Un mese di Traditionis custodes
Ad un mese dalla pubblicazione della Lettera apostolica motu proprio data, Traditionis custodes è opportuno riprendere alcune questioni che riguardano l’attualità e il futuro della Chiesa. È un argomento in cui le sommarie generalizzazioni sono deleterie: contrapporre “tradizionalisti” e “progressisti” appare come un’ambigua quanto meschina propaganda che blocca l’utile e schietta riflessione comune. Il rito è azione performativa, è norma normata e fa parte di un patrimonio con il quale la Chiesa vuole percorrere il III millennio, e le indicazioni sono chiare: bisogna migliorarle non rimuoverle.
Umberto Rosario Del Giudice
Un mese fa è stata pubblicata la Lettera apostolica, entrata
in vigore e avente forza di legge immediata e sottratta alla vacatio legis (ex can. 8 §1 CIC), con
la quale il Sommo pontefice emanava disposizioni sull’uso della liturgia romana
anteriore alla riforma del 1970 (Vetus Ordo = VO). Ho già scritto alcune brevi riflessioni sul motu
proprio, sull’obrogazione
e sul rito
vigente, ma ad un mese dalla pubblicazione/promulgazione della Lettera
apostolica motu proprio data Traditionis custodes (TC) è giusto e
opportuno riprendere qualche spunto di riflessione anche perché solo chi vive chiuso
nella “propria parrocchia” o senza “respiro latino” o chi non coglie la portata
della questione liturgica contemporanea può non accorgersi di
quanto siano state importanti le decisioni del Papa e che altri non hanno
esitato a chiamare “bufera”
pur facendone solo una questione di “politica vaticana”, ma che non è solo
politica: è vita, spiritualità, fede; è patrimonio ecclesiale.
In questi trenta giorni, vi sono stati molti interventi: chi
volesse riprendere o approfondire alcuni temi, troverà sul blog di
Andrea Grillo articoli che spiegano bene i termini della questione e quale sia
la posta in gioco. In modo particolare, va ripreso e letto l’ultimo post dal
titolo Il
sacro è immutabile? Il presunto principio che R. Sarah ha imparato da J.
Ratzinger.
L’intervento del Papa, a ben vedere, riporta al centro quale
sia il significato del sacro e del rito e quale sia per la Chiesa
cattolica del III millennio la portata dottrinale, spirituale e giuridica
della liturgia. Le pratiche ecclesiali non sono indifferenti alla fede
cristiana, mai[1].
Nella consapevolezza che ci sarà bisogno di ulteriore
sviluppo sistematico, ragiono sulle qualità del rito e sulla TC: dal punto di
vista liturgico-ecclesiale se TC pone questioni anche per gli altri
rituali, oltre la Messa, connessi al VO; dal punto di vista teologico
se il rito ha un carattere giuridico-disciplinare;
dal punto di vista giuridico se un rito può essere abrogato e in
che modo.
Non solo “missa”: altri rituali, Istituti religiosi e indulti per uso VO
TC non ha espresso una disposizione solo sull’uso del
Messale ma anche sui rituali in genere: «i libri liturgici promulgati
dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del
Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito
Romano». TC, dunque, non si riferisce solo al rituale per il Messale ma a
tutti i libri liturgici promulgati in relazione alla Riforma i cui
principî sono quelli del Concilio Vaticano II.
E cosa
succede negli Istituti di vita consacrata eretti dalla Commissione Ecclesia
Dei (ED) col riferimento esplicito all’indole in continuità con il VO? L’art.
6 ricorda che quegli Istituti, a suo tempo eretti dalla ED passano sotto la
competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società
di Vita Apostolica (CVCSVA). La competenza di questa Congregazione si riferisce
alla natura, al fine, allo spirito e all’indole, così come alle sane
tradizioni, che costituiscono il patrimonio dell’Istituto (cfr.
can. 578). Sarà compito della CVCSVA stabilire i limiti e le potenzialità di
queste forme di vita rispetto alla continuità con i principî del Concilio Vaticano II,
ovvero con la vita e la santità della Chiesa (cfr. can. 207 §2).
Spetterà,
invece, alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (CCDDS)
analizzare singoli casi per l’uso del Messale del 1962 come anche dei rituali per
i singoli Istituti.
Fermo
restando che, se l’Istituto è di diritto diocesano, queste competenze passano
all’Ordinario del luogo il quale deve sentire il parere delle rispettive
Congregazioni competenti.
In ogni
caso, i singoli fedeli, se hanno beneficiato a suo tempo di particolare indulto
ad personam per usare rituali precedenti a quelli del Concilio Vaticano
II, ivi compresi il breviario, dovranno richiedere speciale dispensa (ex can.
85) poiché l’art. 8. di TC afferma che «le norme, istruzioni, concessioni
e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal
presente Motu Proprio, sono abrogate». Anche in questo caso, la dispensa è
da chiedere al Vescovo diocesano il quale, non potendo presumere la concessione
della CCDDS[2], dovrà consultarla (ex
art. 4 TC; cfr. can. 87 §1).
L’art. 2 completa e stabilisce che l’uso del Missale
Romanum del 1962 è sottoposto alle disposizioni dell’Ordinario del luogo
che dovrà seguire gli orientamenti della Sede Apostolica, ovvero seguendo le
disposizioni dei paragrafi dell’art. 3. È chiaro che sono esclusi gli altri rituali
l’uso dei quali sarà sottoposto eventualmente a speciale indulto.
Al §4
dell’art. 3 vi è una disposizione illuminante: «è necessario che il sacerdote
incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma
la cura pastorale e spirituale dei fedeli». Non è cosa di poco conto poiché si
ribadisce che anche l’uso del Messale del 1962 debba sottostare ai principî
generali della Riforma liturgica conciliare: in questo caso, infatti, la
“partecipazione attiva” (concetto non ideale ma reale quanto performativo) è
indice di un rito pensato come celebrazione comune e non come devozione. Se il
sacerdote dovesse celebrare per propria devozione con il Messale del 1962 senza
curarsi della ricaduta sull’assemblea dell’uso di quel rituale, incorrerebbe in
un uso illecito. Che si debba stare attenti alla “crescita
spirituale” e non solo alla “devozione affettuosa e personale” dei singoli è
ribadito al § 5 dello stesso articolo.
Il carattere giuridico-disciplinare del rito
L’azione liturgica oltre ad essere evento immersivo
e intersoggettivo, è azione normata e, per questo,
non è mai “indifferente” o “anonima”. La stessa “norma” sottrae l’azione
rituale alla indifferenza, al soggettivismo e all’individualismo: ma è anche
vero che un’azione rituale (e molto più la liturgia cristiana) non è mai a-normata.
Il rito è ordo, è norma. Questo la Chiesa l’ha sempre saputo
anche se lo ha elaborato in modo solenne nel Concilio di Trento, per l’aspetto
sacramentale, e in modo più articolato nel Concilio Vaticano II, per l’aspetto
giuridico-disciplinare. Al tempo stesso, il rito sottrae alla sola forma
giuridica e custodisce quella libertà che la legge non può donare: il rito,
comune immersione nell’evento attraverso la narrazione simbolica e dinamica che
ripresenta i celebranti all’evento originario, è, per questo, forma prescrittiva.
Il
Concilio Vaticano II ha ribadito che «regolare la sacra liturgia compete
unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e,
a norma del diritto, nel Vescovo» (SC, 22, n. 1). È chiaro che la disciplina
liturgica richiede potestà di governo legislativa che ha il
compito/dovere di assicurare e offrire leggi e rituali chiari e generali.
L’autorità riceve, custodisce i riti e decide la loro forma.
Nel 2004 fui invitato da un Vescovo a presentare il nuovo
Rito del matrimonio. Alla fine della presentazione un anziano (e caro)
presbitero pose la lapidaria domanda, ovvero se, per propria abitudine, avesse
usato dopo il 28 novembre 2004 il Rito precedente, i matrimoni fossero stati
validi. La simpatica domanda un po’ capziosa mirava a svilire quasi tutto il
lavoro della “recognitio”.
Dovetti rispondere, Vescovo presente, che sarebbero state celebrazioni illecite
ma validissime.
Questo episodio mi ha chiarito due fattori: la tendenza a
semplificare i fatti (complessi di per sé) e la assuefazione a ragionare
giuridicamente sui riti. Proprio questo tipo di ragionamento mette a nudo l’impostazione
secolare di un’apprensione positivistica sui riti: se c’è materia e se c’è
forma (anche se illecita) il sacramento è valido. Ma ciò che la scienza
liturgica va ripetendo da anni è che la forma è anche sostanza, al di là del
“giuridicamente lecito/valido”.
Se questo episodio mira a semplificare i fatti mette in
evidenza un’altra questione: nella tradizione della Chiesa i riti, almeno dal
VII secolo, sono stati considerati come sacro immutabile per sé, ragion
per cui non vi è stata mai la necessità di giustificarne la promulgazione né vi
era la moderna spinta del “diritto oggettivo”. Il Concilio di Trento non si
occupò molto della questione della dimensione giuridica in sé e oggettiva dei
riti ma ribadì solennemente quali fossero i sacramenti (sette, non meno e
non più) e che erano stati “istituiti da Cristo”[3]:
da questa impostazione nacque una notevole percezione rubricistica dei
riti che fu affrontata e corretta tra XIX e XX secolo (ovvero dal primo
movimento liturgico).
A questa deriva rubricistica molti fanno riferimento quando
sviliscono la dimensione giuridica del rito: in realtà il rito è di per sé
azione normata; il rito è autoperformatività dal punto di vista normativo ma richiede
un’autorità legislativa che la ratifichi in quanto “ordo”. Qui la novità del
Concilio Vaticano II. Dopo gli anni ’60, infatti, c’è stato un continuo rimando
alla parola “ordo” per tutto ciò che era regolamentazione per assemblee
e/o convegni. E anche tutti i rituali sono stati chiamati “ordo”… Questo dato
chiaro esprime la volontà del legislatore a porre una disciplina che
riorganizzasse tutta la normativa in materia, per la qual cosa vi è abrogazione
(o obrogazione, se in forma indiretta) di ogni rituale
precedente.
L’abrogazione di un rito
Molti commentatori richiamano l’attenzione su una questione:
il rito non può essere abrogato poiché la sua validità rimane in
perpetuo.
Da quanto esposto sopra dovrebbe essere chiaro che ogni
Chiesa sui iuris, come quella latina-occidentale, ha il diritto di
legiferare circa i riti (le altre forme del rito latino, come quello
ambrosiano, pur se hanno particolarità proprie, non formano Chiesa sui iuris,
cioè non hanno autonomia per patrimonio liturgico, giuridico
e spirituale…).
Chi
però sostiene che i riti non si possano revocare rimanda, direttamente o
indirettamente e più o meno in modo inconsapevole, ad una dichiarazione del
Concilio di Trento per il quale «la Chiesa ha sempre avuto il potere di
stabilire e mutare nella distribuzione dei sacramenti, salva la loro
sostanza, quegli elementi che ritenesse di maggiore utilità per chi li
riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti, a seconda delle
circostanze, dei tempi e dei luoghi»[4].
Dal
punto di vista canonico emerge un dato: la promulgazione in perpetuo dei
libri liturgici riguarda la sostanza non la forma; non è vero che
nessun papa, sebbene non legato ad altra potestà, non possa riformare i riti:
l’immutabilità riguarda eventualmente la “illorum substantia”, ciò che
il Concilio ha ritenuto “immutabile” perché di “istituzione divina” (SC 21): la
sostanza, ovvero, l’immutabilità riguarda l’istituzione divina. Ora è
noto che le forme dei rituali non godono della “ex
divina institutione”.
Sul
fatto poi che il Messale del 1570 sia stato promulgato in perpetuo è la motivazione fondamentale
per alcuni che dichiararono che un rito non possa essere abrogato. Ma è proprio
vero il contrario: nella forma ogni rito è riformabile di fatto e di diritto e
questa è un’idea nitida della scienza (storico-)liturgica e del diritto
liturgico a partire dal XX secolo. Se, da una parte, il rito si incarna nella
tradizione dottrinale, dall’altra, al “concedere per sempre” va giuridicamente sottointeso,
“dones aliter provideatur”. Se non fosse così il papa e i
suoi successori sarebbero limitati nella potestà che invece rimane ordinaria,
suprema, piena se condivisa col Collegio dei Vescovi (ex can. 336 CIC) oltre che immediata e universale per il
Romano Pontefice stesso (ex can. 331 CIC).
E sulla
materia liturgica vale quanto stabilito per ogni legge e ordinamento. Il can.
6, n. 4 recita, oltre a tutte le leggi precedenti, sono abrogate «tutte le
altre leggi disciplinari universali riguardanti materia, che viene ordinata
integralmente da questo Codice», e nella fattispecie il rimando è al
can. 838 §§ 1-2[5].
Sic stantibus rebus, è su coloro che dicono che il rituale del Missale 1570 non
sia stato mai revocato (direttamente o indirettamente) che ricade l’onere della
prova (ex can. 1585).
Patrimonio della Chiesa latina e III millennio
Se
qualcuno pensa che ciò che ho scritto è prevalentemente per tecnici, pensa
bene.
Se
qualcuno crede che le questioni qui sollevate siano irrilevanti perché c’è
qualcosa di più importante, pensa male, molto male.
La
Chiesa latina-occidentale del III millennio o rinasce dal patrimonio proprio o
rischierà sempre di più di rimanere indifferente per molti e fucina di estremismi
per altri.
Non a
caso, molti sostenitori di una certa “spiritualità” sono anche vicini ad
ambienti sovranisti o a circoli politici e imprenditori deviati. Su questo fronte
molto si gioca non solo in Europa ma anche nel nord America. E alcuni
ecclesiastici sono strumentalizzati a favore di questi giochi di potere.
La
tradizione che la Chiesa latina-occidentale vuole conservare riguarda la
propria indole, il proprio patrimonio. E su tutte, la tradizione fondamentale
che va conservata a tutti i costi è quella carità che fa ogni cristiano (e non
solo ogni prete) un sacerdote che intercede, che prega, che lavora, che opera
affinché tutta l’umanità si riconosca nella fratellanza, umana e cristiana. Per
questo cristianesimo di base del III millennio la forma liturgica
non è irrilevante, anzi: è nell’azione e nella formazione liturgica che i
cattolici sapranno superare i miti e diventare una “stola che serve l’umanità”.
E per fare questo ci vuole una forma liturgica che sappia proporre una
dottrina, una spiritualità e una tradizione non clericalista, non
soggettivista, non individualista e non amartiocentrica.
Il
Messale attuale è la forma che può comunicare le energie della tradizione ai
fedeli che oggi sono chiamati ad essere custodi non del cattolicesimo
nostalgico ma di quello che si rende espressione di una fede viva, di un’umanità
amata dal Signore fino al sacrificio, in cui, con la forza dello Spirito del
Risorto, si donano.
Il rito
normato, dunque, non è solo forma. È dottrina di vita. Non accetta abusi
modernistici, puerili e pressapochistici come non accetta ambiguità
devozionistiche, nostalgiche e rubricistiche di quei drappi, di quelle stole,
di quei paramenti autoritari e sfarzosi di cui la Chiesa ha già voluto
scrollarsi di dosso il peso per affrontare il presente e il futuro di questo
III millennio.
Non è
poco; non è irrilevante; non è solo forma.
[1] Cfr. R. Tagliaferri, Pastorale liturgica e
altre pratiche della fede, Padova 2018.
[2]
Poiché non è più difficile ricorrere alle Congregazioni competenti e la forma
vigente del rito pone un nuovo quadro amministrativo non esistente prima, la
presunzione del can. 87 §2 appare non sussistere [«Quando sia
difficile il ricorso alla santa Sede e insieme nell'attesa vi sia pericolo di
grave danno, qualunque Ordinario può dispensare validamente dalle medesime
leggi, anche se la dispensa è riservata alla Santa Sede, purché si tratti di
una dispensa che la stessa Santa Sede nelle medesime circostanze solitamente
concede, fermo restando il disposto del can. 291»].
[3] Cfr. Concilio di Trento, Sessione VII
(3 marzo 1547), [omissis].
[4] Cfr. DS 1728 [omissis].
[5] «§1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall’autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano. §2. È di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale, pubblicare i libri liturgici e autorizzarne le versioni nelle lingue correnti, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate fedelmente ovunque».
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