Mettere sullo stallo, ovvero “in-stallare”, tra validità giuridica e opportunità pastorale del doppio uso del rito
“Installare significa metterlo sul tablet: io non lo voglio mettere; dunque, non installo”. Questo ragionamento lineare non sembra essere chiaro: riconoscere una forma valida significa volere quella forma, installarla.
Una reazione alla reazione di mons. Markus Graulich sulla Lettera aperta circa lo stato di eccezione della Liturgia.
Umberto R. Del Giudice
Introduzione
La lettera
aperta circa lo stato di eccezione della liturgia (LASEL) pubblicata da
Andrea Grillo e sottoscritta da molti, la cui sottoscrizione qui ribadisco, ha ricevuto una critica secca da uno tra i canonisti più
accreditati circa l’interpretazione della disciplina della Curia romana: mons.
Markus Graulich, sotto-segretario del Pontificio Consiglio per i Testi
Legislativi dal 2014, ha bollato l’iniziativa come contenitore di idee
sbagliate ed errori (“idées fausses” e “erreurs”, qui nella versione
francese, l’unica per ora reperibile), che sembrerebbero evidenziare, secondo
il giudizio del medesimo monsignore, «una mancanza di conoscenza o una
conoscenza ideologicamente distorta della materia da parte degli autori» («un
manque de connaissance ou une connaissance idéologiquement déformée du sujet de
la part des auteurs»).
Le reazioni alla posizione di mons. Graulich non sono
mancate: hanno riposto Andrea
Grillo e Pierluigi
Consorti, professore di teologia l'uno e professore di diritto canonico l'altro, a dimostrazione che teologia e canonistica devono parlare insieme, in prospettive ecclesiologiche consolidate e solidali per non
cedere alla tentazione del procedere “pro sola validitate” che pur può
raggirare il giurista senza cuore e senza memoria o dietro alla quale lo stesso
giurista con doppio cuore e doppia memoria voglia nascondersi.
Teologia e canonistica si devono parlare e devono parlare: la
teologia non è riflessione aulica, semi misterica, del dato rivelato ma è accortezza pratica
del vissuto ecclesiale; così anche la canonistica non deve e non può solo riferirsi allo status quæstionis formale per non cedere alla logica amministrativistica.
Alle argomentate risposte dei succitati docenti mi concedo di accostare queste personali considerazioni scritte prima di leggere i loro interventi: mi consola il fatto che queste righe concordano con le loro autorevoli riflessioni.
Una premessa dal vissuto familiare ed ecclesiale
Mentre giocavo nel dopo pranzo del lunedì dell’angelo con mia
figlia di cinque anni con un’applicazione di giochi di memoria, è apparso sullo
schermo la pubblicità di un’altra applicazione che chiedeva se “installare” il
nuovo gioco. Lei ha tranquillamente sentenziato: “installare significa metterlo
sul tablet: io non lo voglio mettere; dunque, non installo”. Un semplice
ragionamento di una bimba ma che può accompagnare un ragionamento altrettanto
semplice, da bimbi.
“Installare”. Interessante. Oggi il verbo “installare” lo usiamo soprattutto per alcune
operazioni digitali, ma deriva proprio dall’ambiente ecclesiastico: installare
sta ad indicare l’insediamento di un ecclesiastico nello “stallo del coro” (da
cui in-stallare), cui sarebbe legato il beneficio di una dignità o di una
prebenda.
Credo si possa dire che si stia installando (ovvero reinstallando)
l’Ordo vetus (OV) nel seno dell’esperienza ecclesiale oltre le intenzioni
degli stessi ultimi tre Pontefici e oltre le indicazioni conciliari.
Questa è un’evidenza ecclesiale che non può essere nascosta
dietro la sola constatazione della validità giuridica di alcune “mosse” o “forme”.
Da qui alcuni quesiti:
a)
di chi è la competenza (non solo giuridica) per
una tale decisione;
b)
due leges: solo doppia competenza, “ni
plus ni moins”?
c)
se l’opportunità di un doppio uso del rito sia
solo una questione di “validità formale”;
d)
se le forme giuridiche possono o meno cambiare
le esperienze.
Circa la competenza
Mons. Graulich nella sua brevissima comunicazione si appresta a sentenziare sulle competenze
poiché uno dei punti della lettera aperta circa lo stato di eccezione della
liturgia (LASEL) rimandava proprio alla questione della competenza.
Com’è noto, disciplinare la liturgia spetta all’autorità
della Chiesa, ovvero Sede apostolica e Ordinario del luogo, con
la possibilità, entro limiti determinati, che questa competenza sia estesa
anche alle competenti assemblee episcopali territoriali, ovvero alle Conferenze
episcopali.
Si sa che, circa i riti, per Sede apostolica ci si riferisce alla Congregazione per il Culto Divino e per la Disciplina dei Sacramenti (CCDDS)
ed è noto anche che, circa le questioni riguardanti l’OV, il rimando era alla
Commissione Ecclesia Dei che, ormai soppressa, oggi si configura come
una Sezione della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF).
Ricapitolando: quella che era una Commissione
a se stante (2 luglio 1988) che aveva il compito di «collaborare con i Vescovi,
con i Dicasteri della Curia Romana e con gli ambienti interessati, allo scopo
di facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi,
comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla
Fraternità fondata da Mons. Lefebvre», diventa una Commissione collegata strettamente
alla CDF (2 luglio 2009), finché tale Commissione non viene del tutto soppressa
è accorpata allo stesso Dicastero ma solo come Sezione (7 gennaio
2019).
Ma tra il 1988 e il 2009 le competenze liturgiche si
amplificano: mentre quelle del 1988 erano destinate a facilitare la piena
comunione ecclesiale con coloro che si sentivano legati al “magistero
lefebvriano”, quelle della Commissione del 2009 erano collegate ad un
principio ben circoscritto: il fatto che si considerasse l’OV come un’altra
possibilità di vivere l’unica tradizione latina.
Veniva data la possibilità di usare il messale del 1962 a
qualsiasi sacerdote in ogni momento e in ogni luogo (ovvero diocesi) senza
altro permesso (da notare che lo stesso art. 2 della Summorum potificum
dichiarava che questa possibilità non era contemplata per il Triduo Sacro).
Ma è chiaro che, se nella possibilità di scegliere l’uno o
l’altro rito, il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede
Apostolica, né del suo Ordinario, ciò significa che una Commissione, l’allora Ecclesia
Dei (2007), ha di fatto esautorato sia la CCDDS competente in materia di
disciplina liturgica sia ogni competenza episcopale.
È anche evidente che tale operazione è stata fatta non senza
la volontà del Legislatore supremo, il sommo pontefice. Quest’ultimo fatto
sembrerebbe porre il giurista nella sicurezza della fonte di diritto; il
canonista sembra ragionare così: “se il Legislatore vuole così, la competenza è
salva”.
E il ragionamento, sul filo della validità, scorre.
Ma il canonista non se ne accorge che proprio il rimando alla
competenza extraordinaria sottrae difatti una parte di competenza al Dicastero
e ai Vescovi?
Non se ne accorge che mentre la CCDDS nasce con lo scopo di
sostenere la disciplina liturgica secondo le indicazioni conciliare, la Commissione/Sezione
finisce invece di riformulare la legge liturgica oltre la disciplina stessa? Come
non si può notare che la competenza ordinaria sia stata esautorata da quella extraordinaria?
E la chiamo Commissione/Sezione per il rimando all’operato
sia prima che dopo il gennaio 2019 che difatti ha continuato nella sua “competenza
extraordinaria”.
Se, infatti, la CCDDS disciplina ciò che è nella mens
del Concilio Vaticano II, la Commissione/Sezione non fa altro che andare oltre
gli intenti della disciplina stessa. Ci troviamo davanti al paradosso
che la competenza ordinaria conserva, custodisce, tutela e a volte stringe,
comprime una riforma conciliare che la competenza extraordinaria riformula a
suo piacimento. La questione non è solo di riti e di gusti o meramente
giuridica: la CCDDS è chiamata a conservare i principi costitutivi ecclesiali mentre
la Commissione/Sezione non solo può non tener conto di quei principi, ma li
riformula, li riprende, li reinterpreta. La CCDDS conserva la disciplina; la Commissione/Sezione
riformula la legge donandogli anche un respiro diverso rispetto alla mens
conciliare.
Il canonista (il teologo e il liturgista) non può non accorgersi
che con questo passaggio la Commissione/Sezione ha deciso in materia liturgica e
lo ha fatto dal punto di vista del “mettere insieme due forme di lex orandi”
che nella mens del Concilio semplicemente non c’erano, non avevano forma
d’essere. Come può il canonista non accorgersi che, pur difendendo la “competenza a
legiferare” se così vuole il Legislatore, sono stati messi formalmente
sullo stesso piano due forme come in una continuità simultanea?
E come può non accorgersene un canonista che di mestiere
offre interpretazioni e non status quo?
Due usi, due competenze o due ‘mens’?
Il motu proprio Summorum pontificum (SP) dichiara: “sono infatti due usi
dell’unico rito romano”. SP ha inaugurato dunque un doppio uso di un unico
rito.
E questo impianto ha permesso la promulgazione, lecita e
valida, di due decreti, Quo magis e Cum sanctissima, da parte della
CDF che, in questo modo, ha messo mano direttamente sul rito facendo uso di una
competenza liturgica che giuridicamente, bisogna ammetterlo, è trasversale ed
extraordinaria rispetto alla competenza della CCDDS.
Dunque, è evidente che, pur nella formale attuale distinzione,
una Sezione della GDF propone ciò che “per sua natura” sarebbe di competenza
della CCDDS.
Questo vuol dire riconoscere ad una Sezione una “competenza”
storico, liturgica, pastorale nonché dottrinale che per la stessa natura dei
Dicasteri è riconosciuta alla CCDDS e non alla CDF, tanto meno ad una sua
Sezione.
La questione non è solo di “competenza giurisdizionale”,
giacché il Legislatore può distribuire a suo piacimento l’onere dell’attività dell’ufficio
di governo e di amministrazione: la vera questione è di “competenza trasversale”.
Una Commissione/Sezione sta operando e sempre più creando due mens, ovvero
un doppio sostegno per due lex orandi. È difficile capirlo?
Per inciso, il compito principale della CDF è quello «di promuovere e di tutelare la dottrina sulla fede e i costumi in tutto l’orbe
cattolico» (Pastor Bonus, art. 48); i compiti principali della CCDDS sono quelli di regolare
la Liturgia e, in primo luogo, dei Sacramenti (PB, art. 62) e promuove l’azione
pastorale liturgica in tutto ciò che riguarda la preparazione e la celebrazione
dell’eucaristia, degli altri sacramenti e dei sacramentali (PB, art. 64).
Non può sfuggire a nessun canonista che le competenze della
CCDDS richiedono non solo competenze dottrinali e o giuridiche ma anche e soprattutto
storiche, pastorali, liturgiche e queste legate al movimento di riforma
conciliare, secondo quella mens.
Se dal punto di vista della competenza giuridica il Legislatore
ha fatto in modo che sia “lecito” che la CDF dedichi le sue attenzioni anche
alla liturgia, dal punto di vista delle competenze sostanziali, ovvero
storiche, pastorali, liturgiche in sé oltre che disciplinari e dottrinali, ne risulta
un fatto quanto mai particolare: una Sezione dedicata all’uso di un rito promuove
ciò che la CDF offre come Decreto. In questo modo la competenza trasversale
della Sezione (nata per la piena comunione di altri) parla come cuore di uno dei
due usi dell’unico rito: una competenza pari grado a quella della CCDDS che parla
per la riforma del Concilio. I due usi dell’unico rito romano, nati da principi
completamente diversi e non sovrapponibili, hanno così due competenze con lo
stesso peso e la stessa misura, “ni plus, ni moins”!
La chiara e ulteriore sovrapposizione di competenza giuridica e competenza
liturgica si ha proprio con la promulgazione dei Decreti del 25 marzo scorso.
Da qui l’accorato e ulteriore appello della LASEL.
Ma il canonista non si accorge che la competenza giuridica assorbe
in sé anche quelle liturgiche, storiche, pastorali, teologiche e dottrinali? E se
se ne accorge, come fa a dire che la questione è solo giuridico-disciplinare e non anche di
vita ecclesiale?
L’opportunità pastorale e “Ordo vetus”
Stando alla sola forma delle “competenze giuridiche” il
canonista (miope) potrebbe non percepire che l’uso doppio di due forme
liturgiche apre a una contrapposizione di due patrimoni e due esperienze, una delle
quali, quella dell’OV, voleva essere riformulata dalla stessa riforma liturgica
dettata dai principi del Concilio Vaticano II.
È dunque corretto solo dal punto di vista della forma
giuridica dire che vi sono due forme e due usi dello stesso Rito Romano, quello
ordinario e quello extraordinario; ma questi usi, concessi all’inizio allo
scopo di facilitare la piena comunione ecclesiale dei gruppi di sensibilità lefebviana,
vanno di fatto costituendo due leges orandi e due leges credendi: il
canonista che non lo riconosce è attento alla forma e dimentica che la forma dice
la sostanza. Ma forse non lo può dire perché per il canonista (per alcuni
canonisti) non è ancora chiaro che la forma liturgica è sostanza ecclesiale e
dottrinale: per il canonista (per alcuni canonisti) la “forma valida” è la sola
essenziale e sostanziale.
Tant’è che il ragionamento più comune è il seguente: se il
rito era valido prima del Concilio perché non dovrebbe essere ancora valido?
Forme giuridiche ed esperienza religiosa
È chiaro che le sensibilità qui la fanno da padrone e va
conservato il diritto del singolo fedele di seguire il proprio metodo come
ricorda il can. 214 (“I fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo
le disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori della Chiesa e
di seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla
dottrina della Chiesa”): ma l’impossibilità per alcuni canonisti di non capire
che la dottrina della Chiesa passa anche attraverso la forma e l’uso del rito, fa
dire che vi possono essere due riti della stessa dottrina.
L’opportunità pastorale per la quale è giusto conservare e
difendere il diritto del singolo fedele di seguire un proprio metodo di vita
spirituale non esime l’autorità della Chiesa a comprendere che il metodo è “dentro”
un rito e questo implementa e sostiene una dottrina (lex orandi, lex
credendi); per cui l’aver voluto concedere una forma di metodo di vita
spirituale secondo il rito approvato nel 1962 non è indifferente alle questioni
dottrinali ed ecclesiali.
La vicenda della competenza trasversale e del doppio uso del
rito ha determinato una forma dottrinale trasversale oltre che una competenza giuridica trasversale.
L’opportunità pastorale per la piena comunione di alcuni gruppi concessa fin
dal 1988 si è evidentemente trasformata in una rigidità ecclesiale anticonciliare.
Le due forme si presentano ormai come alternative e contrapposte: erano queste le intenzioni con cui è nata la Commissione/Sezione? Assolutamente no: affermare il contrario è un errore, e non riconoscere ciò che accade è un errore interpretativo del vissuto della Chiesa maggiore.
Il canonista accorto dovrebbe andare al di là della forma
giuridica e cogliere la necessità oggi dell’unica dottrina e l’unico rito onde
evitare contrapposizione dottrinali ed ecclesiali. La formale competenza
giuridica dunque non dice l’opportunità pastorale, liturgica, dottrinale, della
doppia forma. E se questo è evidente, dunque, di chi è l’errore?
Conclusioni
Chi scrive ha sempre più la sensazione che lasciare il
doppio uso dell’unico rito amplifichi competenze giuridiche trasversali (com’è
stato col caso dei Decreti di marzo): ed era questa una delle denunce della
lettera aperta che sottoscriverei ancora essendo dicuro di non cadere in errori e senza confusione alcuna (chi vuole può farlo qui)
L'attuale competenza “trasversale” è dato giuridico che
produce un doppio “stallo” ecclesiale pericoloso.
La doppia competenza, pur nella validità, sta installando
nel seno dell’esperienza ecclesiale, la doppia forma dell’Ordo novus e dell’Ordo
vetus con la conseguenza non solo di tentare una certa comunione ecclesiale impossibile (duo ordines, duo leges orandi, duo leges credendi) o di assicurare il pluralismo metodologico
della vista spirituale (che va garantito entro l’unico rito e l’unica dottrina, una lex), ma di contrapporre il secondo al primo, il Vetus al Novus, come se uno
fosse più genuino (e valido) dell’altro.
E si sa che il Concilio ha dettato altri principi per riformare il Vetus e restituire alla tradizione la forma del Novus.
Purtroppo questa forma di installazione Vetus contra Novus produce un altro “stallo”: la
dottrina è frammentata poiché diventa sempre più prigioniera dei ragionamenti ideologici piuttosto che dell’esperienza ecclesiale di comunione.
Questo stallo facilita le contrapposizioni di gruppi anche all’interno dei seminari: insomma, la rottura (la rupture)
c’è ed è prodotta dalla “toppa vecchia” non dal rito nuovo.
È il doppio livello di competenza (trasversale) che sta dando vigore (vigueur)
ad un certo tipo di gruppi mentre altri sono smarriti o quantomeno non toccati
dalle vicende (sarebbe inutile fare la conta delle parrocchie e delle comunità
che nel mondo celebrano con l’Ordo novus con grande appagamento e
vantaggio della propria vita spirituale).
Bisogna dunque riconoscerlo: lo stallo che si sta rischiando
non è del rito ma della Chiesa.
Si sta inserendo una forma di rito che non si vuole riconoscere essere una forma di lex orandi che condiziona la lex credendi che pure il Concilio voleva sostenere e riformare proprio a partire dal rito: “Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia” (SC, 1).
Si sta inserendo una forma di rito che non si vuole riconoscere essere una forma di lex orandi che condiziona la lex credendi che pure il Concilio voleva sostenere e riformare proprio a partire dal rito: “Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia” (SC, 1).
Non basta dunque che i ragionamenti legati alla formale validità si
nascondano dietro il principio “standum est pro valore actum”: le
argomentazioni di mons. Graulich sembrano restare ferme lì, sul valore dell’atto
in sé e sul presunto arricchimento ecclesiale dell’esperienza del doppio uso.
In realtà che l’atto abbia una sua validità formale e
giuridica non significa che abbia una sua solidità ecclesiale a meno che non si
percepisca la Chiesa solo nel riflesso del diritto amministrativo.
È evidente che non sia così e nutro vive
speranze che i canonisti questo l’abbiano imparato.
Al contrario, appare che lo svantaggio progressivo del
doppio uso del rito, dal punto di vista storico, dottrinale, pastorale,
liturgico, disciplinare sia ben più allarmante proprio per la percezione di
Chiesa che c’è dietro: qual è la tradizione? quale dottrina è quella vera e voluta
dalla Chiesa?
Queste le domande che oppongono gruppi, esperienze religiose,
seminaristi.
Né dobbiamo nasconderci il fatto che alcuni vivano ancora col dubbio su chi sia il Pontefice, né dobbiamo dimenticare che il Sommo pontefice, l’unico, è spesso attaccato: doppia mentalità, doppia sensibilità, doppia Chiesa?
Né dobbiamo nasconderci il fatto che alcuni vivano ancora col dubbio su chi sia il Pontefice, né dobbiamo dimenticare che il Sommo pontefice, l’unico, è spesso attaccato: doppia mentalità, doppia sensibilità, doppia Chiesa?
Per non acconsentire dunque ad una “installazione dannosa” né volere
una situazione di stallo, basterebbe seguire la saggezza di una piccola bambina: “non lo voglio, e dico di no”.
Ma bisogna dire “no” senza rifugiarsi dietro ai formalismi
della “validità giuridica”; o almeno bisogna essere chiari nel dire apertamente
che si apprezza il metodo, il patrimonio, la disciplina dell’OV, senza rifugiarsi dietro un dito puntato verso le presunte ideologie e le vagheggiate deformazioni
altrui.
Meglio denunciare le proprie sensibilità senza riversare sugli altri incompetenza canonistica e insensibilità teologica.
Meglio denunciare le proprie sensibilità senza riversare sugli altri incompetenza canonistica e insensibilità teologica.
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