bisogna segnalare che alcuni IdR non sono mai stati iniziati né alla didattica per competenze né alle nuove Indicazioni nazionali per l’IRC (per primo ciclo – 2010 – e per secondo ciclo – 2012).

[v] Cfr. Dlg, n. 126 del 2019, art. 1-bis.



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