“Uso di ragione”, Codici e modelli interpretativi

 



Partecipazione come “stato mentale” e partecipazione come processo affettivo e simbolico tra i due Codici

 




Umberto Rosario Del Giudice


 

Partecipazione e paradigma conciliare

Nel suo libro Eucaristia, che appare come uno studio approfondito, fondamentale e ormai indispensabile per la sacramentaria del XXI secolo, Andrea Grillo rimanda ad almeno quattro affermazioni-chiave del Concilio Vaticano II intorno alla liturgia eucaristica. Mi soffermerò brevemente sul terzo punto che vorrei leggere parallelamente al testo codiciale.

Grillo afferma che la partecipazione attiva «affida ai “riti e preghiere” una funzione di mediazione corporea della salvezza. L’esperienza della comunione non è anzitutto “mentale”, ma “procedurale”: la sequenza rituale – non lo “stato d’animo” – è al centro dell’esperienza ecclesiale»[1].

Il passaggio operato dall’assise conciliare afferma dunque il superamento della “preoccupazione” intellettuale e mentale in favore di un modello di condivisione simbolico-affettiva (e quindi comunitaria) in cui l’esperienza della interazione e di ministerialità (nella differenza) diventa fondamentale per la partecipazione alla liturgia eucaristica. Mi sembra che questa dinamica sia in linea con l’abbandono di una certa devotio che voleva (e doveva) prediligere una forte soggettivizzazione individualistica della “comunione eucaristica” in un’epoca in cui l’eucaristia era solo “un affare da preti”. Una tendenza che stagna ancora nel linguaggio comune (come ho tentato in parte di evidenziare qui) e nel linguaggio codiciale.

 

Il linguaggio del Codice: l’uso di ragione

Vorrei brevemente soffermarmi sull’aspetto codiciale che rimanda immediatamente ad un linguaggio e ad una precomprensione di teologia sacramentaria[2].

Il Codice di Diritto canonico in proposito offre un articolo interno sulla “partecipazione alla santissima Eucaristia” (Libro IV, Titolo III, Cap I, Art. 2, cann. 912-923).

L’Articolo (che nel Codex sta per “argomento” o “sezione”) è diviso in varie tematiche che normano l’ammissione alla sacra comunione (cann. 912-914), la partecipazione condizionata (censure e disposizioni previe, cann. 915-916), la partecipazione quotidiana reiterata (can. 917), la comunione dentro e fuori l’azione liturgica (can. 918), il digiuno eucaristico (can. 919) l’obbligo di comunicarsi almeno una volta l’anno, durante il tempo pasquale o altro (can. 920) la partecipazione in pericolo di morte e il viatico (cann. 921-922) e la possibile comunicatio in sacris (can. 923)

Credo sia opportuno soffermarsi sul dettato dei cann. 912-914 che sembrano delineare un’impostazione prettamente intellettuale. Il rimando, in questi canoni, è all’uso di ragione[3].

Il dettato rimanda al can. 854 del precedente Codice (del 1917) il quale faceva riferimento tanto all’uso di ragione quanto alla sufficiente disposizione che il parroco doveva accertare per ammettere alla “sacra Sinassi”[4].

Si noti che il nuovo dispositivo pone principalmente in capo ai parentes (ai genitori), e a chi ne fa le veci, il dovere della preparazione.

Ma ciò che va ricordato e non taciuto è il modello antropologico ed ecclesiologico che si presuppone ai due Codici. C’è un linguaggio simile (uso di ragione) che però deve fare i conti con un rimando “costituzionale” del Diritto canonico, ovvero al Concilio Vaticano II. Tra i due Codici (quello del 1917 e quello del 1983) non ci sono solo circa sessant’anni di differenza ma c’è anche un modo diverso di pensare quel “uso di ragione”, poiché i presupposti antropologici ed ecclesiologici sono diversi. Non più un “uso di ragione” che è specchio solo della propria responsabilità nei vari atti (umani) e che sono frutto di intelligenza e volontà. Quella “ragione” va formata con e nei “riti” e con e nelle “preghiere”. È questo il dato di quella “partecipazione attiva” che non può essere ridotta ad un atto “interiore” né “intellettuale”.

Anche per Tommaso d’Aquino, sebbene ordinata all’intelletto e alla volontà, la ragione non rimane del tutto disgiunta dalla “percezione personale” che laquinate riconduce allarticolata riflessioni sulle passioni” (cfr. Summa Theologia, I, II, 22-48). A queste facoltà fondamentali la Sacrosanctum concilium fa indirettamente corrispondere anche il contesto attuale dell’azione liturgica che forma. Essa è l’esperienza della sinassi nell’attiva partecipazione immersiva e comunitaria, e che non è un atto mentale.

D’altra parte, la dimensione intellettiva, e quindi volitiva, non è avulsa dalle dinamiche relazionali: le neuroscienze, e non solo, stanno lì a ricordarcelo[5]. Le emozioni e quindi i riti, le preghiere, la gioia condivisa, la memoria immersiva diventano dimensioni cognitive fondanti e fondamentali.

 

Linguaggio tecnico, interpretazione e innovazione

Il Codice usa un linguaggio limitato che va interpretato. D’altra parte, il Codice non può e non vuole “fare teologia”. Nel caso dei canoni relativi alla partecipazione, infatti, quel “uso di ragione” rimanda immediatamente alla sola capacità (giuridica) di porre atti responsabili (e che nel Codice di presume a sette anni, cfr. can. 97 §2) ma che per la partecipazione attiva alla liturgia (e alla eucaristia) non può ridursi solo alla capacità minima di distinzione intellettiva tra “pane comune” e “pane eucaristico”. Se si coglie il dato antropologico (e diremmo personalistico, ma non solo) dell’approccio conciliare, quel “uso di ragione” rimanda anche alla capacità emotiva ed affettiva di “partecipare” alla lode, alla fede e alla memoria dell’assemblea che celebra. Nelle dinamiche dell’azione rituale, infatti, la partecipazione apre all’inizio della “ragione” e, dal punto di vista della fede, ha inizio l’uso di ogni speranza. Non è una questione secondaria poiché è in questa prospettiva che si deve evitare di leggere il Codice senza il Concilio.

D’altra parte, per riprendere le parole di Grillo, col Concilio «il modello di partecipazione “interiore”, che ancora Mediator Dei considerava normativo, viene superato e al suo posto subentra un modello di “interazione”»[6] ed è in questa interazione intersoggettiva dei celebranti che si entra e si cresce nell’intelligenza (anche emotiva) della fede “intesa e voluta”.

Il Codice non può dire tutto questo: si limita (e si deve limitare) a usare linguaggi tecnici; e sarebbe un grave errore interpretativo se col linguaggio tecnico si volesse comprendere la tradizione e non viceversa.

Tuttavia, intorno alla locuzione “uso di ragione”, una chiarezza ulteriore, e alla luce della teologia e dei dati scientifici, sarebbe più che auspicabile per evitare tanto interpretazioni “strette” quanto per evidenziare il superamento del solo atto mentale e soggettivo della partecipazione. Se è vero che i “disabili mentali” «ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna»[7] è anche vero che questa dimensione intersoggettiva è comune a tutti i fedeli. E questo fa parte delle indicazioni conciliari di cui il Codice non può non tenere conto.

 

 



[1] A. Grillo, Eucaristia. Azione rituale, forme storiche, essenza sistematica, Brescia 2019, 379.

[2] Prendo in considerazione solo il Codex Iuris Canonici poiché il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium rimanda essenzialmente alle disposizioni delle singole Chiese sui iuris.

[3] Qui il testo del Codice del 1983: «Can. 912 - Ogni battezzato, il quale non ne abbia la proibizione dal diritto, può e deve essere ammesso alla sacra comunione.

Can. 913 - § 1. Per poter amministrare la santissima Eucarestia ai fanciulli, si richiede che essi posseggano una sufficiente conoscenza e una accurata preparazione, così da percepire, secondo la loro capacità, il mistero di Cristo ed essere in grado di assumere con fede e devozione il Corpo del Signore.

§ 2. Tuttavia ai fanciulli che si trovino in pericolo di morte la santissima Eucarestia può essere amministrata se possono distinguere il Corpo di Cristo dal cibo comune e ricevere con riverenza la comunione.

Can. 914 - È dovere innanzitutto dei genitori e di coloro che ne hanno le veci, come pure del parroco, provvedere affinché i fanciulli che hanno raggiunto l'uso di ragione siano debitamente preparati e quanto prima, premessa la confessione sacramentale, alimentati di questo divino cibo; spetta anche al parroco vigilare che non si accostino alla sacra Sinassi fanciulli che non hanno raggiunto l'uso di ragione o avrà giudicati non sufficientemente disposti».

[4] Il testo del can. 854 §5a nel Codice del 1917: «Parocho autem est officium advigilandi, etiam per examen, si opportunum prudenter iudicaverit, ne pueri ad sacram Synaxim accedant ante adeptum usum rationis vel sine sufficienti dispositione».

[5] Cfr. ad es.: A. Damasio, Sentire e conoscere. Storia delle menti coscienti, Milano 2022.

[6] A. Grillo, Eucaristia, 379.

[7] Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale: Sacramentum caritatis, n. 58 (numero che riprendeva la propositio 44).




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