Solo un uomo ci potrà salvare? Oltre le delusioni esistenzialiste, le illusioni ironiche e le prospettive teo-mitologiche tra filosofia e teologia

 



 

«Solo un Dio ci può salvare» o «Non siamo stati ancora salvati»: le due tesi contrapposte, che qui richiamo dal (secondo) Heidegger e da Sloterdijk, presentano entrambe la crisi della tecnica che non offre una salvezza reale. Da una parte l’impossibilità della salvezza trascendente e dall’altra antropotecniche dell’auto addomesticamento. Ma nuove vie continuamente si aprono se ci si rivolge ad una salvezza come “presenza” e “relazione”, ovvero come “incarnazione”.






Umberto Rosario Del Giudice 


1. La “salvezza” come “fede, speranza, conoscenza e carità”

Tra il 1994 e il 1996, alcuni teologi, sotto la direzione di Bernard Sesboùé, pubblicarono la “Histoire des dogmes” (“Storia dei Dogmi”) in quattro volumi[1]. Ciascun testo, dedicato a epoche diverse, aveva nel sottotitolo un rimando alla “salut”, alla “salvezza” (I: Le Dieu du salut; II: L’homme et son salut; III: Les signes du salut; IV: La parole du salut).

Nell’approccio sistematico generale è chiaro che la “salvezza” appare come un’opera compiuta da Dio in favore dell’uomo (I vol.), come una questione tutta antropologica considerando principalmente ciò che compete all’uomo (II vol.), quale sia la mediazione di salvezza (III vol.) e quale la riflessione fondamentale sulla fede (IV vol.). In questi volumi la dottrina della redenzione passa dall’evento cruento della croce alla resurrezione per poi risalire alla incarnazione fino ad arrivare ad una redenzione “cosmica”. La “salvezza” è vista come liberazione dei giusti i quali, come ricorda Paolo (in Cor e Col) passa attraverso due trittici: fede, speranza e conoscenza accanto a fede, speranza e carità. È chiaro che “conoscenza intellettuale” (in Paolo “gnosi”) è possibile solo attraverso l’esperienza di Cristo e quindi della sua carità. Nella carità vi è salvezza. Insomma, la “conoscenza” chiede “carità” e questa rimanda a quella. Entrambe, nella fede e nella speranza, offrono la visione del mistero della salvezza. In questa prospettiva si sviluppa la storia dei dogmi e quindi la comprensione della salvezza.

 

2. La frase che inquieta la conoscenza dell’Occidente: “Solo un Dio ci può salvare”

Una trentina di anni prima l’uscita di questi volumi, esattamente nel 1966, durante un’intervista al Der Spiegel, Martin Heidegger pronunciava una frase destinata a diventare un simbolo del pensiero contemporaneo: «Nur noch ein Gott kann uns retten» (che potremmo tradurre col consueto “solo un Dio ci può salvare”).

Ma la sua affermazione non era un appello al ritorno al sacro, né una confessione religiosa. Heidegger passa lentamente dal Dasein di Essere e tempo (del 1927) all’essere che “accade” (all’Ereignis). Se da una parte c’è l’uomo che si autocomprende nella sua esistenza dall’altra c’è l’essere. Da una parte apertura e possibilità della “verità che si svela nell’esistenza umana”; dall’altra l’essere che guida l’uomo nella sua esistenza. Dunque, nel secondo Heidegger, appare un atteggiamento nettamente più “metafisico” (con tutto ciò che questo può dire per Heidegger): da una parte l’essere si capisce dal Dasein, dall’altra il Dasein si capisce dall’essere. Per capirci, mi sembra che si possa dire che il primo Heidegger direbbe che per conoscere cosa sia un bambino in una città, vedo come il bambino vive nella città; il secondo Heidegger direbbe che, per conoscere il bambino e la sua vita in città bisogna cogliere la struttura e l’atmosfera della città per poi verificare l’atteggiamento del bambino. O anche, altro esempio, per cogliere la vita e il “mistero” che essa mi offre il primo Heidegger direbbe “guardo l’uomo per capire il mistero della vita”; il secondo direbbe “guardo il mistero della vita per capire l’uomo” ma, aggiungerebbe, “serve un Assoluto per capire il mistero della vita e quindi per ‘salvare’ l’uomo”. Il secondo Heidegger, dunque, non abbandona la filosofia alla fede ma sta offrendo una diagnosi del contesto storico (post-nazionalista): la modernità, per lui, è entrata in un vicolo cieco dominato dalla tecnica, e nessuna iniziativa politica o filosofica sembra in grado di invertire la rotta. Anzi, i vari totalitarismi politici dell’epoca (a cui lui pure si affidò) gli apparvero la massima espressione del tecnicismo socio-politico: ora se la tecnica non è un insieme di strumenti, ma un modo di pensare che trasforma tutto l’umano in un “fondo disponibile” (Bestand) allora la stessa filosofia non è capace di produrre un cambiamento del mondo, e la stessa politica, lungi dall’essere una via di salvezza, è interamente assorbita dalla logica della (super-)tecnica (accanto al super-uomo).

Il “D-o” [2] evocato da Heidegger non è il D-o della fede, ma il nome simbolico di un nuovo inizio, di un evento che non possiamo programmare. È ciò che lui chiama Ereignis: l’accadere dell’essere che apre un’altra epoca non in senso cronologico ma in senso originario (in cui l’uomo e l’Essere si appartengono reciprocamente).

Al di là della riflessione heideggeriana, qui basta sottolineare come un pensatore importante del ‘900 abbia offerto un approccio in cui l’essere che accade è evento originario in cui è possibile ogni storia, ogni mondo, ogni verità (e non in senso cronologico). Ma ciò che fa riflettere è il suo rimando alla categoria della “salvezza”. Heidegger parla di “salvezza”, anzi di un evento originario (un Essere) che può “salvarci” (“uns retten”): e quell’essere lo chiama “D-o”.

Dunque, con Heidegger possiamo assolutamente essere persuasi che né la tecnica, né la politica, né un super-uomo, possono “salvarci” né possono fondare la possibilità della conoscenza intellettuale (per rimanere nel suo campo).

Ma qualcuno, dal punto di vista filosofico, aggiungerà che “non siamo salvi” dall’accadimento dell’essere.

 

3. “Non siamo stati salvati, e non lo saremo”

Peter Sloterdijk, nel volume Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger[3], riprende la frase di Heidegger come punto di partenza per una critica radicale. Se Heidegger attende un evento che riapra la storia, Sloterdijk risponde con ironia e lucidità: non c’è alcuna salvezza da attendere, perché l’uomo non è un essere da salvare, ma un essere che si addestra, si plasma, si auto‑produce.

A dire il vero, i dieci saggi di Sloterdijk sono tutti da leggere (e a me ha fatto particolarmente sorridere il rimando all’avvocato del diavolo nella dinamica dei processi di canonizzazione…)[4].

In generale, per ritornare al nostro argomento, il filosofo e saggista tedesco tutt’ora vivente afferma che non è possibile una salvezza poiché le culture stesse sono sistemi di “addomesticazione antropologica” e lo spiega riprendendo la critica di Nietzsche all’umanesimo[5]. L’uomo non è presupposto, ma prodotto dell’addomesticamento prodotto da “preti e insegnanti”, secondo quanto sosteneva Nietzsche. Certo: per Sloterdijk vi sono anche nuovi preti e nuovi insegnanti, nel senso che a lui non interessa colpire una categoria o smantellare il vecchio umanesimo occidentale ma constatare come la cultura umana in genere (e quella occidentale in specie) non sia altro che un insieme di pratiche di addomesticamento. La cultura e l’umanesimo non sono luogo di elevazione spirituale ma un progetto di allevamento attraverso la lettura, la scrittura, la selezione: così la stessa filosofia si sarebbe adagiata a questo compito[6].

La sua conclusione è netta: «Non siamo stati salvati, e non lo saremo» non perché la salvezza sia impossibile, ma perché è un concetto che appartiene a un mondo che non esiste più: un mondo in cui l’uomo si pensava come creatura, non come progetto tecnico su di sé.

 

4. Oltre le due visioni di “essere possibile” e “salvezza impossibile”

Si scontrano così due visioni sulla condizione umana (e sulla necessità/funzione della conoscenza filosofica): da una parte, la denuncia (heideggeriana) di un totale impoverimento dell’esperienza (e un rimando debole ad un D-o troppo impersonale – come hanno evidenziato vari teologi del ‘900, da Jaspers a Rahner, da Bonhoeffer a Boff); dall’altra, la totale incapacità (sloterdijkiana) della cultura umana a garantire un orizzonte di senso sensato dove non c’è più imprevisto né dono.

Ma entrambi colgono il segno quando denunciano che non è possibile essere “umani” in un mondo dominato dalla tecnica né pensare da “umani” se non si hanno relazioni non interessate, non calcolate, non addomesticate. Per Heidegger l’apertura alla possibilità è rinvio alla “salvezza”; per Sloterdijk la salvezza potrebbe esserci solo in un umano capace di pratiche, allenamenti, selezioni continue.

Se per Heidegger “non possiamo salvarci da soli” e per Sloterdijk “non possiamo delegare la salvezza a un mito”, allora bisogna recuperare la tradizione (filosofica e) teologica per la quale “la salvezza è un modo di essere presenti e di sperimentare se stessi in D-o”. Lo sforzo di alcuni teologi e di alcuni filosofi degli ultimi decenni è proprio quello di rinviare ad una esperienza umana capace di se stessa oltre i miti antichi e le tecniche moderne[7]. La “salvezza”, che nella tradizione cristiana è anche conoscenza-carità (nella fede e nella speranza) è relazione, è silenzio, è abitare, è sentire, è cogliere, è intimità col tutto, è partecipazione in tutto e con tutti a patire dalla e con la propria parte.

La “salvezza” è anche partecipazione non (come direbbe Gaber) in senso politico ma in senso esperienziale: partecipare ovvero cogliere l’irruzione nella storia della forza nonostante le fragilità, della pace oltre le guerre, delle relazioni oltre i conflitti, della luce oltre l’ignoranza, del possibile oltre il reale, del dono oltre l’insopportabile, del concreto compartecipato oltre il pensiero ideologico ed isolato.

In questa prospettiva, la dottrina della incarnazione può dire qualcosa anche al pensiero filosofico che si accorge non tanto del limite della ragione (come alla filosofia stessa oramai è noto) ma della possibilità critica del pensiero umano di autoresponsabilizzarsi nella ricerca e nella passione per la vita, a partire dall’umano. La filosofia (come la teologia) non può vivere di miti né di idee ma deve rimettere (e rimette) al centro azioni e gesti umani per coglierli nella loro veridicità e profondità.

La conoscenza (come la “salvezza”) è un processo, un cammino, una crescita nella relazione col tutto pur non riducendo il tutto al singolo (o all’uno pitagorico).

Essere presenti al mistero della vita che ci inonda (nello stesso momento in cui scrivo e in cui leggo, penso, dubito, affermo, ritengo…) è la via della conoscenza e dell’amore della vita e della sapienza silenziosa che avvolge ogni vita anche quando è strappata dalla violenza. L’esperienza, e la riflessione su di essa, allora ritrova una direzione: quella della vita come suono di salvezza, oltre e prima ogni responsabilizzazione, ogni delusione e ogni illusione.

D’altra parte, troppi auguri di “Santo Natale!”, “Buone Feste!”, “Felice 2026!”, hanno il sapore di una speranza che non spera, di un pio sebbene profondo e sincero augurio di chi non si sente salvato e rinuncia, giustamente, a fidarsi di politica e di tecnica, e aspetta un D-o, un evento che renda una “svolta” alla vita umana. Ma da questa prospettiva allora “salvezza” sarà forse possibile ma non ancora reale.

 

5. Il rimando alla possibile “gnosi-salvezza” cristiana

La “gnosi” cristiana (quella radicata “in Gesù Cristo” senza soluzione di continuità) ricorda che ogni salvezza rimanda ad una conoscenza che riconosce, nella fede, la relazione profonda col Dio di Gesù-Cristo come radicalità dell’umano insostituibile e, nella speranza, fa propria quella radicalità a partire dall’“ora”, immergendosi nella sorprendente conoscenza-carità della vita che ci è donata continuamente e della relazione in cui si è consolidati.

Da qui la filosofia e la teologia possono riprendere a parlare. La filosofia oltre i miti e la teologia oltre il dogmaticismo.

È chiaro però che vanno fatto delle raccomandazioni circa la dovuta attenzione verso quella predicazione omiletica e quella narrazione catto-popolare che tende a spostare nel futuro un’attesa quasi utopica, restituita alla sola responsabilizzazione dell’uomo nella quale si ripropone “una salvezza che non salva”, una salvezza tutta da attendere e quasi mai possibile perché declinata sulle righe della moralizzazione.

Bisogna fare attenzione a quelle narrazioni che riducono la “speranza” ad un’attesa di un evento che dovrà ancora verificarsi o ad una promessa di un futuro che (non) verrà.

Bisogna guardarsi da quella politica che rimanda all’assolutizzazione di posizioni poiché è essa stessa un mito da cui fuggire.

La “salvezza” come la “conoscenza” non è nell’attendersi un evento trascendente né l’invenzione di continue destrutturazioni culturali che si propongono come evoluzioni intellettuali interminabili (quanto impossibili).

Se Heidegger e Sloterdijk, pur da prospettive opposte, mostrano giustamente l’impossibilità di affidare la salvezza alla tecnica, alla politica o a un umanesimo ingenuo, ciò non significa che l’esperienza umana sia condannata all’assenza di una presenza, o, se volete, all’assenza di senso. Piuttosto, entrambi ci costringono a riconoscere che la salvezza non può essere pensata come un “evento esterno” che interviene dall’alto, né come un “prodotto culturale” ottenuto tramite addestramento. La loro critica, se presa sul serio, ci sottrae alle illusioni moderne e postmoderne, e ci riconsegna alla domanda più antica e radicale: «come può l’uomo abitare il mondo in modo vero?».

È qui che la tradizione filosofica e teologica, quando non si riducono a idealismo o a moralismo e a mitologia, torna a parlare con forza. La salvezza non è un premio, né un progetto, né un’utopia: è una forma di presenza. È la capacità di riconoscere, nella trama fragile dell’esistenza, una relazione che precede e sostiene, una conoscenza che si fa carità, una speranza che non rimanda al domani ma trasfigura l’oggi. È l’esperienza di essere “in relazione” prima ancora di essere “in controllo” o nella posizione “di controllo”.

In questo senso, la categoria cristiana dell’incarnazione non è un residuo del passato, ma una provocazione per il pensiero contemporaneo: ricorda che la verità non si dà come idea, né come tecnica, ma come incontro e esperienza della presenza. In questo senso la conoscenza non è dominio, ma partecipazione e la salvezza non è fuga dal mondo o fuga nel mondo, ma immersione nel reale con uno sguardo capace di gratuità.

Tra l’attesa heideggeriana di un evento che apra un nuovo inizio e la disincantata diagnosi sloterdijkiana dell’uomo come animale addestrato, si apre allora un terzo spazio: quello di una umanità che non rinuncia alla propria profondità, che non si lascia ridurre né a ingranaggio né a progetto, e che ritrova nella relazione –con gli altri, con il mondo, con il mistero che lo attraversa e che qualcuno chiama “D-o”– la possibilità di una conoscenza che salva.

Forse la salvezza non è un “evento” da attendere né un “risultato” da produrre, ma un modo di abitare la vita: un modo in cui la conoscenza diventa cura, la speranza diventa responsabilità, la fede diventa presenza. E in questo modo di abitare, finalmente, l’umano torna ad essere all’altezza del proprio nome.

 

Concludendo: caro cardo salutis

In fondo, la salvezza non è un sostantivo (“salus”) ma un verbo, proprio come nelle espressioni tedesche di Heidegger (qualcuno che può salvarci, uns retten) e di Sloterdijk (uomini come esseri non salvato, nicht gerettet): tuttavia mentre in questi pensatori tedeschi il verbo indica “futuro incerto”, nel sostantivo latino vi è la sicurezza di un “presente posseduto”.

La conoscenza della presenza sta tra il modo con cui si vive il sostantivo e il modo con cui si rende e si percepisce come verbo: “la salvezza ci salva”. Sicuramente, per filosofia e teologia, la “salus” non può essere un concetto statico ma un’azione che accade, una storia” (proprio come voleva sottolineare Sesboué). In questo passaggio dal nome al movimento, la salvezza diventa esperienza, relazione, presenza che ci raggiunge e ci trasforma, sequela nella presenza. E se le narrazioni della salvezza diventano troppo sostantivate anche la filosfia si perde, lì dove, magari, una certa teologia già si è persa.

Il ritorno alla concretezza, alla caro” (al corpo) che sente, che vive, è una strada da percorre sia con la preghiera sia con il solo intelletto. Questa appare per ora una buona econonia” per la filosofia e per la teologia: entrambe si devono reincontrare su questo terreno. Non è scontato, ma possibile.

Allora, buona festa della Incarnazione 2025




[1] Scrive il curatore: «La prima storia dei dogmi prodotta dalla teologia cattolica francese fu l'opera magistrale di J. Tixeront; i suoi tre volumi apparvero tra il 1905 e il 1911 e conobbero riedizioni fino al 1931». Aggiungo che, da quell’approccio storico-scientifico, credo si possa dire che dipendono tutte le altre “storie dei dogmi”.

[2] Uso spesso questa grafia in rispetto alla tradizione giudaica e agli amici ebrei. Qui però vuole anche evidenziare la inafferrabilità del soggetto “D-o”.

[3] Cfr. P. Sloterdijk, Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Suhrkamp Verlag, Berlin 2001 [trad. it.: Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di Antonio Lucci, Bompiani, Milano 2004].

[4] P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, pp. [omissis].

[5] «Quando Zarathustra attraversa la città in cui tutto è diventato più piccolo, percepisce il risultato di una politica dell'allevamento che fino a quel momento ha avuto successo, e non è mai stata messa in questione. Gli uomini sono riusciti, così gli sembra, con l'aiuto di una giusta combinazione di etica e genetica, ad allevarsi rimpiccioliti. Si sono sottomessi essi stessi alla domesticazione e hanno portato avanti una scelta di allevamento che va in direzione di una socievolezza da animale domestico. Da questo presupposto deriva la critica di Zarathustra all'umanismo, il rifiuto cioè della falsa ingenuità di cui si circonda l’uomo buono della modernità. Difatti non è ingenuo che degli uomini allevino altri uomini in vista dell’ingenuità. Il sospetto di Nietzsche verso ogni cultura umanistica è volto a svelare il segreto della domesticazione dell’umanità. Egli vuole smascherare quelli che allora erano i detentori del monopolio dell'allevamento umano, preti e insegnanti che si presentavano come amici dell'uomo, e vuole mostrare la loro funzione nascosta». P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, pp. [omissis].

[6] Come sostiene nel saggio Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger in cui si legge: «La filosofia, da quando è diventata un genere letterario, acquisisce nuovi adepti scrivendo in modo contagioso di amore e amicizia. Non solo è un discorso sull’amore di sapienza, ma vuole anche riuscire a conquistare gli altri a questo amore. Il fatto che la filosofia scritta possa farsi degli amici tramite i testi le ha permesso di mantenere il suo potenziale di contagio dai suoi inizi, più di 2500 anni fa, fino a oggi. Si è continuato a scrivere filosofia di generazione in generazione come se fosse una lettera a catena, e nonostante tutti gli errori di copiatura, o forse proprio grazie a questi, la filosofia ha sedotto copisti e interpreti con il suo influsso socializzante». P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, [omissis].

[7] Inutile qui il rimando a tutte le correnti teologiche del ‘900 (e degli ultimi venticinque anni) e il rimando a molti autori quali Husserl, Levinas, Marion, Nancy, Merleau-Ponty… e tanti altri.


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