Una caro sit ovvero Una caro erit?
Una caro. Elogio della monogamia, tra fondamento biblico, interrogativi antropologici e questioni giuridico-canoniche
(Creazione di Adamo ed Eva, Duomo di Monreale)
Umberto Rosario Del Giudice
La Nota Una caro
È stata presentata oggi la Nota dottrinale dal titolo Una
caro. Elogio della monogamia. La Nota, che adotta il tono narrativo e
propositivo, non condanna altre forme di unione, ma propone la monogamia come
scelta libera e bella; non si limita a ribadire norme o prescrizioni ma cerca di
raccontare un ideale e di proporre una visione positiva della vita coniugale. Non
a caso dovrebbe essere un “elogio”, un “canto” tra esclusività e bellezza del foedus
tra un uomo e una donna. Sicuramente non si presenta come un trattato giuridico
né come manuale di morale; è un invito a riscoprire la monogamia come bene
antropologico e spirituale, capace di arricchire la vita e la fede.
Mi soffermo tuttavia brevemente sulla citazione,
imprescindibile, di Matteo 19, un testo che si muove come un racconto che “parte
dalle origini”. L’espressione “fin dal principio” – attribuita a Gesù in Mt 19
– accosta la volontà del Creatore, che fece maschio e femmina, all’invito di diventare
“una sola carne”. Sembra un ritorno alle radici, al progetto originario
inscritto nella creazione. È vero anche che la TaNaKh, pur conoscendo la poliginia,
riferisce storie di amore esclusivo. Il culmine di questi racconti diventa la
poesia de “Il Cantico dei Cantici”, che è unicità erotica e complice cantata,
celebrata.
La monogamia, dunque, non è solo regola, ma simbolo:
icona del monoteismo, riflesso dell’unicità di Dio (UC 73).
La riflessione cristiana postuma, ricorda la Nota, ha
interpretato queste parole come fondamento di un modello antropologico. I Padri
della Chiesa hanno insistito sull’unità e sulla fedeltà; Tommaso d’Aquino ha
visto nella monogamia un ordine naturale e razionale; pensatori
moderni come von Hildebrand e Benedetto XVI l’hanno descritta come immagine
luminosa dell’amore divino. La Nota dunque riprende questa eredità e la
trasforma in un elogio: la monogamia non è solo dovere, ma bellezza,
amicizia, comunione di vita.
La prospettiva pastorale
La Nota appare come un invito a quelle società/comunità
che hanno un rimando anche giuridico-tradizionale alla possibilità di forme
poligamiche (secondo la più diffusa poliginìa e quella meno di poliandrìa). Non
appare solo come un invito rivolto ai giovani, alle coppie, ai movimenti
matrimoniali ad adottare la stabilità e profondità della unione di due persone.
Tuttavia, la Nota potrebbe apparire come la trascuratezza
della diversità antropologica: capire ciò che vivono altri può aiutare sempre a
capire la cultura. La prudenza, dal punto di vista antropologico, chiede di non
pensare alla monogamia come un modello da imporre. Questo sarebbe imprudente
quanto meno. La monogamia è un modello di unità e complicità profonda, non è un
“modello giuridico-sociale” da imporre.
D’altra parte, pensare alla monogamia come l’orticello
in cui vivere le sole relazioni necessarie per l’identità del singolo, diventa
pericoloso: con questo non si vuole certo giustificare nessuna forma di poligamia:
il problema è che la relazione tra due persone o è equilibrata o rischia di
diventare l’orticello in cui l’io dei “due” o di “uno dei due” diventa
spropositato e esclusivista. E questo potrebbe essere un altro problema (che
già affligge le coppie “occidentali”). A veder bene, sembra che le giovani
coppie nostrane abbiano proprio questo limite: pensarsi da “soli” senza nessun’altra
capacità di relazione. “Altra relazione” che non deve essere assolutamente di
natura “sessuale” o “affettivo-sostitutiva”, sia chiaro. La coppia, in quanto
unione di due volontà mature, deve continuare a cercare equilibrio e a
crescere. E la crescita a volte chiede che i due abbiano la capacità relazionale
molto più ampia di quella che è determinata dal solo “io e te, e nessuno al
mondo”. Questo sarebbe un errore fatale.
Questioni giuridico-canonici
D’altra parte, e qui uno dei problemi anche giuridico-canonici,
la indissolubilità dei due, ovvero la “una caro” è determinata solo da
un “consenso iniziale”, da un “sì” originario? O non è piuttosto una meta da
raggiungere?
Protendendo per il secondo, basti ricordare che il passo
di Matteo 19 viene citato tre volte in modo esplicito (Mt 19,3-9; Mt 19,4-6; Mt
19,6) e almeno sei volte in forma indiretta. La citazione è utilizzata per
ribadire il progetto “originario del Creatore” sull’unione coniugale e per
fondare teologicamente l’elogio della monogamia. Se da una parte la citazione
vuole evidenziare la priorità del vincolo coniugale rispetto ai legami di
sangue, nell’uso che ne fa Gesù appare come un “programma escatologico”. Va annotato
che nelle narrazioni bibliche tutto ciò che è antropogonico risulta essere anche
escatologico: in altre parole dire “in principio” non è un rimando temporale o
morale ma è soprattutto una sollecitazione paradigmatica: il “in principio” riafferma
l’indissolubilità e l’esclusività non tanto come volontà moralistica del
Creatore ma come espressione di un cammino da fare, di una meta da raggiungere.
La narrazione evangelica esprime più uno stile
che una logica giuridica. Mt 19 si trova in un contesto ben preciso:
Gesù sta guarendo mentre gli si avvicinano alcuni farisei e gli pongono domande
tranello. Il contesto immediato è dato inoltre dal maschilismo di
coloro che interrogano Gesù e la citazione di Genesi è un rimando e non un
comando. Nel rimando al mito adamitico va rilevato un valore protologico ed
escatologico insieme: l’indivisibilità e l’unicità degli sposi è un dono
equitativo in divenire e non uno stato ontico immobilizzante.
In questa prospettiva, gli elementi essenziali del
matrimonio, unicità e indissolubilità, vanno letti come apice di un percorso.
Quando se ne accorgerà il Diritto canonico?
Questa è una delle questioni che credo siano
impellenti per la teologia del matrimonio e per i canonisti.

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