“Allegoria” e “sostanza”: la sorte di una confusione tra immagine e realtà
Il limite dei “dottori” contemporanei è quello di aver spesso confuso “allegoria” con “sostanza”. È questo limite è ancora oggi insopportabilmente riproposto da alcune narrazioni teologiche.
Umberto R. Del Giudice
Nei discorsi del beato Isacco della Stella, pericope dei
quali non abbiamo avuto l’opportunità di leggere sabato 13 perché la lettura seguiva
lo schema per la memoria della vergine e martire Lucia, son usate chiaramente
le immagini al femminile: Maria, vergine, Chiesa, anima fedele…
È il caso di riportare per intero il brano:
«Il Figlio di Dio è il primogenito tra molti fratelli;
essendo unico per natura, mediante la grazia si è associato molti, perché siano
uno solo con lui. Infatti «a quanti l’hanno accolto, ha dato potere di
diventare figli di Dio» (Gv 1, 12). Divenuto perciò figlio dell’uomo, ha fatto
diventare figli di Dio molti. Se ne è dunque associati molti, lui che è unico
nel suo amore e nel suo potere; ed essi, pur essendo molti per generazione
carnale, sono con lui uno solo per generazione divina.
Il Cristo è unico, perché Capo e Corpo formano un
tutt’uno. Il Cristo è unico perché è figlio di un unico Dio in cielo e di
un’unica madre in terra.
Si hanno insieme molti figli e un solo figlio. Come
infatti Capo e membra sono insieme un solo figlio e molti figli, così Maria e
la Chiesa sono una sola e molte madri, una sola e molte vergini. Ambedue madri,
ambedue vergini, ambedue concepiscono per opera dello Spirito Santo senza
concupiscenza, ambedue danno al Padre figli senza peccato. Maria senza alcun
peccato ha generato al corpo il Capo, la Chiesa nella remissione di tutti i
peccati ha partorito al Capo il corpo.
Tutt’e due sono madri di Cristo, ma nessuna delle due
genera il tutto senza l’altra.
Perciò giustamente nelle Scritture divinamente
ispirate quel ch’è detto in generale della vergine madre Chiesa, s’intende
singolarmente della vergine madre Maria; e quel che si dice in modo speciale
della vergine madre Maria, va riferito in generale alla vergine madre Chiesa; e
quanto si dice d’una delle due, può essere inteso indifferentemente dell’una e
dell’altra.
Anche la singola anima fedele può essere considerata
come Sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, vergine e
feconda. Viene detto dunque in generale per la Chiesa, in modo speciale per
Maria, in particolare anche per l’anima fedele, dalla stessa Sapienza di Dio
che è il Verbo del Padre: Fra tutti questi cercai un luogo di riposo e
nell’eredità del Signore mi stabilii (cfr. Sir 24, 12). Eredità del Signore in
modo universale è la Chiesa, in modo speciale Maria, in modo particolare ogni anima
fedele. Nel tabernacolo del grembo di Maria Cristo dimorò nove mesi, nel
tabernacolo della fede della Chiesa sino alla fine del mondo, nella conoscenza
e nell’amore dell’anima fedele per l’eternità»[1].
Nel brano le “figure al femminile” sono tutte protagoniste
nella “generazione della fede” e nella “costituzione del corpo” che è Cristo.
Ciò che era tacito nel XII secolo, appare confuso nel
XX secolo e ideologizzato nel XXI. Una allegoria, strumento logico degli autori
medievali, diventa una sostanza per dottori contemporanei. Il punto è la
relazione tra “figure allegoriche” e “sostanzializzazione realistica”: l’allegoria
nel medioevo è una chiave di lettura e interpretativa della realtà perché, per
l’epoca, la realtà visibile rimandava ad una realtà invisibile (così la ‘significatio’
della cultura medievale). In questo senso la metafora diventa centrale per il
pensiero e per l’ordine gerarchico della realtà. Con il linguaggio figurato,
infatti, si esprime ciò che non si può vedere, l’indicibile, l’ineffabile, l’invisibile.
Centro di questo pensiero è la relazione tra creatura e Creatore, tra anima
e Cristo, tra fede e Fonte, tra preghiera e Spirito. Anche per
questo i testi teologici sono ricchi di immagini simboliche al femminile: il
femminile, al tempo, indica ‘accoglienza’, ‘sequela’, ‘obbedienza’, ‘fede’.
Non solo, l’allegoria diventa un metodo di lettura:
oltre il fatto vi è il significato spirituale. Alla fine del percorso
interpretativo (per chi ricorderà il detto)[2] vi è il rimando “anagogico”,
ovvero la spiegazione della realtà terrena in stretta relazione con quella eterna.
Ma ciò che importa è che le “figure allegoriche”
rimangono strumenti cognitivi con i quali dire e capire con linguaggio figurato
ciò che il linguaggio comune o totalmente astratto non potrebbe esprimere. Tanto
per fare un riferimento, le allegorie usate ne “La Divina Commedia” diventano un
sistema interpretativo del reale e non il reale.
Ecco perché le immagini femminili come metafora
spirituale non sono un immediato riferimento al sesso biologico. Se “l’anima
fedele” è quella di ogni “creatura” generata dalla Chiesa, è ovvio che tra
questi vi sono anche i “fedeli maschi”.
Nel linguaggio poetico-teologico dell’epoca, le figure
femminili, come “Maria”, la “Chiesa” e “l’anima fedele”, occupano un posto
centrale nella riflessione sul mistero di Cristo in relazione alla salvezza
comunicata. È palese che queste immagini non intendano affatto descrivere la realtà
biologica o sessuale: esse esprimono la verità teologica attraverso un
linguaggio simbolico. Il femminile, in quel contesto, è una metafora che
indica atteggiamenti interiori e dinamiche spirituali, non caratteristiche
fisiche. Quando la tradizione parla di maternità e verginità, non si riferisce
alla condizione biologica della donna, ma a due dimensioni spirituali: generare
e accogliere. La maternità indica la capacità di dare vita, non nel senso
carnale, ma nella trasmissione della fede e nella generazione di opere buone.
La verginità, invece, non è ridotta alla purezza fisica, ma esprime radicale apertura
e disponibilità totale all’azione di Dio. In questo linguaggio, il femminile
diventa uno strumento per comunicare la gratuità della grazia e la fecondità
dello Spirito (si noti come ritorna il “femminile” negli aggettivi)
A questo va aggiunto anche un’altra lucida considerazione: l’esclusione del femminile dalla gerarchia dei chierici non è data per “metafora” o “allegoria” ma per il presupposto di una mancanza di autorità naturale (e per tanto altro legato alla condizione della donna in generale). L’esclusione della donna dall’autorità pubblica non implica metafore, anzi: rimanda però all’allegoria della struttura sociale che dall’indù passa al pensiero greco (Platone nel Poltiché) e poi nel pensiero cristiano (la società medievale divisa nei tre ordini).
Ma nel XX secolo ciò che era metafora teologica diventa sostanzializzazione dogmatica: il “femminile” di tutti (accoglienza, sequela, obbedienza) diventa il sesso femminile tout court.
Ecco un esempio di logica dogmatica inversa. Il problema
logico non sussisteva negli autori medievali, coerenti con il contesto e i
presupposti; il vero limite è nei “dottori” contemporanei che non si accorgono
di confondere “allegoria” con “sostanza”.
In ogni caso, appare qui una confusione logica che la
teologia non può assumere come argomentazione.
[1] Dai
«Discorsi» del beato Isacco della Stella, abate, Maria e la Chiesa (Disc.
51; PL 194, 1862-1863. 1865).
[2] «Littera
gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia».
Catechismo della Chiesa cattolica, n. 118 [e rimando a nota 142: Agostino
di Dacia, Rotulus pugillaris, I: ed. A. Walz: Angelicum 6 (1929) 256].

sarei curiosa di sapere come i moderni "dottori" spiegano le “rahamim”/“splanchna” di Gesù... (Matteo 9,36; Matteo 14,14; Marco 6,34; Marco 8,2; Luca 7,13; Luca 10,33; Luca 15,20)
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