Dalla “obsecundatio” al “privilegium”. Sul Rito romano
Dalla “obsecundatio” al “privilegium”.
Rito romano tra diritto dei fedeli e stato d’eccezione liturgico-giuridico
Se è vero che «una teologia che ragioni solo “ex
auctoritate”, che dica “c’è una legge che lo prescrive”, non è una teologia
degna di questo nome» (A. Grillo) è altrettanto vero che un diritto canonico
che cerchi la verità delle cose sono nella validità, più che una disciplina è
un servizio al dogmatismo, “ni plus ni moins”; col risultato di una
Chiesa che non si comprende ma che si abbandona al “vivere così”.
Una sommaria ricostruzione può aiutare ad autocomprendersi
nella Chiesa e con la Chiesa, senza lasciarsi vivere.
[Hans Jean Arp, Objects Arranged According to the Law of Chance, 1930]
Umberto R. Del Giudice
Introduzione
In questa comunicazione vorrei illustrare lo status quæstionis circa la
forma del rito romano. Devo ammettere che lo studio è pensato per un pubblico
misto composto tanto di tecnici quanto di non addetti ai lavori. I destinatari spero
trovino qualche utilità per comprendere meglio l’intreccio che oggi appare tra questione
liturgica, questione giuridica e questione ecclesiale. Questi
ambiti della fede, strettamente collegati, appaiono a molti un po’ confusi
anche a motivo delle pratiche e della prassi ecclesiale. Ritengo che ogni
fedele abbia il diritto di farsi una propria opinione intorno alla vita della
Chiesa, al di là della “validità” giuridica di qualche norma. La sola “validità
giuridica” può poggiare su condizioni che confondono pregiudizialmente la
verità della realtà: e si sa che nel diritto può esistere una “verità
processuale” che non concordi con la “verità reale”. Ma quando i “dubbi” sono
tanti, anche la “verità processuale” va quantomeno ripercorsa. Per fortuna che
la questione liturgica che viviamo non è una “verità processuale”: eppure mentre
sussiste una cerca “validità” i dubbi sono tanti, permangono e si accrescono.
Aggiungo che l’occasione di esporre lo stato della questione
giuridico-liturgica mi è data anche dalla mia adesione alla lettera aperta
circa lo stato di eccezione della liturgia (LASEL)[i] a cui rimando. Questa
lettera mette in evidenza i limiti dell’attuale situazione liturgica a partire
dagli ultimi decreti emanati nel mese di marzo e rimanda alla insoluta questione
liturgica “extraordinaria”[ii]. Su tale circostanza è
già stato scritto anche dal punto di vista canonistico (come ha fatto il prof.
Consorti)[iii].
Aggiungo un’esposizione dei dati canonistici di massima con personali
considerazioni del caso, da liturgista e canonista.
Di cosa si tratta.
Per capirci: quando i cattolici latini celebrano
l’eucaristia nel rito romano usano il rituale promulgato nel 1970 (la messa
delle “nostre parrocchie”).
Da qualche tempo nella chiesa cattolica di rito romano (la “nostra”,
ovvero la più diffusa in Italia, per capirci) è permesso celebrare anche col
rito precedente all’attuale: e questo in tutto il mondo dove la Chiesa
cattolica è presente come tradizione di rito romano.
Questa situazione, determinata da anni di concessioni e
privilegi giuridici, ha dato origine al seguente principio: “vi è un solo rito
(romano) con due forme (rituali)”.
A chi scrive appare che questo “principio” non solo non sia
concorde con la natura del rito in sé e con la tradizione ma che oggi sia un
ostacolo all’autocomprensione ecclesiale e che la “validità giuridica” di
alcune norme non seguono, non custodiscono e non promuovono più la vita della
Chiesa.
Si tratta di un lento movimento che ha mosso i primi passi
da un “indulto” (ovvero un’eccezione alla regola), è passato per “normalità”,
ed è finito per diventare una prassi legittima addirittura apprezzata in vari
ambienti ecclesiastici, un vero “privilegio” considerato tale sia sul
piano soggettivo che oggettivo. Dal punto di vista del “privilegio” ciò
significa che la celebrazione in una forma “altra” rispetto a quella
“ordinaria” è una concessione fatta ai singoli e ai gruppi (piano soggettivo) ma
elargita perché considerata giusta in sé (piano oggettivo).
Dunque, ecco la tesi di fondo: da una eccezione concessa
(sottoforma di indulto) per mantenere la comunione ecclesiale si è passato ad
un principio generale di “doppio uso di un solo rito”, soggettivo e
oggettivo.
Procediamo a piccoli passi: i “tecnici” mi scuseranno se indugio
su alcuni principi generali che credo però siano importanti da condividere con
la massima forma di divulgazione. In realtà, le questioni tecniche potranno
dire molto a tutti.
I paragrafi 1 e 2 sono pensati per disegnare il contesto
storico della riforma conciliare e liturgica. I paragrafi successivi sono più
tecnici dal punto di vista canonistico. Il lettore saprà orientarsi secondo le
necessità.
1.
Quale “messa” per quale Chiesa
Da qualche anno esiste la possibilità di celebrare anche in
un’altra forma che viene detta generalmente “la messa in latino”[iv]. In realtà non si tratta
della “messa in latino” ma di un rito promulgato nel 1962 (prima del Concilio
Vaticano II) e immediatamente affine, tranne piccole modifiche, al rito del
1570 promulgato da papa Pio V: questa forma di celebrazione, dunque, sarebbe
meglio chiamarla “messa tridentina”.
Non è una questione di lingua (latino o italiano), giacché
anche nel rito del 1970 (la “nostra messa”) potrebbe essere impiegata la lingua
latina.
Il problema è della forma rituale oltre che della lingua
usata[v].
La “messa tridentina” (detta anche Vetus Ordo = VO,
perché rimanda ai rituali precedenti la riforma liturgica) custodisce una forma
privatistica della messa, dove i “fedeli” (ovvero gli astanti tranne il celebrante
e gli altri ministri/anti, per dirla col vecchio linguaggio) assistono alla
celebrazione. La forma della “messa tridentina”, se colta nella sua genesi, è
un apprezzabile tentativo di introdurre in modo devozionale alla preghiera
condivisa nella eucaristia: ma questo poteva andar bene tra XV e XIX secolo,
ovvero per un periodo in cui la Chiesa guardava all’eucaristia e alla liturgia
in genere, come un fatto riservato ai chierici. Non va dimenticato che il VO
nasce dal primo pontificale a stampa (1485) che a sua volta deve molto
all’opera di Guglielmo Durando (1295) il quale mette insieme spiegazione
allegorica e cultura giuridica. La vera preoccupazione di Durando è mostrare in
modo allegorico il rimando e il legame continuo tra valore giuridico e natura
simbolico-liturgico dei riti. È su questi principi che si basa lo stesso Messale
del 1570, ripreso fino al 1962.
Va detto subito che, cambiata la percezione della Chiesa,
ciò che sembra attirare oggi verso questo tipo di ritualità è un senso del
“mistero” e del “sacro” spiritualistico, inteso nella sua forma quanto più devozionistica
e sacralistica. Insomma: “consacrare tutto” ritenendo “tutto negativo in
sé”.
Ma soprattutto va notato che il VO rimanda a forme
che non recepiscono le riforme del Concilio Vaticano II che pure ci hanno
aiutato a vivere la fede in questi ultimi sessant’anni di Chiesa: una forma
ecclesiale nella quale molti, come me, sono nati.
Possiamo sintetizzare le caratteristiche della mentalità
conciliare in questi brevi elementi: per il Concilio Vaticano II l’assemblea è
centrale; non si assiste ma si celebra tutti insieme; la lingua volgare fa
parte della necessità antropologica e pastorale di chiara comunicazione e
partecipazione; assemblea e presidente compongono un solo corpo: dunque, altare
al centro; l’assemblea è presieduta: dunque sede; il canto assembleare come
azione corale dell’unico corpo celebrante; valorizzazione del sacerdozio comune
(o battesimale); dinamiche rituali che coinvolgono tutti: appelli/risposte come
dinamica intersoggettiva; la celebrazione è sempre vivificata dalla sacra
Scrittura: dunque l’ambone come presenza di Cristo e seconda mensa (insieme
all’altare). Queste ed altre caratteristiche furono e sono alla base
dell’azione liturgica attuale (cfr. Sacrosanctum Concilium, 47-57; poi SC),
elementi indispensabili alla stessa autocomprensione ecclesiale. Tuttavia, per
entrare nella mens di questi elementi c’è bisogno di abbandonare ogni
forma di affanno, angoscia, rimorso, rimpianto per leggere serenamente il
quadro storico da cui scaturì la stessa riforma liturgica ed una nuova
autocomprensione della Chiesa[vi]: ma gli affetti
nostalgici sono l’ostacolo più grande al sereno intendimento.
In ogni caso, ciò che appare importante per la nostra
riflessione, a partire dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, è la
certezza che tanto l’intelligenza della fede quanto le dinamiche dell’approfondimento
spirituale siano radicate nella celebrazione, ovvero nell’azione liturgica
considerata come culmine e fonte delle azioni della Chiesa (cfr. SC,
10). Elemento che viene tradotto con “partecipazione attiva” che è la consapevolezza
di ogni battezzato di far parte del “sacerdozio di Cristo” (cfr. SC,
14).
Per la riforma liturgica è chiaro che con l’azione rituale si
favorisce, si sostiene, si realizza la fede. La stessa Chiesa che vuole cambiare
se stessa, inizia proprio dall’azione liturgica: «Il sacro Concilio – infatti –
si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di
meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono
soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i
credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno
della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della
riforma e della promozione della liturgia» (SC, 1).
Ora veniamo al rito in sé, alla forma e alle questioni
giuridiche connesse.
2.
Questioni giuridiche: dal Concilio al motu
proprio
Per cogliere bene le occasioni mancate e per una sommaria
verifica, bisogna ripercorre la parabola riformatrice, e quindi giuridica, che
ha investito il rito romano negli ultimi sessant’anni. Questa è una necessità che
coinvolge tutti al fine di sostenere al meglio la comunione ecclesiale della
Chiesa cattolica latina nel rito romano.
Ripercorriamo dunque alcune tappe.
È indubbio che la competente autorità ecclesiastica abbia
promulgato una forma (propria e valida) per il rito romano che è uno dei riti
della Chiesa latina (insieme a quello ambrosiano e quello mozarabico,
due riti conservati per l’uso antico e appena modificati in relazione alle
novità dettate dal Concilio Vaticano II).
Come accennato, il Concilio Vaticano II con la costituzione Sacrosanctum
Concilium del 4 dicembre 1963 (SC) ha introdotto la Chiesa nella
cosiddetta riforma liturgica.
Annotiamo subito un dato: quello del Vaticano II è stato il
Concilio che ha visto il più alto numero di partecipanti in tutta la storia
della Chiesa (circa 2450).
Si pensi che l’assise più affollata prima del Concilio
Vaticano II è stata quella del “Laterano IV” (1215) che contava 404 padri e
circa 900 tra abati e abadesse (quest’ultimi associati ai signori feudatari),
mentre il Vaticano I (1869-70) vide 764 “protagonisti” e il Concilio di Trento
contava fino a 255 presenze nelle sessioni più affollate.
Per dare un ulteriore dato basterà qui ricordare che la Sacrosanctum
Concilium è stata la prima delle costituzioni approvate dal Concilio
Vaticano II con 2147 voti favorevoli e 4 contrari; basta questo per capire le
proporzioni della questione e l’incisività delle decisioni: 2147 vescovi che
danno il loro beneplacito ad un documento non sono cosa da poco né evento
ricorrente nella storia della Chiesa. Il Concilio ha scoperto un nuovo ordine
delle cose, nuove priorità: ha attinto dal tesoro della tradizione ecclesiale
per darsi un’identità rinnovata.
Così la riforma conciliare dette il via alle Commissioni,
ovvero Consilia. Da
una di queste (Consilium ad
exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia) fu proposto il “nuovo
rito” (Novus Ordo = NO) che fu promulgato col Messale del
1970.
Questo rito incontrò il favore di tutti i componenti del Cœtus di studio che esaminò il
nuovo rito nel 1967. Furono fatte delle annotazioni: sostanziali? Proprio no!
Le diciotto osservazioni furono di natura marginale rispetto all’impianto del
rito[vii].
Da questo quadro storico si può cogliere il clima dell’epoca
che vide nella riforma liturgica la possibilità concreta di mettere la Chiesa nella
luce di un Cristo salvatore della storia, artefice di salvezza, sostegno della
vita nel mondo, sacramento del Padre. La stessa Chiesa cattolica (che sussiste
nella Chiesa di Dio)[viii]
si comprende dunque come sacramento di Cristo nella storia dell’umanità.
Il Concilio aspira e cerca una riforma perché la comunità
ecclesiale tutta sia presenza incisiva a partire dalla celebrazione liturgica
(in particolar modo dall’eucaristia): una riforma che diventa insieme
ecclesiale, pastorale, dottrinale, liturgica, spirituale.
Insomma: tutto il patrimonio della Chiesa cattolica stava
rinnovandosi per volontà degli stessi Pastori e la messa, per il rito latino,
non era più “una schiena di prete che cambia colore di domenica in domenica”
(frase attribuita al card. Giulio Bevilacqua).
Ma la forma rituale del 1970 non fu accolta da alcuni che
vollero tornare alla forma precedente il Concilio Vaticano II. Questi fedeli
erano legati all’esperienza e all’autorità del Card. Lefebvre (il quale
ordinando altri vescovi senza il permesso della Santa Sede cadde nella
scomunica “latæ sententiæ”:
si tentò in tutti i modi di ricucire lo strappo)[ix]. Per questi ed altri
motivi, nacque la necessità/volontà di concedere un indulto per l’uso del
vecchio rito, della “messa tridentina”. Poi si arriverà ad un motu proprio
che affermerà altro.
Dunque, questo il contesto: pochi oppositori al Concilio
Vaticano II non accolgono le riforme, ovvero le nuove priorità della Chiesa.
Questo gruppo generalmente legato al card. Lefebvre viene favorito per
mantenere il bene della comunione ecclesiale.
Ma vediamo i passaggi giuridici.
3.
In principio fu Quattuor abhinc annos
La Quattuor abhinc annos è una Lettera Circolare
inviata dalla Congregazione per il Culto Divino ai Presidenti delle Conferenze
Episcopali. Riporta la data del 3 ottobre 1984[x].
Annoto subito un particolare: la lettera afferma
espressamente che sembra essere risolto «il problema di sacerdoti e
fedeli rimasti legati al rito “Tridentino”»[xi]. Secondo alcuni ambienti,
non si dovrebbe indugiare troppo sull’uso del termine “problema”. Eppure è lì:
siamo nel 1984.
In questo contesto, il papa al fine di andare incontro ai “desiderata”
di chi voleva tornare al rito precedente (obsecundare desiderans), offre
ai Vescovi la possibilità di usufruire di un indulto onde concedere ai
sacerdoti insieme ad alcuni fedeli «di poter celebrare la S. Messa usando il
Messale Romano secondo l’edizione del 1962».
Si badi che il verbo obsecundare è un termine
tecnico-giuridico e sta (in forma transitiva) per “dispensare”, “elargire”,
“accordare” un favore o privilegio avendo qualcuno chiesto l’indulgenza del “pater”,
ovvero di chi ha potestà. Dal punto di vista giuridico dunque è un atto
amministrativo (decreto singolare ex can. 48) concesso al fine di elargire
qualcosa a qualcuno (ex can. 59) e non di stabilire un diritto.
L’indulto, inoltre, è concesso a determinate condizioni, tra
cui:
a)
con ogni chiarezza deve constare anche
pubblicamente che questi sacerdoti ed i rispettivi fedeli in nessun modo
condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e
l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970;
b)
tale celebrazione sia fatta soltanto per
l’utilità di quei gruppi che la chiedono; nelle chiese ed oratori indicati dal
Vescovo (non nelle chiese parrocchiali, almeno che il Vescovo lo abbia
concesso in casi straordinari); e nei giorni e alle condizioni fissate
dal Vescovo.
La lettera si conclude dichiarando che la concessione dovrà
essere usata in modo da non recare pregiudizio all’osservanza fedele della
riforma liturgica (quella cioè voluta dalla Concilio Vaticano II).
Dunque, questi gli elementi:
1.
È il Vescovo che può richiedere indulto per
l’uso del messale del 1962.
2.
La concessione è relativa al favore elargito ad
un gruppo, sacerdote e gruppo di fedeli, ma non di una parrocchia.
3.
Che non si metta in dubbio la legittimità e l’esattezza
dottrinale del Messale del 1970.
4.
Che non si freni il cammino della riforma
liturgica.
5.
La forma giuridica è quella dell’indulto.
6.
L’indulto è concesso per favorire coloro i
quali preferiscono il “rito tridentino”: atteggiamento che nella lettera è
definito “problema”.
4.
Poi venne il motu proprio “Ecclesia Dei”
Il 2 luglio 1988 è promulgata la Lettera apostolica Ecclesia
Dei del sommo pontefice Giovanni Paolo II in forma di motu proprio
ed è, con lo stesso strumento, costituita una Commissione a tale
scopo.
Si tratta evidentemente di un “cambio di passo” già solo per
lo strumento usato.
Se prima si trattava di una lettera del Dicastero competente
che comunicava la possibilità di un indulto su richiesta del Vescovo, ora ci
troviamo davanti ad un motu proprio (Ecclesia Dei adflicta)[xii], ovvero davanti ad una concessione
che il pontefice fa di sua spontanea volontà.
Ci sarebbe già da ragionare circa la “volontà spontanea”
ovvero “propria” del Pontefice: più che una concessione sembra un’elargizione
per costrizione, viste le circostanze. È stata forzata la mano del Pontefice?
Il Pontefice nel “motu proprio” ha riversato la sua liberalità o la
convenienza/necessità pastorale? Non possiamo indugiare troppo su queste
domande. Il motu proprio è lì: eppure, bisogna riconoscerlo, non ci
sarebbe stato se qualcuno non si fosse opposto tanto da chiedere l’intervento
di eccezione del Pontefice il cui unico scopo era quello di ricucire uno
scisma.
Ma bisogna richiamare un dato davvero sostanziale.
Al n. 6 del documento si istituisce una Commissione
(che prenderà il nome dal documento stesso, Ecclesia Dei appunto) al
fine di riportare alla piena comunione ecclesiale «sacerdoti,
seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo
legati alla Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, che desiderino rimanere uniti
al Successore di Pietro nella Chiesa Cattolica».
In tale contesto alla lettera c) si annota che «dovrà essere
ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla
tradizione liturgica latina, mediante un’ampia e generosa applicazione delle
direttive, già da tempo emanate dalla Sede Apostolica, per l’uso del Messale
Romano secondo l’edizione tipica del 1962».
Dunque, il Pontefice chiede che quella Commissione faccia un
ampio uso di concessioni (indulti) in favore di coloro che si
sentivano legati alla tradizione liturgica precedente la riforma.
In qualche modo i Vescovi sono ancora “promotori” della
disciplina liturgica nelle loro diocesi: si chiede loro di associarsi,
mentre alla Commissione è chiesto di collaborare coi Vescovi.
Cosa che si traduce sostanzialmente in: “cari Vescovi rivolgetevi alla
Commissione”.
Altro dato rilevante. Si vuole “garantire il rispetto delle
giuste aspirazioni” dei fedeli legati al rito antico.
Qui il passaggio è delicatissimo poiché si vuole
rispettare il metodo fruttuoso adottato dai fedeli (cfr. can. 214)[xiii] pur facendo un “salto
di rito”.
Credo che si possa individuare qui un’altra deroga al
diritto universale.
Le “giuste aspirazioni” dei fedeli di adottare un proprio
metodo dovrebbero essere relative all’unico rito: al contrario, il Pontefice
deroga il can. 214, dichiarando “giuste” le aspirazioni oltre il rito del 1970.
Scelta delicata dal punto di vista pastorale; vera è propria
deroga dal punto di vista canonico (il Codice era già stato promulgato nel
1983).
Dal seguire un “metodo” personale per la propria vita
spirituale si passa al seguire un’altra forma di rito: ma questa concessione
non tiene conto che il cambio di rito è anche allo stesso tempo un riferimento
ad un patrimonio dottrinale diverso. E qui sta una delle conseguenze del non
comprendere fino in fondo i risvolti del “doppio uso dell’unico rito” poiché,
appare sempre più chiaro: l’uso di una forma rituale (che non è lo stesso rito)
è anche l’adozione di un’altra forma spirituale e dottrinale, quelle stesse
forme che il Concilio Vaticano II voleva rinnovare.
5.
Facoltà e attività della Commissione: alcuni
elementi
Nell’ottobre del 1988, pochi mesi dopo l’Ecclesia Dei,
con un rescritto di speciali conferimenti, furono elencate le facoltà precise delle
Commissione, tra cui quella di concedere a chiunque ne avesse
fatto richiesta l’uso del Messale 1962, informato il vescovo diocesano[xiv].
Ora, dunque, il vescovo è solo informato.
Altro dato giuridico: col motu proprio i vescovi sono
“invitati” ad associarsi; nella lettera che esplicita le competenze
della Commissione, i Vescovi sono “avvisati” nel caso in cui ci sia un
indulto nella loro diocesi.
I toni iniziano a cambiare e la competenza episcopale inizia
decisamente a scemare.
6.
Il motu proprio “Summorum Pontificum”
La questione si complica ancor più con la lettera
apostolica di sua santità Benedetto XVI motu proprio data “Summorum Pontificum”
(SP)[xv]. Tale documento autorizza
il “doppio uso dell’unico rito”.
Il dibattito su questo documento ha visto varie voci
incrociarsi[xvi].
Senza entrare troppo in alcune questioni[xvii] qui basta richiamare
alcuni dati.
L’art. 1 di SP, afferma e nega al tempo stesso. Mentre
dichiara che ha forza di diritto una forma “ordinaria” ne annette una “straordinaria”;
e recita così:
«Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione
ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa
cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e
nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione
straordinaria della stessa “lex orandi”»
Si introduce il concetto di rito ordinario e rito
extraordinario (che non significa “eccezionale” ma proprio “fuori
dall’ordinario”, fuori dalla disciplina, oltre il diritto appunto).
Questo ragionamento, al contrario di quanto aveva fatto
l’ultimo Concilio, non tiene conto che noi pensiamo così come preghiamo:
la forma della preghiera (la lex orandi) produce una forma di fede (lex
credendi). Dunque, non ci può essere continuità tra le due forme se non
quella di un “prima” (vetus) e un “dopo” (novus): e queste due
forme passano attraverso le consapevolezze ecclesiali (e costituzionali) del
Concilio Vaticano II.
Per recuperare l’esperienza dei tradizionalisti, è sembrato
utile e quasi opportuno a molti al tempo della Summorum Pontificum, forse
più per ossequio che per convinzione, che il Pontefice desse un’ulteriore
possibilità al fine di compattare la comunione ecclesiale. Ma così non è stato
e così non è: proprio l’uso del doppio rito continua a segnare solchi profondi,
distanze sempre più insormontabili sia dal punto di vista dottrinale, che
pastorale e liturgico.
Il documento afferma che le due forme sono due lex orandi
che esprimono la stessa lex credendi e si lancia in una “profezia”:
«Queste due espressioni della “lex orandi” (“legge
della preghiera”) della Chiesa non porteranno in alcun modo a una
divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono
infatti due usi dell’unico rito romano».
Pur volendo dare credito all’allora Pontefice, bisognerà
notare, ahimè, che le cose sono andate e vanno in modo molto, molto diverso.
Il doppio uso ha generato e genera una formale divisione
all’interno della Chiesa e nel patrimonio cattolico, nella sua disciplina come
nella sua forma dottrinale. Non per niente, e soventemente, chi oggi sostiene
la forma straordinaria del rito, sostiene anche forme dottrinali e spirituali tradizionaliste.
Se le forme giuridiche conservano la validità degli atti e
dell’uso del doppio rito la sola validità giuridica non traduce il vissuto
ecclesiale.
Ciò che per alcuni (pochi) sembra essere solo una
“sensibilità liturgica”, per tanti (molti) si traduce in una “sensibilità
dottrinale”. E se la sensibilità liturgica è tridentina quella dottrinale non
appoggerà certo lo sforzo del Concilio Vaticano II né tanto meno gli sforzi del
Pontefice attuale che di quell’assise è il primo “papa figlio”[xviii].
La dottrina segue sempre il culto: e questo è una delle
evidenze che sfugge soprattutto all’intellettualismo teologico. Anche se,
forse, lo stesso intellettualismo ha dovuto dimenticare questa evidenza che all’inizio
non sfuggiva. Gli stessi sostenitori della VO hanno ammesso che la dottrina
cammina di pari passo con la dimensione rituale. Negli anni ’80, uno tra
i principali intellettuali critici della riforma affermava: «i troppo solerti
riformatori moderni hanno prestato troppo scarsa attenzione a quanto, nella
coscienza dei fedeli, coincidano la dottrina di fede cattolica e certe forme di
pietà. Cambiare le forme tradizionali del culto significa per molti cambiare
fede»[xix].
Dunque, culto e dottrina non sono indifferenti: né la
dottrina può essere indifferente alla comunione giuridicamente sostenuta e
voluta dall’autorità ecclesiastica competente.
Ma procediamo.
All’art. 2 si afferma il “diritto” di ogni sacerdote, per la
celebrazione senza popolo, di scegliere tra le due forme di rito, senza
attendere o chiedere alcun permesso («Per tale celebrazione secondo l’uno o
l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della
Sede Apostolica, né del suo Ordinario»).
Così in ogni Istituto di Vita consacrata si può
celebrare nella forma del VO, come anche nelle parrocchie il parroco
può celebrare con il VO (cfr. SP, artt. 3-4-5) se un gruppo di
fedeli lo richiede. Ma il concetto di “gruppo di fedele” (stabile) è stato più
volte stranamente interpretato: quattro, tre, due e addirittura una sola unità
possono comporre quel gruppo stabile di fedeli? La risposta sembra scontata:
eppure in alcune circostanze questi numeri hanno sostituito il “gruppo”. E se
un Vescovo prova a far rispettare il diritto almeno nel suo concetto di “gruppo
stabile” qualcuno invoca l’abuso di potere[xx].
Un passaggio davvero importante è questo: dal punto di vista
giuridico di fatti i Vescovi non possono più dir niente né sulla
celebrazione dell’eucaristia senza popolo, né per quella “conventuale” né per
quella che in parrocchia saranno celebrate a partire dal solo desiderio di
qualche gruppetto di fedeli (alquanto) stabile o sul desiderio di una coppia
che voglia alcuni sacramenti (matrimonio, battesimo…) amministrati nella forma
del VO. Oltre alla celebrazione eucaristica, infatti, si associa anche
quella di altri sacramenti nella forma del VO.
Ma un passaggio sorprendente è quello poi contenuto
nell’art. 4: «Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2,
possono essere ammessi –osservate le norme del diritto– anche i fedeli che lo
chiedessero di loro spontanea volontà». Ma quali sono le norme del diritto da
osservare? Come è possibile che prima si dica che la messa è senza popolo, poi
però si può assistere? In realtà questo è possibile solo se si pensa ad una
celebrazione della messa che vede come unico attore il prete: tanto i fedeli
(per dirla secondo la mentalità del VO) assistono. Dunque “sine populo”
non significa senza la presenza di fedeli i quali “possono essere ammessi” se
lo vogliono per spontanea volontà: una soluzione quantomeno ideologica che non
regge neanche dal punto di vista giuridico.
O miracolo del diritto! Rendi vero ciò che è falso!
O somma giustizia! O somma irragionevolezza!
E sì, è il caso di dirlo: summum ius, summa
iniuria!
La mente che vede il fedele “assistente” alla messa riesce a
dire anche che quel fedele può accostarsi ad una celebrazione di una “messa
senza popolo”: poiché la messa è pensata senza popolo, che i fedeli siano lì
previsti dal rito o senza che il rito li contempli, è la stessa cosa: basta
dichiararlo prima, ma solo per formalità. Tanto è formale la presenza
dell’assemblea secondo la mentalità allegorico-giuridica del VO.
Ma, con SP, dal punto di vista formale possiamo stare sereni
e dire alla napoletana maniera: “tutt’‘a posto”!
Ma dal punto di vista giuridico, se il giuridico serve
ancora a qualcosa, è un salto che svela la vera comprensione liturgica della
forma del VO: i fedeli assistono, non celebrano. I fedeli stanno lì ma
possono anche non starci.
Ma in questo modo non salta tutta la spinta della riforma,
ovvero la necessità di valorizzare il sacerdozio comune fondato sul battesimo?
La risposta è scontata: d’altra parte, va ribadito, non è
solo una questione di “forma liturgica” ma di “forma mentale”, di
autocomprensione ecclesiale, di priorità di vita, non di ontologie ideologiche.
Addirittura, nella misura in cui qualche presbitero o
qualche gruppo si senta ostacolato nel desiderio di celebrare secondo il VO,
può adire al ricorso amministrativo contro il vescovo: compente è la
Commissione Ecclesia Dei (Universæ Ecclesiæ, art. 10 §1)[xxi]. Il risvolto si ha
subito: c’è chi denuncia l’abuso di qualche Vescovo che non ha voluto concedere
nella propria diocesi la possibilità dell’uso del VO visto che le firme (raccolte
online) non concedevano di parlare di “gruppo di fedeli stabile di una parrocchia”.
Secondo la stessa Istruzione poi spetta alla Pontificia
Commissione Ecclesia Dei il compito di curare l’eventuale edizione dei
testi liturgici relativi alla forma extraordinaria del Rito Romano (cfr. UE,
art. 11).
Ed è quello che è successo coi decreti di marzo che hanno
ancora una volta ribadito la colossale situazione d’eccezione in cui si trova
la liturgia (rimando alla lettera aperta di Andrea Grillo).
7.
Da Commissione a Sezione
La Commissione è interessata da un altro motu proprio
nel 2009 per la riorganizzazione strutturale della stessa tesa a garantire più
immediatezza giuridica circa la remissione delle scomuniche ai vescovi ordinati
dal card. Lefevbre[xxii].
Infine, con altro motu proprio “circa la Pontificia
Commissione Ecclesia Dei”, il 19 gennaio dello scorso anno, papa
Francesco constatando che le questioni trattate dalla Commissione Ecclesia
Dei sono di carattere prevalentemente dottrinale, sopprime la
Commissione e ne fa una Sezione della Congregazione per la Dottrina della Fede[xxiii].
Alla Sezione assegna “integralmente” medesimi compiti e
chiede di continuare “l’opera di vigilanza, di promozione e di tutela”. Non si
comprende però cosa significhi “promozione”: una competenza che non compare nei
documenti precedenti.
Conclusioni
L’analisi fin qui condotta mostra l’evoluzione giuridica che
ha contornato un unico grande fatto manifestato in due dati: il sottrarsi di un gruppo di persone alla riforma del
Concilio Vaticano II e i tentativi della gerarchia di mantenere nella comunione
ecclesiale quel gruppo.
Basta anche solo uno sguardo schematico per cogliere l’evoluzione
della forma giuridica e la mens ad essa presupposta: da
indulto a presunto “diritto oggettivo”.
Questo lo schema riassuntivo.
FONTE
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FORMA GIURIDICA
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PER
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COMPETENZA CANONICO-AMMINISTRATIVA
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RELAZIONE CON CONCILIO VATICANO II
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NOTE
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Lettera Quattuor abhinc annos
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INDULTO
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fedeli
che fanno problemi
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VESCOVO
RICHIEDE INDULTO
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Che
non si metta freno alla riforma liturgica
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MP Ecclesia Dei
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INDULTO
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fedeli
legati al card. Lefebvre e alla tradizione pre-riforma
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COMMISSIONE
RILASCIA IN MODO PIÙ AMPIO collabora coi Vescovi. I Vescovi sono invitati ad
“associarsi”
|
ampiezza
profondità degli insegnamenti del Concilio Vaticano II richiedono un
rinnovato impegno di approfondimento, nel quale si metta in luce la
continuità del Concilio con la Tradizione, specialmente nei punti di dottrina
che, forse per la loro novità, non sono stati ancora ben compresi da alcuni
settori della Chiesa
|
Si
attesta il diritto ad un metodo personale oltre l’ordo novus.
|
MP Summorum Pontificum
|
PRIVILEGIO GENERALE E STABILE = FORMA OGGETTIVA DI DIRITTO
|
fedeli
con “sensibilità liturgica” del VO
Diritto al proprio metodo per "sensibilità liturgica" |
In
pratica i VESCOVI NON POSSONO DECIDERE
|
Nuovo
concetto = Forma ordinaria e forma straordinaria dell’unico rito.
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Si
apprezza l’amore alle precedenti forme: «non pochi fedeli aderirono e
continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme
liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il
loro spirito»
|
MP papa Francesco
|
Inalterato
|
Inalterato
|
Inalterato
|
Inalterato
|
Constatazione:
questioni di carattere prevalentemente dottrinale
|
Da questa sinossi appaiono alcuni elementi:
1.
Sembra che a fare problema oggi sia la riforma
del Concilio e non l’attaccamento al VO;
2.
L’affermazione del diritto dei fedeli ad un
proprio metodo scavalca il rito ordinario: difatti si deroga al diritto
universale anche in questo;
3.
Sembra che il “tesoro prezioso da conservare”
sia il VO e non la riforma liturgica
4.
Sembra che i vescovi, de facto et de iure,
siano completamente esautorati nelle proprie competenze e nelle loro facoltà;
5.
Ciò che era una concessione è diventato un
diritto: il passaggio delicato dall’indulto al diritto alla forma
extraordinaria del fedele (e del presbitero “solo”) appare più sostanziale
della comunione ecclesiale;
6.
Dai fatti, tra l’altro, sembra che le forme liturgiche,
spirituali, dottrinali cosiddette “tradizionaliste” siano da tutelare più delle
forme della riforma;
7.
Il paragone col passato circa la molteplicità
dei riti antichi (o attuali) non regge poiché quelli sono sempre
“territoriali”, “locali”, “geolocalizzati”. Il paragone con altri riti
contemporanei non regge perché gli altri riti latini (vedi quello ambrosiano)
producono visioni ecclesiologiche non in contrapposizione al Concilio Vaticano
II;
8.
I lavori della Commissione dal 2009 ad oggi, in
quanto Sezione, pertengono “prevalentemente alle questioni dottrinali”: è
dunque ancor più evidente che la forma rituale non era solo legata alla
“sensibilità liturgica”;
9.
Per questi motivi, se il VO produce oggi
anche una forma di mentalità ecclesiale parallela (e i fatti lo dimostrano,
anche i siti…), bisogna che l’autorità ecclesiale intervenga almeno in modo da
ridimensionare l’uso del VO nell’alveo dell’indulto “pro paucis”
o ristabilendo e ribadendo in modo più vigoroso la priorità delle proprie azioni
pastorali e liturgiche rispetto alla riforma del Concilio Vaticano II con la
totale soppressione della Sezione ex-Ecclesia Dei e le sue facoltà e
competenze.
10. In
conclusione: la situazione attuale di eccezione liturgica apparentemente
“valida” nasconde una sovrapposizione incompatibile (per quanto legale possa
sembrare) di ordine giuridico: dal Concilio Vaticano II in poi non si
possono mettere sullo stesso piano due forme di riti poiché questo
significa mettere insieme due ordini di Chiesa, due priorità ecclesiali. Tenendo conto tutto quanto
esposto, dal punto di vista della logica giuridica ciò che oggi è formalmente
valido appare inconciliabile con le priorità giuridiche ed ecclesiali.
Quello che è nato per indulto, dunque, al fine di favorire
la comunione gerarchica non può trasformarsi in una profonda ferita ecclesiale.
Bisogna constatare che la separazione che si voleva evitare ha finito per
creare contestazione costitutiva della Chiesa, quella Chiesa che si vuole rinnovare nello
spirito della tradizione conciliare.
Riconoscere che una soluzione giuridica adottata, per quanto “valida” possa apparire in un sistema giuridico, non regge alla prova della vita ecclesiale (con tutti gli artifizi del caso e al di là
dei risvolti poco condivisibili dal punto di vista teologici e dal punto di
vista ecclesiologici), è saggezza
pastorale prima ancora che teologica e canonistica.
Se infatti è vero che la forma giuridica conserva la sua
validità per atto del Legislatore, è pur vero che il vissuto manifesta un
fenomeno attuale preoccupante: la comunità e la comunione che “quel diritto
canonico” deve/dovrebbe tutelare sono lacerate proprio da una “forma
giuridicamente valida”. Non solo: con doppio uso dell’unico rito si produce di
fatto una forma di non-diritto ovvero una sospensione del diritto e quindi una
delegittimazione del diritto stesso e della struttura ecclesiale che lo
accompagna e lo giustifica. L’usus antiquior non è irrilevante per la convalida
della norma di vita ecclesiale, della legittimità della riforma liturgica e
della legittimazione della tradizione. E questo è ormai sotto gli occhi di tutti.
Se lo ius sequitur vitam, è il caso di rivedere lo ius, ed è ora di scegliere.
Ammenoché non si voglia giustificare con un ragionamento giuridico sulla valdità solo ciò che si vuole davvero: tutelare la sensibilità dottrinale e liturgica del VO più che mettere mano ad un lavoro proficuo per attuare sempre più le riforme conciliari.
[iv] Per chi
volesse più notizie sulla questione pratica, rimando al seguente studio
storico-teologico che cerca di equilibrare le istanze: M. Sodi, Il Messale di Pio V. Perché la
messa in latino nel III millennio?, Padova 2007.
[v] Per chi
volesse approfondire si veda: M. Sodi,
Il Messale di Pio V. Perché la messa in latino nel III millennio?,
Padova 2007.
[vi] Cfr. A.
Grillo, Oltre Pio V. La riforma
liturgica nel conflitto di interpretazioni, Brescia 2007, 19-29.
[vii] Questa
la natura delle osservazioni: quale messa fosse normativa (letta o cantata);
attivare il rito della riforma tutti insieme; dare tempo alle Conferenza
episcopali per sperimentare per la scelta e la composizione di altre parti
della messa specifiche per territorio e lingua; che la liturgia eucaristica sia
più lunga di quella della Parola; sia determinato bene il rito senza spazio
alla improvvisazione; nominare la Madonna e gli Apostoli; lasciare spazi di
silenzio; non omettere mai il Kyrie; conservare il “lavabo”, la “Orate
frates”, la preghiera per la comunione prima della pace; rendere
obbligatoria l’acclamazione dopo la prima epiclesi; diminuire il numero dei
Santi nel Canone romano, mantenere l’atto penitenziale; l’obbligo delle tre
letture solo nelle solennità; possibilità di omettere alcune antifone nella
messa senza popolo.
[viii] Cfr.
Costituzione dogmatica sulla Chiesa: Lumen gentium, 8.
[ix] Sulla
figura del card. Lefebvre si veda ad esempio: N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre: il tradizionalismo
cattolico italiano e il Concilio Vaticano II, Roma 2003.
[x] Cfr. AAS
LXXVI [1984], pp. 1088-1089.
[xi] «Fere
in totum solutum visum est problema illorum sacerdotum atque
christifidelium, qui ritui “Tridentino” nuncupato inhaerentes manserant».
[xii] Cfr. Giovanni Paolo II Pp., Motu proprio Ecclesia Dei
adflicta, 2 luglio 1988, in AAS LXXX (1988), 1495-1498. Si veda
anche: http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/motu_proprio/documents/hf_jp-ii_motu-proprio_02071988_ecclesia-dei.html.
[xiii] Così
il can. 214: «I fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo le
disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori della Chiesa e di
seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla
dottrina della Chiesa».
[xiv] «Concedendi omnibus id petentibus usum
Missalis Romani secundum editionem typicam vim habentem anno 1962, et quidem
iuxta normas iam a commissione Cardinalitia “ad hoc ipsum instituta” mense
Decembri anno 1986 propositas, præmonito Episcopo diœcesano». AAS,
LXXXII [1990], 533.
[xv] Cfr. Benedetto XVI Pp., Litt. Ap. Motu proprio datæ: Summorum Pontificum,
(7 luglio 2007), in AAS, XCIX (2007), 777-781. Si veda: http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html.
[xvi] Si
veda il volumetto in “par condicio”: A.
Grillo – P. De Marco, Ecclesia universa o introversa?
Dibattito sul motu proprio Summorum Pontificum, Cinisello Balsamo (MI) 2013.
[xvii] Per
approfondire si veda la presa di posizione di mons. Markus Graulich,
la risposta di Andrea
Grillo e la mia.
[xviii] Paolo
VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono stati tutti “padri” o “periti”
conciliari, come se il Concilio lo avessero avuto ancora tra le mani…
[xix] K. Gamber, La riforma della Liturgia
Romana. Cenni storici - Problematica, in "Documenti di UNA VOCE
10", Roma 1980. Supplemento al n. 53-54 di Una Voce Notiziario, giugno – dicembre
1980, 6-74; qui 7 [or.: Die Reform der Römischer Liturgie. Vorgeschichte und
Problematik]. Klaus Gamber, liturgista tedesco, è stato uno dei
contestatori della riforma della prima ora.
[xx] Si veda
l’articolo apparso sul blog del vaticanista Valli: https://www.aldomariavalli.it/2019/03/07/no-alla-messa-in-latino-a-cremona-abuso-reiterato/.
[xxi] cfr. Commissione Ecclesia Dei, Istruzione
sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data Summorum
Pontificum: Universæ Ecclesiæ, in AAS CIII (2011), 413-420.
[xxii] Benedetto XVI Pp., Lettera apostolica in forma di «motu proprio»: Ecclesiae
unitatem, in ASS, CI (2009), 710-711.
[xxiii] Francesco Pp., Lettera apostolica in forma di «motu proprio» circa la
pontificia commissione Ecclesia Dei, 17 gennaio 2019.
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