"Chi ama non dimentica". Controllare o immergersi nei riti?
Custodire la tradizione non significa ridurre a funzione i riti: i riti non si controllano, si tutelano perché siano il "centro di ogni azione" e la fonte di "ogni pensiero". I moralismi, i progetti pastorali, i dogmatismi, le dottrine possono chiudere i riti in funzioni riducendo al fede a "pensiero razionalizzato". Ma la fede questo non lo permette...
Il “mio” contesto immediato
Col quarto
scudetto, a Napoli si è vissuta la tensione quasi immediata tra quello che è
reale e quello che è vero: per ore la tifoseria napoletana (che possiamo
tradurre anche con “tutta la città”) si è vista come in “tensione” per ciò che
“sarebbe potuto accadere”. Una tensione “escatologica”, che, cioè, era
nostalgia di un futuro imminente e possibile. Non racconto qui le varie scene
di cui pure sono stato testimone dal pomeriggio di ieri. E mi scuso se, da
teologo, sfrutto la mia “napoletanità”: ma un teologo che non pensa in contesti
rischia di pensare senza testa proponendo solo pretesti moralistici.
Allora
scrivo ora: e scrivo di ciò che è palese. Il fenomeno del tifo raggruppa. Anzi,
il tifo, vissuto in rito, crea senso, struttura, attira, forma comunità,
instaura intersoggettività inedite…
Tifo, rito e liturgie
Giovani,
vecchi, gruppi, famiglie, turisti “lontani”, si riconoscono in un’unica azione.
Ora è
chiaro: il rito può essere anche deviato. Il rito è in sé ambiguo. Ma la forza
dell’azione rituale rimane.
Allora ecco
il dato fenomenico che diventa questione fenomenologica: perché le liturgie non
attirano? Perché le liturgie stancano? Perché le liturgie nostrane diventano
più forze centrifughe che centripete?
Per molti
liturgisti la risposta è semplice: i riti funzionano perché usano le emozioni,
le dirigono, le fomentano, le convogliano… cosa mancherebbe dunque alle nostre
liturgie? La capacità di far emergere l’emozione; anzi, molti riti spengono le
emozioni sotto la coltre e la fuliggine dei moralismi e dei razionalismi più
articolati. Se poi la preoccupazione degli “addetti ai lavori” è se l’acqua del
battesimo deve o no toccare la fronte anziché i capelli del battezzando (come
si legge in un commentario di diritto canonico in lingua inglese…), allora è
chiaro che i nostri giovani, le nostre famiglie, i nostri anziani avranno poco
da danzare e molto poco da sognare.
La forza dei riti
I riti cambiano prima ancora che tu ti accorga che ti hanno cambiato. Significa che i riti ci immergono in comportamenti col ritmo, con le percezioni, coi sentimenti e coi pensieri, prima ancora che i pensieri possano essere “puri”.
In altre
parole, il rito è immersivo (nota definizione cara a Giorgio Bonaccorso). Il “tifo”
dimostra palesemente che anche i “riti non-religiosi” dettano comportamenti tendendo
a cambiare gli individui e i gruppi. La ambiguità permane: e questa è un’altra
evidenza del rito. Ma la forza rimane più evidente del rito stesso.
Eppure,
spesso, si ha come la sensazione che dopo una celebrazione liturgica nulla sia
cambiato: constatiamo così l’inefficacia e addirittura l’inconsistenza di
quelle liturgie che sono ammantate troppo di moralismi, di parole dottrinali,
di divieti e regole, mentre avremmo bisogno di canti che ci facciano respirare
all’unisono, di poetiche attrattive, di narrazioni contemplative.
Cosa fare? È
possibile cambiare i riti? Scrive Giorgio Bonaccorso: “Non è forse perché
proprio quando li filtriamo attraverso il nostro controllo, per ottenere dei
mutamenti, perdono la loro efficacia e la loro consistenza? Se ti chiedi come
ti cambiano i riti, la prima cosa da tener presente è che i riti non ti
cambiano come vuoi tu. Non sono strumenti di un progetto… Più l’individuo, la
comunità e la chiesa trasformano i riti in strumenti e più essi risulteranno
incapaci di trasformare l’individuo, la comunità, la chiesa. Non avranno più
nulla di sorprendente perché sottoposti a un controllo che non accetta
sorprese, non saranno più efficaci perché gestiti da un progetto che ha già
deciso quale debba essere la loro efficacia”.
E continua: “imparare
dal rito per celebrare il rito non significa altro che imparare da come il rito
si inscrive nelle trame delle azioni umane. Ed è proprio su questo punto che
emerge l’ampio investimento di energie umane, come suoni, gesti, parole,
immagini, spazi, tempi, emozioni, sentimenti. La razionalità (etica,
filosofica, teologica) deve aiutare ad evitare deviazioni, non a reprimere
quelle sensazioni ed emozioni che fanno del rito un’esperienza viva e vivace”[1].
Anche questo è un compito attuale della teologia del XXI secolo: passare dalla razionalizzazione del rito e dalla funzionalizzazione pastorale dell’azione liturgica alla formazione alla fede nei riti, e alle realizzazioni di liturgie “rituali” sempre più tendenti a investire le emozioni prima che le teste. Quelle vengono dopo. Chi è immerso in azioni rituali "non dimentica" e inizia ad "amare". Vero è che i riti sono ambigui e ambivalenti (come nel caso di riti di iniziazione alla criminalità, a sette...): ma la forza dei riti rende è imprescindibile. E questo è un dato!
La teologia,
il diritto canonico, la pastorale, la liturgia di questo secolo XXI non possono sottrarsi a questo compito.
[1] G. Bonaccorso, I riti ci cambiano a modo loro, in Rivista di Pastorale Liturgica (2024), n. 363, pp. 2-3.
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