Le tre “f”: folla, festeggiamenti e fede


 


 

Il rito ha una forza tutta sua. Stentiamo a comprenderlo. Ma facciamo tutti quanti parte di società che fanno uso di “riti”. Anche lo sport ha i suoi riti. La trance da stadio è stupida; ma snobbare il tifo può esserlo ancora di più.

 



 

Umberto R. Del Giudice

Gli eventi dei prossimi giorni, gli scambi con gli alunni (anche quelli di fede calcistica non partenopea ai quali ho scherzosamente promesso un “due”), mi hanno condotto ad una riflessione personale che qui condivido con piacere e, direi, con spirito profondamente sportivo. 

La tendenza ad intellettualizzare tutto, può farci perdere un’occasione di formazione e di educazione. Se ben indirizzata, anche la festa per uno scudetto può essere educativa.

 Gli studi antropologici hanno ormai chiarito che i rituali sono fondamentali per la costituzione, il mantenimento e il cambiamento dei gruppi e delle società o dell’ingresso in status di partecipazione sociale[1] pur conducendo prima ad una certa “liminalità”[2]. Essi creano strutture, ordine, contesti e per questo creano anche significati.

 In fondo, i rituali creano contesti e processi di simbolizzazione e costruzione delle identità sociali e, così, anche di quelle individuali[3].

 

Il rito come dato imprescindibile anche per i “giochi”

Classificare i rituali non è semplice. Sono tanti e di diversa natura (riti di passaggio, rituali di iniziazione, rituali stagionali, rituali sociali, rituali di non-conformazione e, tra i più diffusi, rituali di interazione).

In ogni caso, i rituali offrono un orizzonte e un contesto per le azioni performative: si crea con ciò che si fa, soprattutto attraverso le emozioni collettive.

 In questi giorni, in cui la “trance” collettiva per il posizionamento nel campionato di Calcio italiano di Serie A sta offrendo spettacolo e perplessità, non riesco a non pensare cosa potesse mai accadere negli anfiteatri romani soprattutto in relazione ai giochi romani, ai gladiatori, alle corse.

Folla osannante, scommesse, partiti, zuffe… Ce lo ricordano soprattutto Marziale e Giovenale. A tutto questo si aggiungeva anche la curiosità femminile: le donne “sospiravano” nel vedere la prestanza fisica di molti “eroi”. In un graffito murale di Pompei (il CIL IV, 4379) un gladiatore è definito “suspirium puellarum” (sospiro delle fanciulle).

Gli autori poi ci ricordano che gli spettatori dei giochi ippici si distinguevano in “partiti” secondo diversi colori: “rossi”, “verdi” e “azzurri”, e non mancavano tra loro risse.

 Tacito ci ricorda che a Pompei nel 59 d.C., ci fu una grave zuffa. Egli scrive:

 «Nello stesso lasso di tempo per lievi motivi scoppiò un conflitto feroce tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei a proposito d’uno spettacolo di gladiatori, offerto da Livineo Regolo che, come ho già detto, era stato espulso dal Senato. La gente, con la mancanza di freni tipica di quelle città, incominciò con lo scambio di ingiurie, poi passò alle pietre, e finirono con l’impugnare le armi; ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, dove aveva luogo lo spettacolo. Di conseguenza molti dei Nucerini tornarono nella loro città il corpo coperto di ferite, la maggior parte piangendo la morte di figli o di genitori. Il principe deferì il giudizio sul fatto al Senato, il Senato ai consoli; poi la cosa tornò ai Padri Coscritti e ai Pompeiani furono vietate per dieci anni riunioni del genere; e le loro associazioni, create illegalmente, furono sciolte. Livineo e quanti altri avevano provocato quell’incidente furono puniti con l’esilio»[4].

 Insomma, zuffe, lotte, omicidi, daspo: c’era già tutto.

 Tutto questo perché i riti portano a identificarsi nell’eroe, nel racconto, nell’evento fondante. In questo senso, la “disputa” agonistica sul campo, può diventare, e purtroppo diventa, anche un “conflitto” reale. Si è come trasportati con forza a sentirsi pienamente partecipi di questo o quel giocatore, questa o quella squadra. È questo a causa della dinamica della “mimesi rituale”.

 Dobbiamo misconoscere la “mimesi”? se lo facessimo non avremmo capito nulla neanche dei rituali religiosi. Se volessimo, per assurdo, “sopprimere” la partecipazione mimetica, dovremmo abolire ogni rituale religioso compresa, per i cristiani, l’eucaristia. Senza mimesi rituale l’eucaristia può cedere il posto all’insignificanza reale, sebbene venga concesso un significato intellettuale. E la soppressione della partecipazione mimetica da parte del “popolo dei fedeli” (per dirla con terminologia preconciliare) ha portato nella storia a devozionismi, intellettualismi, lasciando che si moltiplicassero intanto i rituali devozionali.

 

Quali “f”?

Qual è il punto?

Le famose tre “f” di Ferdinando di Borbone (“festa, farina e forca”…) dettate dalla politica tiranna, nel rito possono lasciare il posto ad altre “f”: folla, festeggiamenti e fede.

È possibile concordare queste tre realtà? Non è facile, ma possibile, a patto che la folla non si deresponsabilizzi dei festeggiamenti e che questi non siano d’ostacolo per la reale libertà personale.

 La prima idea chiara credo sia la seguente: i rituali non si possono sopprimere.

La seconda però va subito aggiunta: bisogna formarsi nei rituali e coi rituali.

E ogni occasione è utile. Formarsi significa liberarsi dalle dinamiche collettive per autodeterminarsi: dai cortei in memoria della Festa della Repubblica a quelli per i Fridays for Future, dalle processioni per la Via crucis ai pellegrinaggi alla Mecca, dalla preghiera quotidiana alla celebrazione eucaristica, ogni rito ha bisogno di formazione.

 Da qui una terza idea: non si può partecipare con la stessa intensità a tutto.

Saper distinguere educazione democratica da tifo sportivo, e presenza civile da partecipazione religiosa, è fondamentale.

La differenza la fa non solo l’intensità, l’intenzione, le raccomandazioni, la preparazione, ma soprattutto dal sapere distinguere, guidare e “usare” la carica emotiva allo scopo di autodeterminarsi e di radicare la propria autodeterminazione.

Il rituale da solo mi sconvolge, mi ordina, mi indirizza, mi educa[5]. Ma quanto io mi faccia prendere dal rituale dipende solo da che senso voglio dare alla mia azione, “qui e ora”.

 Era troppo lapalissiano Seneca che considerava ogni intrattenimento “ozioso”[6]. Ma in realtà, egli, da bravo romano, percepiva i riti e i giochi solo in relazione ad un soggetto: la folla. La vera distinzione nel rito è la mimesi partecipativa, che coinvolge nell’emozione collettiva, e la mimesi assimilatrice[7], che dipende da “chi vuoi essere”.

Ed è evidente che la vittoria di un trofeo non ti renderà un uomo più libero, ma solo più divertito.

Il tifoso, per essere tale e per rimanere cittadino civile, sa che partecipa emotivamente a un evento collettivo ma sa anche che la propria libertà e la propria identità non è legata alla “folla” ma al profondo sé. E la propria radicale identità non si gioca con uno scudetto (vinto per la bravura di altri…). L’equilibrio sta in una remota domanda: “chi vuoi essere”. In essa ogni rito cerca una risposta o ne determina una. Ma il rito ti apre le porte; il resto lo puoi e lo impari a dare tu. Se ci facessimo determinare solo dai riti collettivi (dalla folla) saremmo molto poveri.

Il cristianesimo è una fede che presenta le dinamiche della religione: in esso il rito è insopprimibile purché sia salvaguardata la distinzione tra aggregazione e partecipazione, tra folla e sequela.

 

Rito dello sport e rito della fede: inconciliabili?

Snobbare il tifo sportivo e non comprendere la forza collettiva dei riti, può essere dannoso anche per le pratiche religiose. Una persona “religiosa” sa che essere un tifoso equilibrato comporta la distinzione tra emozione collettiva (utile ma sempre ambigua) dalla mimesi partecipativa. Solo la seconda può condurre ad una certa libertà. E nel cristianesimo solo la memesi antisacrificale è liberatoria[8].

Ciò non toglie che un sano tifo è sempre piacevole: crea identità e costruisce gruppo. Purché questo non diventi “folla”.

Anche per questo, un buon tifo e la partecipazione ai giochi, senza “vizi” (come voleva Seneca), senza apprensione e conflittualità viscida (come raccomandava San Francesco di Sales)[9], possono aiutare interi gruppi a fare un passo verso la possibile libertà, non contro qualcuno (lo scudetto del Napoli sarebbe rivendicazione sociale del Mezzogiorno), non per il piacere della sconfitta altrui, né per l’identità di un gruppo sociale (che a Napoli, purtroppo si sta anche rivelando con i festeggiamenti che porranno quartiere contro quartiere), ma immagazzinando belle emozioni.

Ma tutto questo solo se si è veramente capaci di farlo. L’educazione ai riti e alle emozioni rituali è un compito che va assunto tanto nell’ambito civile quanto in quello rituale: e le due cose non possono essere semplicemente distinte, perché le dinamiche del rito non lo permettono. Bisogna che ciascuno ricomprenda i riti come luogo di educazione delle emozioni: e la fede in questo può far tanto. Anzi, per lungo tempo i riti religiosi “ufficiali”, i “credenti intellettuali”, e i “fedeli radical chic” hanno dimenticato che la sola intellettualizzazione dei riti comportava il rischio di vedere i riti religiosi deserti o snobbati: così la fede si nutre di sole pie riflessioni senza trasformarsi mai in sequela esistenziale.

In realtà, i riti non consentono l’oblio di se stessi. In questa prospettiva, ogni occasione dev’essere buona per educare ma soprattutto per capire che le emozioni non possono essere soppresse, anche nei riti religiosi poiché non c’è radicalità senza essere emozione, non c’è conoscenza senza passione, non c’è estetica senza immersione [10].

Cogliere i riti come luoghi di crescita e lasciare che anche i riti religiosi parlino nelle emozioni. In fondo, nessuna “fede” è tale se è solo pensata: la fede c’è quanto la si “fa”…

La ricomprensione della forza dei riti può condurre tutti ad una valutazione dei festeggiamenti o alla capacità di “fare festa” la domenica, allo stadio e in chiesa, con le dovute distinzioni ma lasciando che il rito parli nelle emozioni.

Così il rituale del gioco allo stadio, il tifo, la partecipazione consapevole ad una festa possono andare d’accordo con una buona autocoscienza responsabile e cristiana.

  



[1] Cfr. A. van Gennep, Les rites de passage, 1909.

[2] Cfr. V. Turner, The Ritual Process. Structure and Anti-Structure, 1989.

[3] Cfr. E. Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, 1959.

[4] «Sub idem tempus levi initio atrox caedes orta inter colonos Nucerinos Pompeianosque gladiatorio spectaculo, quod Livineius Regulus, quem motum senatu rettuli, edebat. quippe oppidana lascivia in vicem incessente[s] probra, dein saxa, postremo ferrum sumpsere, validiore Pompeianorum plebe, apud quos spectaculum edebatur. ergo deportati sunt in urbem multi e Nucerinis trunco per vulnera corpore, ac plerique liberorum aut parentum mortes deflebant. Cuius rei iudicium princeps senatui, senatus consulibus permisit. Et rursus re ad patres relata, prohibiti publice in decem annos eius modi coetu Pompeiani collegiaque, quae contra leges instituerant, dissoluta; Livineius et qui alii seditionem conciverant exilio multati sunt». Tacito, Annales, 14, 17.

[5] Cfr. A. Grillo, Riti che educano. I sette sacramenti, 2011.

[6] «1. Mi chiedi che cosa secondo me dovresti soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora affidarti a essa tranquillamente. Quanto a me, ti confesserò la mia debolezza: quando rientro non sono mai lo stesso di prima; l'ordine interiore che mi ero dato, in parte si scompone. Qualche difetto che avevo eliminato ritorna. Capita agli ammalati che una prolungata infermità li indebolisca al punto di non poter uscire senza danno: così è per me, reduce da una lunga malattia spirituale. 2. I rapporti con una grande quantità di persone sono deleterî: c'è sempre qualcuno che ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca a nostra insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il rischio. Ma non c'è niente di più dannoso alla morale che l'assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano più facilmente attraverso i piaceri. 3. Capisci che cosa intendo dire? Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura più crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini». Seneca, Lettere morali a Lucilio, VII, 1-3.

[7] Cfr. R. Girard, Deschoses cachées depuis la fondation du monde, 1978.

[8] Cfr. U.R. Del Giudice, Mimesi sacrificale ed assimilazione liberatrice. Sviluppi teologici delle istanze antropologiche di Girard e di quelle filosofiche di Mancini, in Rivista di Letteratura e di Storia Ecclesiastica, Anno XXIII (2017/2), pp. 67-89.

[9] Cfr. Francesco di Sales, La Filotea, Cap. XXXII. In questo capitolo, il Santo vescovo ginevrino riflette sul gioco che non dà gioia se non vinci e che diviene perverso poiché si gioisce per mezzo della sconfitta e del dispiacere dell’avversario.

[10] Cfr. G. Bonaccorso, L’estetica del rito. Sentire Dio nell’arte, 2013.




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