La comunità tra parrocchia/istituto e istituzione/parroco - 1
Parrocchia e parroco non sono la stessa realtà: la prima è un istituto giuridico storico; il secondo è chierico “legato” alla parrocchia; legando la parrocchia (istituto) al parroco (istituzione), si è prodotta una doppia legatura incrociata che ha allungato le competenze e il ruolo del parroco sulla realtà della parrocchia così che “non c’è (ordinariamente) parrocchia senza parroco”, ovvero senza soggetto abile all’esercizio pieno della potestà di governo. Ma basta parlare della missione per convertire la parrocchia?
Cristo Pantocratore (con ritocco digitale), abside Pieve di Santa Maria dell’Acqua Dolce – Monesiglio
La comunità tra parrocchia/istituto e istituzione/parroco - PRIMA PARTE
Umberto R. Del Giudice
Un post utile almeno nelle intenzioni
Nel dibattito attuale, animato anche dall’accoglienza critica dell’ultima Istruzione pubblicata dalla Congregazione per il Clero da parte di alcuni vescovi tra cui quelli tedeschi, credo sia utile presentare una sintesi circa alcuni aspetti canonici e canonistici della “Parrocchia-Istituzione” pur nella consapevolezza che la riflessione sui singoli e generici aspetti in oggetto è molto complessa, molto più di quanto un post possa ospitare/sopportare/tutelare. Un post di ambito storico-giuridico che vuole accompagnare le utili e vivaci riflessioni di questi giorni (nell’ambito delle quali rimando agli interventi di Andrea Grillo e di Carla Mantelli).
Va anticipato che le possibilità di “conversione” della
parrocchia/istituzione si articolano da due premesse contrapposte sebbene non
del tutto antitetiche, ovvero (1) (re-)interpretare o (2) cambiare l’impianto giuridico-canonico
attuale. Ma ripercorrendo le vicende storiche e i presupposti giuridici appare alquanto
chiaro ed evidente, questa la tesi di fondo, che le due premesse relative alla “conversione”
più che la parrocchia in quanto istituto devono riguardare il parroco,
soggetto responsabile e unica guida della comunità.
La riflessione pastorale sull’identità della comunità
parrocchiale, infatti, è importante: ma, come ha ampiamente mostrato la recente
Istruzione,
per alcuni aspetti opportunamente definita “maquillage linguistico concettuale”
da Gilberto
Borghi, è vincolata al diritto canonico ovvero al ruolo del parroco,
ai suoi obblighi e diritti, e, in ultima analisi, alla potestà di governo.
Le due premesse (re-interpretare/cambiare) dunque riguardano
il parroco e sono contrapposte o antitetiche nella misura in cui il cambiamento
dell’impianto si ispira ad una conversione (2a) solo “giuridica” oppure ad una trasformazione
(2b) “dottrinale” del soggetto in questione. In altre parole, il cambiamento
dell’impianto canonico può dipendere solo dal ridimensionamento (giuridico – 2a)
della figura/guida del “parroco” oppure dalla revisione/reinterpretazione
(dottrinale – 2b) del settimo sacramento. Al contrario, altre possibilità
potrebbero derivare dallo stesso impianto canonico attuale (1).
Dunque, le due premesse (re-interpretare/cambiare) potrebbero
generare tre soluzioni:
1.
lasciare l’impianto giuridico attuale e
articolarne le possibilità;
2.a. cambiare l’impianto giuridico in relazione
al ruolo del parroco;
2.b. cambiare la dottrina circa l’ordine sacro e
la potestà di governo.
Di seguito il tentativo di ricostruire dati e possibilità.
Va chiarito inoltre che una tale impostazione appare idonea
anche per tentare un dialogo trasversale tra chi non cambierebbe il Diritto
canonico (1), tra chi cambierebbe poco (2a) e chi cambierebbe
tutto (2b).
È utile anche ricordare che il dibattito attuale, tutto “cattolico”,
deve chiarire i presupposti dei vari ragionamenti, altrimenti, il più delle
volte, ci si potrebbe parlare senza capirsi.
Prima di presentare alcune proposte/questioni sarà utile
ribadire il contesto storico in cui si sono evoluti/formati sia l’istituto
“parrocchia” che il “soggetto giuridico” parroco.
PRIMA PARTE
Parrocchia istituto conveniente e parroco istituzione preminente
Parrocchia e parroco non sono la stessa realtà: la prima è
un’istituzione storica; il secondo è un chierico che, sotto l’autorità del
Vescovo, ne ha piena responsabilità.
La tradizione degli ultimi secoli ha legato parroco a
parrocchia.
Ma legando la parrocchia (istituto) al parroco (istituzione)[i] è stata
prodotta una doppia legatura incrociata che ha allungato le competenze e il
ruolo del parroco sulla realtà della parrocchia così che “non c’è ordinariamente
parrocchia senza parroco” poiché, questa la mens, una parrocchia al
massimo è in attesa di un parroco (cfr. Istruzione, 88-89). È evidente
che l’attuale impianto canonistico[ii] sembri associare
in stretta relazione l’una e l’altro più di quanto vi sia bisogno.
Ma è sempre stato così? E, se l’impianto giuridico ci viene
da lontano, in che modo e perché vi è stretta relazione tra le due realtà? Vi può
essere una diversa interpretazione dell’impianto giuridico?
De parœcia
I canonisti, contrariamente a quanto in passato scriveva qualche
autore coi toni sacri del “diritto divino”, sono concordi nel ritenere che la
parrocchia sia un istituto di diritto ecclesiastico: in questo senso si
può affermare ancora oggi che sia un istituto utile e conveniente ma non
irriformabile.
Si badi però che il fenomeno che sottostà storicamente a
questo istituto sono le comunità di fedeli (tutti) riuniti nella preghiera
comune e nella carità in cui pur vi era bisogno di una guida.
È noto, infatti, che, dopo le prime comunità apostoliche e
rallentando le persecuzioni, intorno al finire del III secolo andò sempre più
radicandosi una forma di “governo monarchico” delle comunità al cui vertice primeggiava
il Vescovo assistito dai diaconi (diaconesse)[iii] e
coadiuvato dagli “anziani”, ovvero presbiteri.
Sarebbe inutile anche ricordare – ma vale la pena fare un
accenno – che il “vescovo” nell’antichità[iv] ha
caratteri diversi da quelli che siamo abituati a vedere oggi attraverso le
lenti della trasformazione medievale e della teologia episcopale dell’ultimo Concilio.
In ogni caso, verso la fine del IV secolo (e definitivamente
con l’editto di Teodosio del 380 d.C.), il cristianesimo iniziò a diffondersi
in modo più capillare e variegato (impossibile qui elencare le varie
vicissitudini) cosicché alcuni “presbiteri” e “diaconi” iniziarono ad essere
“inviati”, “missionari”, “corepiscopi” in varie comunità. Nel corso degli anni
alcuni assunsero, formalmente e in un certo qual modo, la direzione stabile di
alcune comunità rurali dette parrocchie le quali si andavano sempre più
distinguendo (non solo etimologicamente) dalle diocesi, pur sotto la guida nominale
di un Vescovo. In questo contesto non mancarono contese: ben presto le
“parrocchie” entrarono in una sorta di competizione di giurisdizione con i
“monasteri”.
Le comunità “parrocchiali” rurali, dove il numero della popolazione
era alquanto congruo, venivano erette per iniziativa dei Vescovi o per
iniziativa delle stesse comunità: soprattutto in quest’ultimo caso alla
“parrocchia” veniva associato un “beneficium”[v] col
quale compensare un “chierico” parroco. Rimase questo un aspetto per lungo
tempo identitario della stessa parrocchia.
Il passaggio da comunità di fedeli a comunità di fedeli (politicamente) stabile (insieme ad altri complessi fenomeni sociali) consumò la radicalizzazione della comunità cristiana quale “parte di fedeli governata da un pastore”, quest’ultimo identificato/indicato nel presbitero (?) incaricato ora dal Vescovo, ora dal Priore, ora dal dominus, ovvero dallo stesso padrone della corte, del podere, del feudo, del latifondo… Fuori dalle città (episcopali) si crearono così parrocchie autonome e chiese private già a partire dal VI secolo. Fenomeno che scoppio nell’epoca carolingia.
La parrocchia è così indissolubilmente legata al vivere
cristiano della società e alla competenza/autorità del parroco.
De parocho
Furono sempre più tesi e anche violenti (soprattutto tra vescovo
e signore) i contrasti derivanti dalle vite delle comunità: nomine
dei parroci, eredità e/o benefici parrocchiali, competenze giurisdizionali sui
fedeli e sui territori (che vide contrapporsi parrocchie e monasteri). Questione,
quest’ultima, che si acuì con l’avvento degli ordini mendicanti.
Altri eventi storici frenarono decisamente la
regolamentazione e la sistemazione canonica delle “parrocchie cittadine”
(legate per lo più al “capitolo” della Chiesa cattedrale) favorendo al tempo
stesso la nascita e lo sviluppo dei chierici regolari e delle pievi, mentre i titoli dei “principi della Chiesa” (tra cui anche quelli degli abati)
iniziarono ad essere considerati più un bene di famiglia da ereditare che un
ministero ecclesiale.
In questo contesto socio-ecclesiale la comunità di fedeli andò
sempre più configurandosi come “plebe” che vive nel “secolo” con la “fortuna”
di vivere in “anni del Signore” dove autorità civile, potestà ecclesiale, vita
di fede, sacramenti e pietà popolare (talvolta ricca di superstizioni) erano
una cosa: un “popolo” comunque guidato da un “pastore”.
E mentre a ecclesiastici e a governanti (abilitati,
quest’ultimi, al governo da Dio stesso) era riconosciuta una diretta competenza
nel governo o negli affari della Chiesa, ai “non ecclesiastici”, al “popolo”,
bastava l’amministrazione dei sacramenti: di null’altro si dovevano occupare
rispetto al loro essere in Ecclesia. Si potrebbe dire così: vi erano
“laici”, senza alcuna autorità, neanche civile, che erano l’ultimo gradino
della scala sociale ed ecclesiastica dell’ordo “istituito da Dio”: erano
il “popolo delle parrocchie”.
A questi bastava essere curati nello spirito: nasce la “cura
d’anime”.
Mentre quei laici che avevano beni, mezzi e autorità, un
“proprio” chierico che amministrasse i sacramenti nelle cappelle o chiese
private, lo trovavano sempre.
In questa prospettiva storica si comprende bene perché la
stabilizzazione e regolamentazione operata dal Concilio di Trento fu considerata
un’innovazione senza precedenti ed esaltata nel corso dei secoli successivi
come un successo del Diritto canonico: tutti dovevano avere un parroco e
quest’ultimo era sottoposto, in qualche modo, al Vescovo.
Ho già accennato ad alcune innovazioni dell’assise
tridentina[vi]: aggiungo
che vi furono ulteriori norme per i parroci, tra cui[vii]:
a.
l’obbligo di residenza,
b.
di conoscere le “proprie pecore” («oves suas agnoscere»),
c.
di offrire per esse il sacrificio,
d.
di pascerle con la predicazione della Parola
divina, con l’amministrazione dei sacramenti e con l’esempio di ogni opera
buona,
e.
di aver una cura paterna per i poveri e per gli
altri bisognosi e di attendere a tutti gli altri doveri pastorali.
Nel contesto storico dell’epoca, il parroco diviene così
anche un’istituzione sociale.
Anche per i non addetti ai lavori è chiaro che vi è un lento
quanto inesorabile spostamento sostanziale dalla comunità da regolare
alla guida della comunità regolata.
E per questo potremmo dire che, dal punto di vista
fenomenologico e quindi giuridico (prendendomi tutte le responsabilità della
semplificazione), la questione si è lentamente spostata dalla comunità di
fede alla potestà di governo.
Chi deve e chi può reggere una parrocchia? Chi può insegnare
e predicare? Chi ha competenza nei fori interno/esterno? Qual è la
giurisdizione delle parrocchie? Quali sono i doveri e i diritti dei parroci e
dei loro vicari?
Si sviluppa così un Diritto canonico (per l’epoca prolifero
e articolatissimo) attento alle competenze, ai doveri, ai diritti di quella
figura di sacerdote in cura d’anime responsabile e apice dell’azione
della Chiesa sul territorio: il parroco, vera e propria istituzione
ecclesiastica e sociale.
E poiché lo sviluppo del diritto del parroco è derivato da
Trento mentre la riflessione dell’episcopato la traiamo principalmente dal
Concilio Vaticano II (che doveva recuperare alla ministerialità ecclesiale e
collegiale i “principi della Chiesa” e i “successori degli apostoli”), ne
deriva che l’impianto del diritto del parroco (così come lo conosciamo oggi)
precede quello delle riflessioni canonistiche ed ecclesiologiche sul vescovo
quasi che la riforma dell’ultima assise conciliare, attenta al sacerdozio
comune dei battezzati e al ministero episcopale in continuità di fede e di
ministero con gli apostoli, sia da contorno ad un diritto del parroco stabile e
quasi inalterato, sebbene costellato da buoni auspici circa il rinnovamento
delle parrocchie. E la stabilità della figura e del ruolo del parroco deriva
dalla autorità in foro interno/esterno e dalla amministrazione dei sacramenti:
in una parola dalla potestà di governo (così come pensata da canonisti e
sacramentaristi).
La figura del parroco si è trovata così tra varie importanti
riflessioni senza essere in sé rivista e rivisitata. E la situazione sociale in
cui fu redatto il Codice di Diritto canonico del 1917 (comunità parrocchiali
principalmente rurali) somigliava più alla situazione di Trento che a quella
del XX secolo e degli anni successivi. E poiché sul parrocato la revisione del
Codice del 1983 poco ha fatto – pur riflettendo i nuovi paradigmi
socio-ecclesiali – si può dire che il parroco è una istituzione ecclesiale e sociale
che viene da molto, molto lontano: da Trento e oltre.
Se si ripercorrono alcuni passaggi sulla riflessione
conciliare circa la realtà parrocchiale si parla di parrocchia, si parla
di sacerdozio comune, si parla di episcopato come grado del pastore
e successore degli apostoli nella sinodalità: ma, nella sostanza, il parroco
rimane, nell’ambito del contesto giuridico canonistico, delineato e determinato
dalla dottrina sul settimo sacramento e, in particola modo, dalla
dottrina sulla potestà di governo.
Si badi, inoltre, che la mentalità per la quale i “laici” sono “nel secolo” non ha abbandonato le riflessioni postconciliari in riferimento alla ministerialità e all’identità laicale; anzi: l’indole dei “laici è secolare” per questo motivo il loro principale “luogo”, dove poter esercitare pienamente e piamente i tria munera, è relativo a tutte le attività “secolari”[viii]. Un’evidente “divisione di essenza e di luoghi” tra laici e chierici che continua quanto meno ad imbarazzare e che non si comprende come possa aiutare la conversione della parrocchia (come argomenta in un altro post Andrea Grillo).
Vale la pena, dunque, soffermarsi sulle possibilità di
esercizio della potestà di governo che se da una parte caratterizza il ruolo
del parroco dall’altra paralizza la comunità parrocchiale.
[a breve la seconda parte]
[i] Indico
con “istituto” una realtà nata come fenomeno e regolata giuridicamente; indico
con “istituzione” una realtà con caratteristiche e connotazioni sociali,
storiche, morali, culturali, oltre che giuridiche che ne fanno un paradigma
complesso di attese e prospettive sociali, morali, religiose più che di
fenomeno in sé regolato giuridicamente.
[ii] Vale la
pena differenziare “canonico” da “canonistico”: quest’ultimo è l’interpretazione
(dottrina canonistica) dell’impianto canonico (Diritto canonico). È tuttavia
evidente che i due ambiti sono presentati attualmente sempre più indivisibili.
[iii] Non è
qui rilevante quale sia stato il ruolo femminile nelle comunità antiche.
[iv] Sembra utile
rimandare a: http://www.treccani.it/enciclopedia/i-vescovi_%28Enciclopedia-Costantiniana%29/
[v] Si veda
utilmente: http://www.treccani.it/enciclopedia/beneficio_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[vii] Cfr. Concilio di Trento, Sessione XXIII.
Decretum super reformatione, can. 1.
[viii] «In
realtà il Concilio descrive la condizione secolare dei fedeli laici
indicandola, anzitutto, come il luogo nel quale viene loro rivolta la chiamata
di Dio: «Ivi sono da Dio chiamati» [omissis]. Si tratta di un «luogo»
presentato in termini dinamici: i fedeli laici «vivono nel secolo,
cioèimplicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle
ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è
come intessuta» [omissis]. Essi sono persone che vivono la vita normale nel
mondo, studiano, lavorano, stabiliscono rapporti amicali, sociali,
professionali, culturali, ecc. Il Concilio considera la loro condizione non semplicemente
come un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare
in Gesù Cristo la pienezza del suo significato [omissis]. Anzi afferma che «lo
stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della convivenza umana (...)
Santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali
traggono origine i rapporti sociali, volontariamente sottomettendosi alle leggi
della sua patria. Volle condurre la vita di un lavoratore del suo tempo e della
sua regione» [omissis].
Il «mondo» diventa così l'ambito e il mezzo della
vocazione cristiana dei fedeli laici, perché esso stesso è destinato a
glorificare Dio Padre in Cristo. Il Concilio può allora indicare il senso
proprio e peculiare della vocazione divina rivolta ai fedeli laici. Non sono
chiamati ad abbandonare la posizione ch'essi hanno nel mondo. Il Battesimo non
li toglie affatto dal mondo, come rileva l'apostolo Paolo: «Ciascuno, fratelli,
rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato» (1Cor
7, 24); ma affida loro una vocazione che riguarda proprio la situazione
intramondana: i fedeli laici, infatti, «sono da Dio chiamati a contribuire,
quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante
l'esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito
evangelico, e in questo modo a rendere visibile Cristo agli altri,
principalmente con la testimonianza della loro vita e con il fulgore della
fede, della speranza e della carità» [omissis]. Così l'essere e l'agire nel
mondo sono per i fedeli laici una realtà non solo antropologica e sociologica,
ma anche e specificamente teologica ed ecclesiale». Giovanni Paolo II, Christifideles Laici, n. 15 [omissis].
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