“Chi è Gesù Cristo” o “in Cristo Gesù”?
Andrea Grillo smonta la lettura di Vito Mancuso, che separa storia e fede riducendo il cristianesimo a scelta privata. In continuità annoto che la storia e il fenomeno della fede sono chiari: la fede è immersione comunitaria, vita “in Cristo Gesù”, oltre e prima la congiunzione e la identificazione prodotte dalla coscienza sintetica e solitaria.
Sinite Parvulos – Artemisia Gentileschi, olio su tela,
Metropolitan Museum of Art, New York
Umberto Rosario Del Giudice
È apparso il testo di Vito Mancuso (Gesù e Cristo,
Garzanti, 2025). Le critiche non sono mancate. In particolare, rimando alla bella rilettura di Andrea Grillo
che sottolinea come Vito Mancuso,
sebbene con stile elegante, non riesce a cogliere il cuore della questione
circa la relazione univoca tra la figura di “Gesù” e quella di “Cristo”. Una
“vecchia” querelle, tra l’altro, circa la relazione tra il “Gesù
storico” e il “Cristo della fede” che ha visto contrapporsi vari approcci:
quello liberale (ad. es. Harnack e Bultmann), per il quale è netta la
separazione tra le due “identità” con prevalenza della fede come esperienza
soggettiva; approccio sistematico (ad. es. Rahner, Balthasar, Pannenberg) per il
quale c’è integrazione tra storia e dogma, evitando riduzionismi dell’una verso
l’altro e viceversa; approccio storico (ad. es. Meier) per il quale non ci sono
implicazioni dogmatiche dirette.
Riprendo la critica di Andrea
Grillo e propongo anche una riflessione storico-rituale circa la relazione (e
l’identità) tra il “Gesù storico” e il “Cristo della fede”.
‘Gesù’, ‘Cristo’ e ‘Mancuso’: i tre personaggi (privati) in cerca di (mancata)
sintesi soggettiva
Andrea Grillo annota che la
distinzione radicale proposta da Mancuso tra “Gesù” e “Cristo” non
è una tesi discutibile ma una sorta di evidenza storico-dogmatica indiscutibile.
Ed è proprio questo il primo dato che risulta quasi “insopportabile”
nell’approccio semi-liberale (mi si lasci passare il termine) di Mancuso. Ed è
proprio da questa “distinzione evidente” che nasce la struttura del libro: un
racconto di “vite parallele”, in cui Gesù e Cristo
appaiono come due personaggi separati, che l’autore tenta di raccordare solo
alla fine in una sintesi soggettiva.
Tutto questo rischia di trasformare la fede
cristiana in un esercizio di ragione individuale, di coscientizzazione
solipsistica, ridotta a “fede soggettiva” contrapposta molto (troppo, e forse
radicalmente) alla “fede comunitaria” (che Grillo chiama “ecclesiastica”).
In questa operazione di Mancuso – annota ancora
Grillo –, la professione di fede – “Gesù è Cristo” – si dissolve in
un’operazione che associa due entità estranee, lasciando come unico punto fermo
la coscienza soggettiva di Mancuso.
Ma la critica sul piano filosofico e teologico in
cui Andrea Grillo denuncia lacune significative diventa riflessione magistrale.
Secondo Grillo il libro si muove entro schemi vecchi di due secoli e ignora il
lavoro teologico moderno e contemporaneo che ha cercato di superare proprio la
contrapposizione tra “storia/fatto” e “fede/dogma”. Mancuso, al contrario,
insiste su un parallelismo astratto tra storia e ideale, mutuato
da una lettura parziale del primo Wittgenstein, senza considerare la svolta del
secondo Wittgenstein verso i “giochi linguistici” e le “forme di vita”.
Qui, alla critica magistrale di Grillo, mi
permetto di suggerire un altro rimando: sembra che, se “Gesù” possa essere
considerato la “tesi storica” e “Cristo” l’antitesi dogmatica, la “fede
personale” (di Mancuso) sia in definitiva la “sintesi”. In altre parole,
Mancuso sembra giocare ancora con il modello hegeliano in cui l’idea del
soggetto rimane la sola “sintesi veritiera” che “fa se stessa”, come la verità
di Hegel… La fede sarebbe un’idea: e quando la fede diventa un
“In Cristo Gesù”: formula rituale immersiva e identità di fede matura
Anche Grillo annota che la fede va considerata
come un’esperienza condivisa, mediata dalla comunità dei credenti e non va
ridotta opzione solipsistica, fondata sulla “ragione personale” e sulla “sensibilità
individuale”. Proprio per questo mi permetto di affiancare alla sua critica
un’ulteriore riflessione partendo da un dato storico-documentale sebbene
“limitato” al contesto neotestamentario. In quei documenti (e in modo
particolare nelle lettere apostoliche) il problema non era se “Gesù” fosse il
“Cristo” e non poteva esserlo giacché le comunità vivevano “già” nella
identificazione che associava quella esistenza storica (“Gesù”) a quel “Signore
risorto” (il “Cristo”). In altre parole, la questione non stava nella possibile
congiunzione (“Gesù e Cristo”) ma neanche nella possibile (e
semplicistica) identificazione (“Gesù è Cristo”). Le comunità cristiane
vivevano secondo uno slogan preciso: “In Cristo Gesù”.
L’espressione “in Cristo Gesù” nelle
lettere paoline diventa centrale: non è una semplice indicazione linguistica,
ma una formula stereotipata e rituale che veicola la confessione
di fede delle prime comunità cristiane[1]. A Paolo, ad esempio, non interessa narrare il “Gesù storico” in senso biografico; egli assume come presupposto la sua esistenza e il riconoscimento comunitario di
Gesù come “Cristo”. Sebbene vada ricordato che in generale le lettere (come i
Vangeli canonici) non siano cronache ma strumenti di direzione e riflessione
teologica, esse presuppongono un evento già interpretato: l’uomo Gesù è
confessato come il Signore in una comunità che lo loda e viene confessato
tale solo così. Questa confessione non nasce da un atto individuale, ma
da una tradizione liturgica prepaolina e da un linguaggio rituale
condiviso, che si manifesta nelle formule fisse e negli inni cristologici. La
fede, dunque, è mediata dalla comunità, attraverso schemi culturali e
liturgici che trasmettono la verità di fede e la rendono partecipabile.
Ed è proprio la mancata mediazione di fede che
(credo) Andrea Grillo critichi nella impostazione di Mancuso denunciando il
rischio di ridurre la fede a una “fede personale”, ossia a un atto razionale
e individuale, separato dalla mediazione ecclesiale e rituale. I testi
neotestamentari, invece, mostrano che la professione “in Cristo Gesù”
non è frutto di una costruzione privata, ma di una esperienza comunitaria
codificata in formule rituali. D’altra parte, la fede non è questione di
“pensiero” che voglia congiungere (“e”) o che voglia riconoscere (“è”) a partire dalla esperienza
personale (e quindi individuale e autoreferenziale): la “fede” è un “in”,
è una “immersione” (per dirla con categorie care a Giorgio Bonaccorso) in cui
“si è riconosciuti (e si riconosce)” perché “viventi in”, “capaci di”.
Non a caso la formula battesimale e rituale “in Cristo Gesù” ha preceduto di molto quella trinitaria e più dogmatica di “Nel nome del Padre e…”. La dottrina sulla fede, e quindi la possibilità di congiungere o identificare, segna un momento postumo a quello della esperienza immersiva. Anticipare la “coscientizzazione” disconoscendo la “immersione” significa cancellare ogni presupposto alla fede stessa, consegnando l’esperienza alle convinzioni personali: questo rimane una posizione infondata e insostenibile. Se teologicamente appare qui la riduzione della fede al pensiero, filosoficamente si rimanda alla convinzione soggettiva che reclama verità e forma di ogni realtà riproducendo un certo neoidealismo.
In altre parole, la teologia non concorda con Mancuso,
e del suo testo non rimane estasiata neppure quella filosofia che considera l’esperienza non come dato soggettivo,
ma come fenomeno – husserlianamente parlando – da cui partire per comprendere
la realtà. Se il fenomeno è l’esperienza di fede, esso diventa il punto di
avvio: un dato che orienta la riflessione. E il dato cristiano è la fede di chi
“vive in”, condizione da cui muovere per coniugare (“e”)
e identificare (“è”), non come operazione concettuale astratta,
ma come immersione reale in una vita che si riconosce e si compie nella
relazione.
[1] Mi permetto di rimandare ad un mio
testo: «L’espressione in Cristo Gesù – (ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, en
+ dativo) – è uno schema culturale sintetico e fisso che permette la
trasmissione di verità di fede. Solo chi proviene dagli ambienti in cui è
adoperata tale espressione coglie la pienezza del senso dell’espressione come
confessione di fede. Essa è una formula stereotipata indeclinabile che non
cambia caso neanche quando il senso grammaticale lo suppone. L’ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ
è una formula della prima comunità cristiana e non è d’origine paolina e
compare nei testi a testimonianza della sua antichità. Così anche gli inni
cristologici contenuti nelle lettere di Paolo ricordano una comunità che già ha
riconosciuto in un uomo (Gesù) il “Signore”» (U.R. Del Giudice, L’uomo e le sue religioni. Note di
fenomenologia delle religioni tra antropologia e storia, Milano 2024, p. 268).

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