La comunità tra parrocchia/istituto e istituzione/parroco – II parte
I binomi rigidi eucaristia/potestà e parrocchia/parroco ritenuti reciprocamente “immediati” fomentano la paura di delegare la potestà di governo. Tale "impedimento" rischia (ex divina institutione) di creare più problemi di quanto ne vorrebbe risolvere. Nè sarà sufficiente mettere insieme i "tria munera" con i "cinque ambiti pastorali" per offrire soluzioni fruttuose. Bisogna intervenire giuridicamente: un mancato intervento forse per paura o per momentanea poca chiarezza.
Le miopie iniziano a farsi vedere.
La comunità tra parrocchia/istituto e istituzione/parroco – II parte
Umberto R. Del Giudice
Rimandando a quanto
detto nella prima parte di questo lungo post, l’istituto/Parrocchia è stato di fatto come
“bloccato” nei confini (e nei limiti) dell’impianto giuridico relativo agli
obblighi/doveri (e alla potestà) del chierico “parroco”. Questo nonostante la Parrocchia sia
stata, quale realtà viva della Chiesa, oggetto di riflessioni accorate
sia dal punto di vista pastorale che teologico.
Due spinte, quella pastorale
da una parte e quella giuridica dall’altra, che si sono contrapposte fino
ad annullarsi nella funzione/autorità (giuridica e dottrinale ma anche
socio-fenomenologica) della figura e del ruolo del “Parroco”.
È indubbio che le
“buone intenzioni” della recente Istruzione della Congregazione del
Clero vorrebbero rilanciare le potenzialità e l’identità della Parrocchia ma è
altrettanto evidente che quelle buone intenzioni si incagliano tra gli scogli
della canonistica-non-flessibile-di-Curia acuendo la difficile relazione
tra “proposizioni teologiche” e “disposizioni normative” più volte emersa e che
produce “Una teologia senza gambe e un diritto senza testa” (così Andrea Grillo in un recente post).
In questo contesto,
riprendendo e proseguendo quanto scritto nella prima parte, provo ora a riflettere
sull’impianto giuridico attuale per evidenziarne i confini dettati da una
cerca dottrina (teologica non solo canonistica) che si svelano come “blocco
normativo/dottrinale” (ed epistemologico) rispetto alle pur eccellenti
premesse teologico-pastorali sulla Parrocchia.
Cosa si dice e si diceva della
Parrocchia: settant’anni di ottime parole
L’attuale Istruzione
racconta e tratteggia l’icona di una Parrocchia come comunità viva[i]. Una prospettiva
che ripercorre e rilancia le riflessioni e i suggerimenti dei pontefici degli
ultimi cinquant’anni.
In particolare, vorrei
riprendere alcune espressioni di Paolo VI che, lontano da noi, dal
Codice attuale e dalla drastica diminuzione del numero di presbiteri, ma col vigore del Concilio, disegnava la Parrocchia con tratti forti.
Tra le varie
affermazioni ne cito tre che mi sembrano molto interessanti.
Papa Montini non mancava
di affermare che la Parrocchia è una comunità viva e necessaria per la vita spirituale
di tutti i membri pur diversi tra loro[ii]. Non mancava il rimando al Parroco. Ma la
stretta relazione, a ben vedere, più tra Parrocchia e Parroco è con l’eucaristia[iii]. Non solo: egli afferma, pur nell’ambito di
una rilettura evidentemente datata dal punto di vista pastorale e teologico, che
il ministero dei chierici/parroci è un servizio alla comunità
parrocchiale che rimane una realtà superlativa[iv].
Paolo VI, come già
aveva avuto modo di dire, riafferma a pochi anni di distanza che la Parrocchia è una realtà eminente
dell’azione e della testimonianza della Chiesa. E questo lo ha affermato ad un
ritiro del clero romano!
Pochi tratti ma che
fanno intravedere una forza pastorale e pragmatica per certi versi molto più
decisa di quella attuale.
Non cito gli
interventi importati dei pontefici successivi perché vorrei solo rimandare al
contesto di riflessioni pastorali degli anni ’60/’70.
E mi chiedo: è
possibile che riflessioni così vive, forti e aperte dal punto di vista della
prassi pastorale, come quelle appena tratteggiate che vanno dal postconcilio
all’ultima Istruzione, non trovino dopo circa sessant’anni, ulteriori
sviluppi normativi?
L’ipotesi di un
blocco normativo, voluto o non voluto, è più che realistica.
Da cosa deriva il
“blocco” e cosa si può fare? Questa la domanda principale di questa seconda parte
di un post lungo (me ne scuso) ma che diventa fondamentale per chiarirmi le idee.
De parœcia et parocho: de iure condito (in brevis)
Sarà opportuno delineare
in modo schematico alcuni caratteri di quanto oggi si presenta come impianto
giuridico della Parrocchia e del Parroco.
La Parrocchia nel CIC (in breve)
La parrocchia è «una
determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente
nell’ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata,
sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio
pastore» (can. 515, §1)
I tratti che
derivano da questo canone (come anche dal successivo)[v] sono:
- comunità
di fedeli;
- costituzione;
- affidamento
cura pastorale al…
- parroco,
come proprio pastore…
- da
parte del Vescovo (cfr. LG, 18).
Comunità e proprio
pastore: un binomio non inscindibile. La comunità è costituita con un atto
amministrativo differente da quello che è l’altro atto singolare per la
nomina del Parroco. Due differenti atti amministrativi; due realtà. Dal
punto di vista strettamente giuridico il chierico/parroco non appare
contrapposto alla comunità anche se non sembra farne parte. Il Parroco,
infatti, non è costituito Pastore a causa del suo far parte della comunità, ma
perché insignito dell’ordine sacro (ex can. 521 - §1) e stretto collaboratore
del Vescovo, primo Pastore della chiesa particolare (cfr. can. 369). La
relazione dunque che c’è tra Comunità e Pastore è estrinseca, non
consequenziale e si può ritenere “gerarchica” solo in quanto è il Vescovo che
ne determina la cura pastorale. La vera relazione gerarchica, dunque, è tra Vescovo
e Comunità (ex can. 515 - §1): è l’Ordinario del luogo, infatti, che costituisce/erige
l’Istituto/Parrocchia e provvede alla sua cura pastorale.
Il Parroco nel CIC (in breve)
Senza indugiare
molto, vale la pena ricordare cosa sia “pastore” nell’ambito del CIC. Esso è
tale per una finalità; ovvero: «per compiere al servizio della comunità le funzioni
di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di
altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici» (can. 519).
Questi gli elementi:
- compiere
ciò che è relativo ai tria munera;
- anche
in collaborazione di altri chierici o laici.
Tra gli altri
obblighi, il Pastore della Parrocchia deve:
- (ex
can. 529 - § 1) conoscere i fedeli affidati alle sue cure;
- assistere
gli ammalati;
- essere
vicino ai poveri e agli ammalati… a tutti coloro che attraversano
particolari difficoltà;
- sostenere
sposi e genitori nell’adempimento dei loro doveri.
- (ex
can. 532) Amministrare i beni della parrocchia.
- (ex
can. 771 - § 1) Essere sollecito nell’annunciare la Parola di Dio.
- (ex
can. 773) Curare la catechesi del popolo cristiano.
- (ex
can. 794 §2) Disporre ogni cosa, perché tutti i fedeli possano fruire dell’educazione
cattolica.
- (ex
can. 823 - § 1) Vigilare che non si arrechi danno alla fede e ai costumi
dei fedeli.
- (ex
can. 843 - § 2) Curare e preparare quanti lo chiedono a ricevere i sacramenti.
Questo dovere è condiviso con gli altri fedeli.
- (ex
cann. 898; 901; 534) Illustrare la dottrina del sacramento dell’eucaristia e
applicare le intenzioni in modo particolare anche per la Comunità.
In conclusione,
l’invito rivolto al lettore è quello di ripercorrere almeno questi brevi
appunti e di suggerire, tenendo conto questi canoni, possibilità di
interpretazione o di cambiamento rispetto all’impianto giuridico attuale.
Una domanda potrebbe
essere: alcuni di questi “doveri” sarebbe possibile delegarli a non-sacerdoti? Di
seguito alcune proposte.
De parœcia et parocho: de minimo iure condendo
Piccola premessa e
breve riflessione.
Come accennato, la
cura del Parroco è condotta nel pieno esercizio di quelli che, secondo la dottrina
conciliare, sono considerati i tria munera:
- celebrare
e presiedere (munus sanctificandi, cfr. LG 26);
- annunciare
(munus docendi, cfr. LG 25)[vi];
- governare
(munus regendi, cfr. LG 27).
Tutti sanno bene che
le tre funzioni (santificare, insegnare e governare) sono
relative all’essere sacerdote, re e profeta di ciascun
battezzato (in persona Christi). Ogni battezzato è incorporato a
Cristo e da lui mutua la triplice natura di sacerdote, re e profeta (cfr. LG,
31)[vii]. La differenza tra il battezzato e il ministro
ordinato è che quest’ultimo esercita i tria munera nel pieno della abilitazione alla potestà
di governo la quale, tecnicamente, è altro dal solo munus regendi e distinto
dai tria munera in genere.
Qui il passaggio è
delicato quanto chiaro (in dottrina): i tria munera sono doni del
Cristo (che ne ha la pienezza) mentre la potestas regiminis (potestà
di governo) è un dono di “Cristo capo” elargito ai sacerdoti (presbiteri e ai
vescovi) e non ai diaconi (cfr. can. 1009 §3)[viii] e non ai laici[ix].
Ne deriva che solo
un sacerdote (vescovo o presbitero) può essere a capo di una comunità in
quanto agisce in persona Christi capitis.
Ora si hanno tre possibilità (come accennavo nella prima parte del post):
1. lasciare l’impianto giuridico attuale e articolarne le possibilità;
2.a. cambiare l’impianto giuridico in relazione al ruolo del parroco;
2.b. cambiare la dottrina circa l’ordine sacro e
la potestà di governo.
Proviamo ad
articolare le tre possibilità:
1.
lasciare l’impianto giuridico attuale e
articolarne le possibilità: ci sarebbero varie possibilità di far “cooperare
i laici” alla potestà di governo (ex can. 129 §2). Già il verbo adoperato nella
redazione del can. 129 (cooperare / cooperari)[x] vuol dire che vi è una possibilità concreta
e cioè che chi ne ha autorità (in questo caso il vescovo non il parroco a mio
modesto avviso e per l’evidenza della situazione) può delegare un laico per
alcuni atti di potestà di governo. Lascio immaginare le articolazioni che
ne potrebbero derivare. Faccio un azzardo che rimane all’interno dell’attuale
impianto giuridico: il Vescovo, primo e unico pastore della Chiesa particolare,
potrebbe delegare con la propria potestà (che è anche ordinaria e immediata ex
can. 381) un non-sacerdote il quale reggerebbe una parrocchia non per propria
potestà ma per potestà delegata anche se non insignito dell’ordine
sacro. Nominalmente il Vescovo reggerebbe la parrocchia delegando alcuni atti.
In realtà questa possibilità non verrebbe contro neanche al disposto del can.
521 - §1 poiché il laico in questione non sarebbe “parroco” ma reggerebbe la
chiesa con potestà delegata e, al massimo, sarebbe un “delegato parrocchiale”: e
sembra sia questa la possibilità, negata di fatto dalla Istruzione, che
si attendeva. Sempre nell’ambito della potestà di governo, bisogna ricordare
che essa è distinta in “legislativa”, “esecutiva” e “amministrativa”. Sarebbe
così sacrilego delegare un non-sacerdote per (almeno) la rappresentanza legale
e amministrativa della parrocchia (ex can. 532)[xi]? Non si vede come. Anzi: un rappresentante
non-presbitero e più legato alle decisioni collegiali potrebbe apparire più
conforme alla mens canonica attuale sulla gestione e l’amministrazione
dei beni di persone giuridiche. Nonostante ciò l’Istruzione vuole che i
doveri e i diritti del parroco siano comunque in capo ad un presbitero (“Moderatore
della cura pastorale”, n. 88) che assuma l’intera rappresentanza e
amministrazione dell’Istituto/Parrocchia: insomma, senza un presbitero
“Moderatore” (con lettera maiuscola!) neanche il Vescovo può reggere una
parrocchia e delegare atti? In realtà appare la volontà di legare la comunità
non alla sua fonte (eucaristia e liturgia) ma alla potestà di chi
può presiedere la celebrazione eucaristica anche per questioni legali e
amministrative. Che la comunità sia viva nell’eucaristia (e nella liturgia)
non significa che essa sia tale solo per la potestà di governo di chi può
presiedere l’eucaristia (potestà di governo e potestà d’ordine
possono non coincidere). Ma qui è evidente che una dottrina legata alla
visione cosificata dell’istituzione del settimo sacramento non ammetterà mai
che l’eucaristia è fondamentale per una comunità parrocchiale ma non è identificativa
per la potestà di governo (o per la rappresentanza/amministrazione) di chi può porre
alcuni atti, in alcuni casi, se delegati dal Vescovo pur non essendo
presbitero (realtà già sussistente: si pensi al caso dei giudici laici). In
altre parole, se non c’è presbitero perché il Moderatore? Se è vero che non si
può delegare la presidenza dell’eucaristia che rimane intrinseca ad almeno due
gradi del settimo sacramento (potestà di ordine, come vuole l’attuale dottrina),
è vero che si possono delegare atti di potestà di governo per reggere
una Parrocchia. Bisogna pure ricordare che nell’attuale dottrina canonistica il
parroco rappresenta e amministra perché può decidere (ne ha facoltà e
volontà autonoma). Ma in questa prospettiva ci si chiede dove sono relegati le
funzioni dei Consigli parrocchiali e di affari economici. E questi non
potrebbero essere rappresentati da non-presbiteri che, col consenso vincolante
degli organi collegiali, attuino volontà in prima persona per tutelare i terzi?
Perché i non-presbiteri (debitamente delegati, stante l’attuale
dottrina) non potrebbero essere “capaci” e “abili”? In realtà gli atti di un
non-presbitero vincolati al mandato del Vescovo e al consenso dei Consigli
parrocchiali, potrebbero aiutare a far crescere l’identità della Parrocchia in
quanto comunità che prende decisioni e si impegna al di là degli amministratori
che possono cambiare. Finché i binomi rigidi eucaristia/potestà e parrocchia/parroco
sono costituiti da elementi ritenuti reciprocamente “immediati”, la paura di
delegare la potestà di governo sarà considerata un impedimento di origine
divina che, almeno attualmente, non è per nulla evidente e rischia di fatto
(ex divina institutione) di creare più
problemi di quanto ne vorrebbe risolvere. Le miopie iniziano a farsi vedere.
Intanto, già solo con un’interpretazione dell’attuale impianto giuridico si
potrebbe fare molto più di quanto dettato nell’Istruzione. Dispiace che il
vero motivo di una tale articolazione sarebbe e resterebbe solo la mancanza di
presbiteri (ob sacerdotum penuriam): oltre questo unico motivo, al
contrario, la partecipazione/collaborazione (attiva) dei laici alla cura
pastorale anche attraverso forme di deleghe concrete potrebbe essere, e di
fatto è, una ricchezza non sfruttata, rimanendo nel frattempo solo una pezza di
rattoppo[xii]. Insomma, «se la partecipazione è
nell’ambito della cura pastorale questa non può non prevedere anche una
partecipazione nel ruolo di guida»[xiii] e, quindi, una cooperazione alla potestà
di governo, con buona pace delle difficoltà linguistiche e nominalistiche
con cui chiamare il fedele non-sacerdote che potrebbe essere soggetto di
deleghe o di mandato.
2.a. cambiare l’impianto giuridico in relazione
al ruolo del Parroco: questa possibilità sarebbe una delle più gradite. È
indubbio che, seguendo il ragionamento di cui al punto 1, sarebbe auspicabile
che, per competenze e formazione, anche un non-sacerdote possa essere nominato Parroco
e questo senza nulla togliere alla dottrina ma solo permettendo ad un
non-sacerdote (diacono, religioso, laico…) di essere nominato almeno “guida
pastorale”. Se qualcuno avanzasse la perplessità che in questo modo si
intaccherebbe la dottrina, si potrebbe rispondere che la Parrocchia è un istituto
di diritto ecclesiastico per tale motivo elencare i requisiti necessari per la
guida della parrocchia è una questione di diritto ecclesiastico e non
toglierebbe niente alla dottrina circa la relazione tra settimo sacramento e
potestà, tra potestà di ordine e potestà di governo. Se il problema
risultasse essere la dottrina più che il diritto da riformare, quelle del Parroco
non-sacerdote, ovvero della “guida pastorale”, potrebbe essere un insieme di potestà
delegate. Fermo restando la non possibilità della presidenza dell’eucaristia,
del sacramento della penitenza e dell’unzione degli infermi, come attualmente
vuole la dottrina.
2.b. cambiare la dottrina circa l’ordine sacro e
le potestà su questo ci sentiremo tra un po’ di tempo…
Conclusioni
Difficile concludere ma doveroso.
Basterà solo evidenziare alcuni ultimi elementi.
La Parrocchia così come si presenta oggi è un istituto
complesso che raccoglie in sé membri di diversa sensibilità e che richiede azioni
distinte e diverse.
Dal punto di vista giuridico (per riprendere la seconda
parte dell’Istruzione) la Parrocchia rinvia ad alcuni elementi minimi ed
essenziali:
-
una viva azione liturgica (in particolare cann.
834-1253);
-
una formazione costante nella Parola di Dio (in
particolare cann. 747-833);
-
una guida capace e abile di atti di governo (in
particolare cann. 495-502; 1273-1739);
-
un rappresentante legale (almeno per ogni atto;
cfr. in particolare cann. 515-572; 1740-1752);
-
un amministratore (in particolare cann. 1245-1310).
È possibile che tutti gli atti e le azioni evocati
dall’impianto giuridico attuale possano essere attivati davvero solo se vi è la
presenza/moderazione, pur solo nominale, di un presbitero (sacerdote)?
A chi scrive sembra che, al di là del percorso fin qui
proposto e che rimanda ad ulteriori studi e ad altro lavoro intenso (teologico
e canonistico), molti passi si possano fare anche senza cambiare il Codice ed
altri si potrebbero fare con la volontà di chiarire la dottrina e riformulare
alcuni canoni.
La delusione data dall’Istruzione deriva anche e soprattutto
dal non aver sfruttato l’impianto giuridico attuale.
Tuttavia è innegabile che si riaffaccia il dilemma (falso) della
distinzione tra potestà di ordine e potestà di governo: la prima
legata al settimo sacramento, la seconda aperta alla cooperazione per mandato
speciale anche da parte dei non-sacerdoti. Ma se dal punto di vista dell’impianto
giuridico sono stati fatti notevoli progressi, dal punto di vista delle
possibilità concesse, l’Istruzione segna il passo.
Nulla di nuovo sotto il manto di madre Chiesa.
Delude, infatti, che la parte normativa dell’Istruzione
non abbia articolato ulteriori possibilità giuridiche per aiutare e sostenere
le comunità parrocchiali a cui, tuttavia, si chiede una sollecita conversione
missionaria, ma senza identità.
Rimane un’altra questione: il Popolo di Dio (tutto) ha bisogno di formarsi concretamente in queste possibilità di vera cooperazione e di comunione. Finché non si partirà da una formazione capillare (dei chierici e dei non-chierici…) ogni comunità attenderà il Parroco che vuole e ogni Parroco forgerà la Comunità che immagina.
Lo sforzo dal punto di vista pastorale è grande. Ma bisogna
intervenire con più decisione giuridicamente. Non sarà sufficiente, infatti, accostare
e relazionare i tria munera ai cinque ambiti dell’azione
pastorale («desiderare, concepire, mettere al mondo, prendersi cura,
lasciar andare»)[xiv]
per risolvere ciò che la canonistica e la dottrina sono chiamate a verificare e proporre per
l’oggi della Chiesa.
Questo il punto.
Il post lungo rinvia alla pesantezza canonistica: ma forse ora sono pronto ad iniziare a ragionare e a lavorare.
[i] Ne
riprendo alcuni punti fondamentali. La Parrocchia è “una casa in mezzo alle
case” (n. 7), “comunità viva di credenti” (n. 9), “chiamata a cogliere le
istanze del tempo per adeguare il proprio servizio alle esigenze dei fedeli e
dei mutamenti storici” (n. 11), “contesto umano dove si attua l’opera
evangelizzatrice della Chiesa, si celebrano i sacramenti e si vive la carità,
in un dinamismo missionario” (n. 19), “‘luogo’ che favorisce lo stare insieme e
la crescita di relazioni personali durevoli, che consentano a ciascuno di percepire
il senso di appartenenza e dell’essere ben voluto” (n. 25). Ma soprattutto la
parrocchia è “comunità convocata dallo Spirito Santo per annunciare la Parola
di Dio e far rinascere al fonte battesimale nuovi figli” (n. 29) e, giusto
dieci numeri dopo, in questa prospettiva si asserisce che essa è “abilitata a
proporre forme di ministerialità, di annuncio della fede e di testimonianza
della carità” (n. 39).
[ii] Egli affermava: «la Parrocchia è un ente
ecclesiale sempre vivo e indispensabile. Essa è la prima comunità organica e
autorizzata nella Chiesa diocesana, e perciò in comunione, come dice il
Concilio, con la Chiesa universale (cfr. CD, 30); è la nostra prima e
normale famiglia spirituale, risultante non tanto dalla omogeneità dei suoi
membri, i quali sono socialmente ben diversi fra loro, ma dalla virtù
generatrice d’uno specifico ministero pastorale e dalla efficacia coesiva di
una stessa fede e d’una stessa carità. La Parrocchia è un’istituzione di
altissimo valore morale e sociale, se si pensa ch’essa è l’organo primario
e responsabile d’una provvida e necessaria finalità, che riguarda tutti e
ciascuno: la cura d’anime, la quale suppone un sacerdote qualificato, il
Parroco, che si dedica totalmente alla comunità affidatagli, pronto sempre,
come “buon Pastore” a preferire l’altrui salvezza, se occorre, alla propria
vita stessa. È la scuola della Parola di Dio, è la mensa del Pane
eucaristico, è la casa dell’amore fraterno, è il tempio della
preghiera comune». Paolo VI,
Angelus, domenica 7 settembre 1969 [http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/angelus/1969/documents/hf_p-vi_ang_19690907.html].
[iii] La celebrazione eucaristica non era vista come
privata azione del chierico ma come identità della comunità stessa. Papa
Montini predicava: «Con il SS.mo Sacramento c’è anche il parroco; e chi è il
parroco? Il rappresentante della Chiesa. Adunque la parrocchia è la presenza
della Chiesa viva ed operante in mezzo al popolo fedele. È - per definirla
in maniera più completa - la presenza di Cristo nella pienezza della sua
funzione salvatrice». Paolo VI,
Discorso alla Parrocchia Gran Madre di Dio, domenica 8 marzo 1964 [http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1964/documents/hf_p-vi_spe_19640308_gran-madre.html].
Si badi che qui il rimando alla presenza
di Cristo (argomento caro a papa Montini) è alla Parrocchia!
[iv] «Bisogna che noi comprendiamo, ancora una
volta, quale formula superlativa di vita comunitaria, modernissima,
polivalente, psico-sociologica, facile ed eroica allo stesso tempo, sia tuttora
la Parrocchia, alla quale è rivolto il vostro ministero sacerdotale». Paolo VI, Incontro di Quaresima con
il Clero romano, lunedì 15 marzo 1976 [http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1976/documents/hf_p-vi_spe_19760315_incontro-clero-romano.html].
[v] «A meno
che il diritto non disponga diversamente, alla parrocchia è equiparata la
quasi-parrocchia, che è una comunità determinata di fedeli nell'ambito della Chiesa
particolare, affidata ad un sacerdote come suo pastore, ma che, per speciali
circostanze, non è ancora stata eretta come parrocchia». Can. 516 §1.
[vi] Ho
volutamente invertito lo schema del CVII che riposta nell’ordine insegnare,
santificare e governare.
[vii] «Col
nome di laici si intende qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri
dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè,
che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo
di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico
e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la
missione propria di tutto il popolo cristiano». LG, 31.
[viii] Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica in
forma di motu proprio: Omnium in mentem, del 26 ottobre 2009 [omissis].
[ix] Non si
citano i religiosi perché fuori da questa distinzione (cfr. can. 207 §§1-2).
[x] Un
canone che è una vera novità rispetto al dettame del can. 118 del Codice
precedente.
[xi]
L’ipotesi è già stata avanzata. Si veda: P. Gherri,
“Parochus personam gerit parœciæ”:
can. 532, in La Parrocchia [omissis]. In questo studio Paolo Gherri
ripercorre anche l’iter storico del canone con dovizia di particolari. La
proposta di
[xii] Si
veda la bella testimonianza di un parroco anonimo: http://www.settimananews.it/parrocchia/parrocchia-toppe-nuove-su-vestito-vecchio/
[xiii] G. Incitti, La parrocchia senza
presbitero, in La parrocchia [omissis]. Nel prosieguo dell’articolo
l’autore (anche consultore della Congregazione per il Clero) suggerisce che la
delega per alcuni atti la potrebbe dare il parroco. Ma qui si presuppone che un
parroco ci debba essere comunque, diversamente dall’ipotesi su suggerita.
[xiv] Cfr.
F.G. Brambilla, La pastorale della
chiesa in Italia dai tria munera ai cinque ambiti?, in Vita e
Pensiero [omissis].
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