"Chi ama non dimentica". Controllare o immergersi nei riti?

 

Custodire la tradizione non significa ridurre a funzione i riti: i riti non si controllano, si tutelano perché siano il "centro di ogni azione" e la fonte di "ogni pensiero". I moralismi, i progetti pastorali, i dogmatismi, le dottrine possono chiudere i riti in funzioni riducendo al fede a "pensiero razionalizzato". Ma la fede questo non lo permette...






Umberto Rosario Del Giudice

Il “mio” contesto immediato

 Nell’occasione del terzo scudetto del Napoli, come già ho scritto qui, la tifoseria napoletana (non solo a Napoli) organizzò feste, striscioni, coreografie multiple, e aveva il tempo per farlo.

Col quarto scudetto, a Napoli si è vissuta la tensione quasi immediata tra quello che è reale e quello che è vero: per ore la tifoseria napoletana (che possiamo tradurre anche con “tutta la città”) si è vista come in “tensione” per ciò che “sarebbe potuto accadere”. Una tensione “escatologica”, che, cioè, era nostalgia di un futuro imminente e possibile. Non racconto qui le varie scene di cui pure sono stato testimone dal pomeriggio di ieri. E mi scuso se, da teologo, sfrutto la mia “napoletanità”: ma un teologo che non pensa in contesti rischia di pensare senza testa proponendo solo pretesti moralistici.

Allora scrivo ora: e scrivo di ciò che è palese. Il fenomeno del tifo raggruppa. Anzi, il tifo, vissuto in rito, crea senso, struttura, attira, forma comunità, instaura intersoggettività inedite…

 

 

Tifo, rito e liturgie

 Il “tifo” non esiste senza rito. Il rito anticipa le emozioni: le convoglia, le dirige, le canalizza, le trasforma, e le “significa”, ovvero dà loro “un” senso. Il rito “lavora” anche all’insaputa di chi va allo stadio, di chi si affretta a vedere una partita con gli amici, di chi va a caccia della “maglietta” o si procura una “sciarpa”. Il rito identifica gli individui in un’unica azione: dal coro alla sciarpata, dall’esultanza alla tensione. Il rito rende soggetto l’individuo nel mentre dell’azione rituale che intersoggettivizza. Questo è il dato del fenomeno.

Giovani, vecchi, gruppi, famiglie, turisti “lontani”, si riconoscono in un’unica azione.

Ora è chiaro: il rito può essere anche deviato. Il rito è in sé ambiguo. Ma la forza dell’azione rituale rimane.

Allora ecco il dato fenomenico che diventa questione fenomenologica: perché le liturgie non attirano? Perché le liturgie stancano? Perché le liturgie nostrane diventano più forze centrifughe che centripete?

Per molti liturgisti la risposta è semplice: i riti funzionano perché usano le emozioni, le dirigono, le fomentano, le convogliano… cosa mancherebbe dunque alle nostre liturgie? La capacità di far emergere l’emozione; anzi, molti riti spengono le emozioni sotto la coltre e la fuliggine dei moralismi e dei razionalismi più articolati. Se poi la preoccupazione degli “addetti ai lavori” è se l’acqua del battesimo deve o no toccare la fronte anziché i capelli del battezzando (come si legge in un commentario di diritto canonico in lingua inglese…), allora è chiaro che i nostri giovani, le nostre famiglie, i nostri anziani avranno poco da danzare e molto poco da sognare.

 

La forza dei riti

I riti cambiano prima ancora che tu ti accorga che ti hanno cambiato. Significa che i riti ci immergono in comportamenti col ritmo, con le percezioni, coi sentimenti e coi pensieri, prima ancora che i pensieri possano essere “puri”.

In altre parole, il rito è immersivo (nota definizione cara a Giorgio Bonaccorso). Il “tifo” dimostra palesemente che anche i “riti non-religiosi” dettano comportamenti tendendo a cambiare gli individui e i gruppi. La ambiguità permane: e questa è un’altra evidenza del rito. Ma la forza rimane più evidente del rito stesso.

Eppure, spesso, si ha come la sensazione che dopo una celebrazione liturgica nulla sia cambiato: constatiamo così l’inefficacia e addirittura l’inconsistenza di quelle liturgie che sono ammantate troppo di moralismi, di parole dottrinali, di divieti e regole, mentre avremmo bisogno di canti che ci facciano respirare all’unisono, di poetiche attrattive, di narrazioni contemplative.

Cosa fare? È possibile cambiare i riti? Scrive Giorgio Bonaccorso: “Non è forse perché proprio quando li filtriamo attraverso il nostro controllo, per ottenere dei mutamenti, perdono la loro efficacia e la loro consistenza? Se ti chiedi come ti cambiano i riti, la prima cosa da tener presente è che i riti non ti cambiano come vuoi tu. Non sono strumenti di un progetto… Più l’individuo, la comunità e la chiesa trasformano i riti in strumenti e più essi risulteranno incapaci di trasformare l’individuo, la comunità, la chiesa. Non avranno più nulla di sorprendente perché sottoposti a un controllo che non accetta sorprese, non saranno più efficaci perché gestiti da un progetto che ha già deciso quale debba essere la loro efficacia”.

E continua: “imparare dal rito per celebrare il rito non significa altro che imparare da come il rito si inscrive nelle trame delle azioni umane. Ed è proprio su questo punto che emerge l’ampio investimento di energie umane, come suoni, gesti, parole, immagini, spazi, tempi, emozioni, sentimenti. La razionalità (etica, filosofica, teologica) deve aiutare ad evitare deviazioni, non a reprimere quelle sensazioni ed emozioni che fanno del rito un’esperienza viva e vivace”[1].

Anche questo è un compito attuale della teologia del XXI secolo: passare dalla razionalizzazione del rito e dalla funzionalizzazione pastorale dell’azione liturgica alla formazione alla fede nei riti, e alle realizzazioni di liturgie “rituali” sempre più tendenti a investire le emozioni prima che le teste. Quelle vengono dopo. Chi è immerso in azioni rituali "non dimentica" e inizia ad "amare". Vero è che i riti sono ambigui e ambivalenti (come nel caso di riti di iniziazione alla criminalità, a sette...): ma la forza dei riti rende è imprescindibile. E questo è un dato!

La teologia, il diritto canonico, la pastorale, la liturgia di questo secolo XXI non possono sottrarsi a questo compito.



[1] G. Bonaccorso, I riti ci cambiano a modo loro, in Rivista di Pastorale Liturgica (2024), n. 363, pp. 2-3.

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