L’efficacia sacramentale e rito vigente: non solo opportunità

 

 

Il Diritto liturgico segue la logica della “legge generale”. Se da una parte c’è la efficacia sacramentale, dall’altra c’è validità giuridica insieme a liceità. Ritenere che “giuridicamente” i riti non possono essere mai revocati (direttamente, indirettamente, parzialmente), e, nella fattispecie, affermare che il rito della Messa del 1962 non sia stato obrogato, non è corretto. Se, da una parte, la Chiesa sa che “lo spirito soffia dove vuole”, dall’altra la comunione e l’efficacia sacramentale sono date in forme rituali che non sono mai irrilevanti per la tradizione stessa.

 



Umberto Rosario Del Giudice

Si sente spesso questa obiezione: se i riti sono stati validi fino al Concilio Vaticano II e se con quei rituali si sono formati tanti santi, non possono essere assolutamente “invalidi” oggi.

Si ripresentano anche queste affermazioni: i riti non possono mai essere abrogati, non possono mai cessare d’essere.

Tento una risposta mettendo insieme questioni sacramentarie e canonistiche.

 

Esperienza e sacramento

Per affrontare la questione della “validità dei riti” bisogna porre due questioni puntuali: da una parte, l’efficacia sacramentale di un’azione rituale in quanto ordinata alla comunicazione intersoggettiva tra il dono di grazia e chi celebra; dall’altra, la validità/legittimità giuridica dell’uso e della forma di un rituale.

Cosa ne pensa il Codice di Diritto canonico? È possibile fare una distinzione tra queste due realtà, una, diremmo, sacramentale (in senso intensivo, esperienziale) e l’altra della forma rituale (ordinaria e giuridicamente valida/lecita)?

Affermative

Il Codice conosce bene la distinzione tra forma rituale (valida, lecita, ordinaria) e assenza di forma rituale nonostante vi sia possibilità di sacramento.

Un esempio: il Matrimonio.

La forma rituale del matrimonio è (già col decreto tridentino detto Tametsi) ad validitatem. Ciò significa che se non si segue la forma rituale prescritta il matrimonio è invalido, ovvero nullo. Ma, qui la grande capacità flessibile del Diritto canonico, può essere chiesta la sanatio in radice con la dispensa dalla forma cosicché il matrimonio è valido anche canonicamente dal momento in cui è stato contratto anche senza la prevista forma rituale (cfr. CIC can. 1161, §1-2).

Altri esempi: sacramenti dell’iniziazione e della guarigione.

Se un cattolico ha necessità, a determinate condizioni, può partecipare alla Divina Liturgia e alla Santa Comunione celebrata dagli ortodossi (cfr. CIC can. 844, § 2 e CCEO can. 671, § 2) e può anche confessarsi con un sacerdote ortodosso o ricevere da quest’ultimo il sacramento dell’unzione (cfr. Direttorio ecumenico, 123). C’è bisogno che i riti usati in questo caso siano promulgati dalla competente autorità cattolica? Ovviamente no. Eppure l’effetto sacramentale permane al di là della forma.

Cosa dimostra tutto questo?

La disciplina della Chiesa cattolica riconosce, con grande lungimiranza e attenzione, che l’incontro del singolo fedele con l’azione/presenza della Trinità, tra esperienze dei singoli e dono di Dio, sfuggono in modo inesorabile alla dimensione giuridica.

Per questo motivo, chi sostiene che i riti antichi sono sempre “validi” non commette un errore dal punto di vista della teologia sacramentale. Potremmo sintetizzare questa realtà con le parole del testo evangelico: «il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8).

Allo stesso modo, sono “efficaci sacramentalmente” tutti i rituali dal primo secolo ad oggi compreso il Messale di Pio V anche nella sua ultima (e non unica) edizione del 1962.

Ma allora la validità giuridica è solo una preoccupazione amministrativa ed è irrilevante?

 

La forma vigente del rito e la tradizione cattolica

La forma rituale ordinaria non è un di più rispetto all’esperienza che la Chiesa fa dei sacramenti e dona nei sacramenti. Il rito non ha una forma, ovvero l’Ordo, solo per capriccio estetico o esteriore. La forma non è mai semplicemente “esteriore”. È vero che in passato più che oggi vi sono stati più riti, ma erano (e sono) articolazioni dello stesso rito. Il rito è forma ed è forma dottrinale: come può esservi una irrilevanza rituale e/o giuridica delle forme? Al contrario, l’irrilevanza della forma rituale è contro la sana tradizione. Questo emerge chiaramente non solo dal disposto di TC ma da tutta la tradizione cristiana (e non solo cattolica). La forma rituale è parte del depositum fidei poiché nell’esperienza liturgica forma e dottrina si toccano irrimediabilmente. Maurice Festugière affermava:

«la liturgia contiene la parte di gran lunga più importante del deposito della fede. Si trovano in essa tutte le verità dogmatiche e un certo numero di proposizioni, o vicine alla fede, o teologicamente probabili; il disegno generale della storia della salvezza del genere umano anteriore a Cristo; tutti i principi della morale e dell’ascesi […]. La liturgia è lo strumento più nobile del magistero ordinario della Chiesa»[1].

Per questo motivo, la Chiesa non può ritenere irrilevanti le forme liturgiche. Da qui la necessità di fissare il rito ordinario, ovvero vigente e unico.

 

Forma, dottrina e costituzione della Chiesa

Il Concilio Vaticano II ha voluto superare, dal punto di vista liturgico e non solo, la precedente tendenza a mettere in risalto le prescrizioni rubricistiche, pensando a una nuova forma rituale con presupposti totalmente innovativi. Ne ricordo alcuni.

Il modello cristologico per il quale la “presenza di Cristo” non è legata solo alle specie eucaristiche ma a tutte le azioni sacramentali e alle forme di preghiera liturgica, una “presenza” quasi del tutto sconosciuta precedentemente in un rito attento al devozionismo e al rubricismo. Il concetto di partecipazione attiva che mette al centro il battesimo e rende responsabili tutti i fedeli del popolo di Dio, sia pure nella diversità dei ruoli. La necessità di superare una teologia amartiocentrica a favore di una nuova valorizzazione dell’idea di sacrificio che non è un ripensamento del carattere sacrificale della Messa ma è un ricalibrare dal punto di vista principalmente cristologico ed ecclesiologico non solo il concetto di sacrificio in sé ma la realtà di appartenenza a Dio nell’unico sacrificio di Cristo, nel battesimo e secondo il sacerdozio comune.

Queste ed altre indicazioni conciliari fanno parte della dottrina e sono riproposte in ogni parte della forma rituale non come semplice espediente ma realtà necessaria alla vita della Chiesa del III millennio. La forma vigente e canonicamente valida e legittima non è irrilevante ma è quella che prevede il Diritto liturgico perché è quella che la Chiesa, almeno fino ad ora, riconosce in linea col proprio magistero. Altre forme rituali sono (giuridicamente) una deroga, e non solo alla liturgia ma alla sensibilità, alle indicazioni del Concilio Vaticano II. La forma rituale vigente non vuole misconoscere un Ordo Vetus né le esperienze rituali e personali. La Liturgia del Concilio Vaticano II vuole aiutare la Chiesa a superare clericalismo, individualismo, devozionismo, soggettivismo anche se spesso paga lo scotto di una formazione liturgica “vetera” ormai cristallizzata nella memoria inconscia del cristianesimo postmoderno e che impedisce un uso bello della forma “nova”. Il limite non sta nel rito nuovo ma nella incapacità di usarlo con atteggiamento comunitario vivo e nelle prospettive teologiche e pastorali del Concilio: questo limite è proprio uno dei frutti della vecchia sensibilità liturgica costruita per secoli con l’Ordo Vetus parallelamente ad un modello di Chiesa perfecta et inegualis..

Il Diritto liturgico non conosce dunque solo questioni di “validità sacramentale”. Il Diritto liturgico sa che è a servizio della Chiesa che vuole sempre più autocomprendersi nella scia delle indicazioni conciliari per essere sempre più se stessa. Ragionare solo dal punto di vista intrinseco ai riti in modo anacronistico, è una forma di positivismo giuridico che tanto il Diritto canonico quanto il Diritto liturgico sono ormai in grado di scrollarsi da dosso. Se si pensa ai riti come non revocabili si cade nell’errore di valutare i riti nell'ambito dell’immediato trascendentale e si relativizza la mediazione liturgica: ciò che la tradizione non ha mai fatto e che il Diritto liturgico non può fare.

Ecco perché il rito vigente (dal punto di vista giuridico, ovvero anche ecclesiale e pastorale) è uno, e tutti gli altri, per la Chiesa latina, sono revocati (direttamente o indirettamente). Tutte le altre forme si sciolgono nella storia della Chiesa apportando al presente la propria luce ma essendo definitivamente superati e non validi (se non dal punto di vista dell'esperienza spirituale e sacramentale in senso estensivo), non leciti (dal punto di vista giuridico) se non per deroga. Il rito (dalla Messa alla Liturgia delle Ore) è uno perché una è la dottrina ordinaria del Magistero secondo il Concilio Vaticano II. E non è solo forma; non è solo rito; è dottrina per l’oggi e per il domani.

Questo il Diritto liturgico lo sa.

 



[1] M. Festugière, La liturgia cattolica,[omissis].



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