Il rito “non abrogato” è “obrogato”? Quando un solo iota cambia la liturgia

 



In questi anni si è detto di tutto sul vigente rito della Messa e spesso neanche le Congregazioni sono venute in aiuto alla comprensione dei dati giuridici. C’è chi vuole mantenere l’ambiguità, chi evita di metterla in luce e chi, e sono tanti, dimenticano alcune caratteristiche del diritto canonico. Il Rito della Messa vigente è uno, ed è sempre stato uno, fin dal 1969.



 


Umberto Rosario Del Giudice

 

Nel 1984 è stato permesso l’uso del messale pubblicato nel 1962 (prima del Concilio Vaticano II): un’edizione rivista che, all’indomani del Concilio Vaticano II e dal 1969[1], divenne difatti un Ordo passato, un Vetus Ordo (VO). L’unico Ordo vigente rimaneva quello promulgato nel 1969 e obbligatorio dal 1970[2], oggi alla sua terza edizione tipica (1969, 1975 e 2002) e che qualcuno continua a chiamare, forse impropriamente, Novus Ordo (NO), lì dove però “novus” sta per “rinnovato”, “riformato”, “ultimo”: ma di Ordo ce n’è solo uno, quello vigente. Com’è noto al fine di assicurare una certa unità ecclesiale, fu permesso, con diverse forme, l’uso contestuale di due Rituali in una sorta di “stato di eccezione” della Liturgia. Le ragioni della necessità di superare lo “stato di eccezione” rituale con Traditionis custodes (TC) sono state esposte nella lettera di Presentazione del motu proprio. Ho già ripreso molto brevemente le ricadute giuridiche di TC che segnano anche il periodo di nuova opportunità per la partecipazione liturgica. Ora però vale la pena riprendere alcuni dati giuridici e fare un po’ di chiarezza.

 

Riflessioni serie e reazioni nostalgiche

In questi giorni non sono mancati interventi preziosi a seguito dei numerosi dubbi che pure sono emersi in questi ultimi quattordici anni, ovvero dalla pubblicazione di Summorum pontificum (SP) che aveva esteso a tutti i sacerdoti e i gruppi la facoltà di uso del VO. In modo particolare, Andrea Grillo ha ricordato (in continuità con ciò che ha sempre scritto e proposto) come lo “stato di eccezione” fosse un’esperienza “fragile e astratta dal punto di vista teorico, pericolosa e ingestibile dal punto di vista pratico” e da cui ripartire per una (vera) “pax liturgica”; ha ricordato anche che l’uso del VO riproponeva la fragilità di considerare l’“abuso” come il problema centrale della liturgia che scaturiva da alcune premesse che vanno superate per la partecipazione attiva come già auspicava Von Balthasar, il quale, al di sopra di ogni sospetto, considerava necessario l’atto riformatore del Concilio, come, tra l’altro, ricorda oggi papa Francesco. All’indomani della pubblicazione di TC lo stesso Andrea Grillo proponeva una ricognizione utile, necessaria e chiara, che riporta i dati giuridici e teologici alla loro verità ragionando su “I confini del Vetus Ordo”.

Non manca chi, con una vena di totale licantropia autoritaria, ostenta contrarietà commentando amaramente la pubblicazione della TC ma mettendo insieme di tutto: approcci dogmatici[3] e questioni giuridico-positiviste[4] ma senza mai entrare nel merito delle questioni più per propri limiti ideologici che per mancanza di discernimento pastorale.

 

Una tradizione immutata anche se diversa

In ogni caso, è chiaro che la pubblicazione della TC fa ormai da spartiacque: la continuità della riforma voluta dal Concilio non può essere disattesa. Che poi la Riforma liturgica non sia solo una questione di “estetica rituale” ma di “sostanza dottrinale” è ormai chiaro a tutti. D’altra parte, fu lo stesso Giovanni XXIII a ricordare che, se le “rubriche” del Breviario e della Messa (perché di rubriche si trattava!) andavano subito aggiornate, era indispensabile che «generalem liturgicam instaurationem respicientia, in proximo Concilio Oecumenico Patribus esse proponenda» (ovvero che principi fondamentali relativi alla riforma liturgica dovevano essere proposti ai Padri dell’imminente Concilio)[5]; in quell’Assise, infatti, vennero sanciti i principi della Riforma liturgica e riletti “costitutivamente” (con le quattro costituzioni) la natura della Chiesa, delle sue azioni, del suo credere. Aspettare l’Assise conciliare: questo, il “Papa buono”, lo scriveva nella Lettera apostolica con cui rieditava la sesta edizione tipica del Messale pubblicato nel 1570 da Pio V, il VO, appunto. Giovanni XXIII lo sapeva: non è solo questione di “forma” ma anche di “dottrina” e di come la si pensa, la si propone, la si vive. Non a caso l’ultimo, attuale e unico Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) si apre con un chiarimento e con la riaffermazione della “natura sacrificale della Messa” e ricorda, citando le parole di Pio V, che bisogna guardare al passato immediato, rispettare la dottrina attuale ma anche rivalutare le “origini” così che ci si accorge che lo Spirito Santo accorda «al popolo di Dio un’ammirevole fedeltà nel conservare immutato il deposito della fede, per quanto varie siano le preghiere e i riti» (OGMR, 9).

Dal Concilio, dunque, la Chiesa guarda e si guarda, comprende e si comprende in modo diverso: e non è solo forma.

 

E se il VO non è mai stato “abrogato”?

 La TC nella sua brevità non concede, e a ragione, alcuna distinzione tra forma “ordinaria” e forma “extraordinaria” del rito, né argomenta sulla liceità o meno della celebrazione secondo il rito del VO. Tuttavia, nella lettera di Presentazione di TC, è citata SP nella parte in cui si afferma che il Messale del 1962 non sia stato mai abrogato. Secondo SP, infatti, la «Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato» si poteva ritenere «come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa». Ma perché SP dichiara che il VO non è mai stato abrogato? E perché, se non è mai stato abrogato quel rituale c’è bisogno di considerarlo “forma extraordinaria”? È facile capire che “extraordinaria” non significa “eccellente”, “geniale”, “fuori dalla normalità”; quella forma deve essere intesa come “fuori dalla norma”, nel senso di “non ordinario”, “præter Ordo”, ovvero semplicemente non vigente. E come può un rito essere non vigente se non “abrogato”? E se è vigente perché non abrogato, perché c’è bisogno di un atto del Legislatore per poterlo usare in modo lecito?

Qui il sofisma giuridico, che ha tratto in inganno moltissimi e che ha lasciato molti perplessi (me compreso), non è stato molto chiarito e ricordato, anche se, e non si può pensare diversamente, i vari consultori, a partire da quelli che formarono la Commissione in previsione della pubblicazione della Quattuor abhinc Annos (1984) e presieduta dal preciso canonista e cardinale Alfons Maria Stickler, sapevano bene ciò di cui parlavano, e conoscenvano il valore tecnico-giuridico delle parole che usavano. In realtà, il Messale del 1962 non fu “abrogato” ma “obrogato”. Una semplice vocale, come un iota (tra i segni più piccoli della grafia della lingua aramaica/ebraica), ha un forte peso.

 

La logica giuridica della revoca o cessazione di una legge

Una legge generale può cessare o essere modificata, del tutto o in parte, in vari modi. Quando il legislatore modifica, rettifica o revoca una legge, con l’autorità riconosciutagli dal diritto, interviene in modo estrinseco alla legge e lo può fare con tre forme di revoche: revoca parziale, revoca diretta e revoca indiretta.

La prima forma è la deroga ovvero la cessazione parziale del dettato normativo vigente; la seconda forma è l’abrogazione ovvero la totale cessazione della legge precedente con dichiarazione diretta del testo da revocare da parte del legislatore stesso; la terza forma, ormai difatti sconosciuta al diritto civile più nella terminologia che nella fattispecie, è la revoca implicita della legge precedente e si chiama, con un cambio di vocale che forse solo i giuristi latini potevano apprezzare, obrogazione.

I romani conoscevano queste e altre distinzioni articolate[6] è il diritto canonico le ha fatte sue. Con la Codificazione del 1917 la classificazione è rimasta ed è stata semplificata nel CIC del 1983 ove, in ogni caso, è presente in alcuni canoni del testo ufficiale pur perdendosi nelle traduzioni (almeno così in italiano).

 

Una sola lex, un solo Ordo

Se i canonisti hanno detto e dicono che il Messale del 1962 non è stato mai abrogato, hanno dunque ragione: l’edizione del Rito della Messa del 1962 fu promulgata con Motu proprio e faceva riferimento ad un Messale del 1570 pubblicato con una Bolla pontificia[7]. Né il Motu proprio né la Bolla sono citate come direttamente soppresse nella Costituzione apostolica del 1969 di Paolo VI; tuttavia in questa Costituzione (Missale Romanum) si legge chiaramente: «Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere in contrario nelle Costituzioni e negli Ordinamenti Apostolici dei Nostri Predecessori e in altre disposizioni anche degne di particolare menzione e deroga»[8]. Tanto basta per obrogare le predecenti disposizioni. E' poi palesemente ambiguo, per la certeza del diritto stesso, che le leggi possono essere revocate e i riti no.

Dunque, poiché non ci fu menzione dei documenti con i quali le precedenti edizioni del messale precedente furono pubblicate, non ci fu revoca diretta e dunque non vi fu “abrogazione”; al contrario, ci fu chiaramente, e per tutto il Rito della Messa, una revoca indiretta (che i canonisti accorti chiamavano e chiamano “obrogazione”), anche per il peso di fonte giuridica che una Costituzione ha rispetto ad un Motu proprio o una Bolla nel “riordinare integralmente tutta quanta la materia della legge precedente” (ex can. 20 CIC)[9]. Insomma, quel rito fu revocato; cessò di essere parte dell’Ordo.

A ragione, dunque papa Francesco ha ribadito non solo che vi è una sola “lex orandi” ma anche un solo Ordo, com’è sempre stato.

Insomma, di Ordo ce n’è uno, tutti gli altri son… soppressi,e già dal 1969.

Non serve altro. Per ora.

 



[1] Ovvero con la pubblicazione della prima edizione tipica del Messale romano.

[2] Cfr. Missale Romanum ex decreto sacrosancti oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum [omissis].

[5] Cfr. Ioannes PP. XXIII, Littera apostolice motu proprio: Rubricarum instructum [omissis].

[6] « Lex aut rogatur, id est fertur, aut abrogatur id est prior lex tollitur, aut derogatur, id est pars primæ legis tollitur, aut subrogatur, id est adicitur aliquid primæ legi, aut obrogatur, id est mutatur aliquid ex prima lege» [omissis].

[7] Quo primum tempore [omissis].

[8] Omissis.

[9] Omissis.


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