«Nella commemorazione del corpo e del sangue del tuo Cristo…»
Ancora qualche nota a margine del dibattito/confronto sorto in questi giorni circa l’equilibrio tra culto, devozione, percezione e partecipazione eucaristica.
Umberto Rosario Del Giudice
Qualche verità ritenuta e tre binomi da riprendere (decisamente)
Il dibattito
sul culto eucaristico e sull’esperienza ad esso legato (iniziato da un primo
post di Andrea Grillo) si sta intensificando (tra le varie reazioni, su specie
e sostanza di Andrea Grillo, lettera di don Zeno
Carra, mio primo
intervento, articolo
di Giovanni Salmeri, proposta di Pietro
Busti).
Purtroppo,
bisogna registrare, accanto al dialogo franco, anche reazioni dure fino alla
denigrazione e alle offese. Segno che il dialogo teologico è davvero molto
compromesso da un clima feroce.
Per chi voglia
continuare il confronto sereno, mi permetto di sintetizzare alcuni aspetti e aggiungere,
alle varie riflessioni, tre questioni riassuntive qui riprese a mo’ di “binomi”
nella consapevolezza che più che essere “quantità matematiche” sono “possibili
dinamismi-intenzionali”.
A scanso di
equivoci vanno qui ripresi e riportati i principii minimi che la sana
tradizione, a partire da sollecitudini storiche ben contestualizzate, ci offre
come “verità” e che richiedono precisazioni.
I “dati”
sono questi:
Presenza
reale di Cristo nell’eucaristia[1]. È importante notare che i testi
magisteriali si riferiscono alla “salvezza nella Chiesa” in cui il “sacerdote”,
che è anche “sacrificio”, Gesù Cristo, veramente – veraciter – “è
contenuto”, attraverso la “transustanziazione”, del pane nel corpo e del vino
nel sangue. Si noti pure che non è la “transustanziazione” in sé ad essere
“dogma”: lo è la “presenza del Cristo” nelle specie del pane e del vino. La trans-substantiatio
è solo uno strumento logico-filosofico per spiegare la “realtà creduta e
ritenuta”, com’è stato più volte rilevato già dagli anni ‘70[2].
Si noti pure che la “presenza del Cristo”, per tradizione sana, non è relegata
“solo” alle “specie eucaristiche”. La “presenza reale” nell’eucaristia è per antonomasia
non per esclusione: anzi sia in Sacrosanctum Concilium (1963)[3]
che in Mysterium fidei (1965) si ribadisce che “c’è vera presenza di
Cristo” in tutte le azioni liturgiche[4].
Carattere
sacrificale della Messa[5]. Carattere sacrificale che non va
ridotto ad un semplicistico “do ut des”, ma che va ricondotto alla partecipazione
attiva al mistero della morte del Cristo[6].
Comunione
sotto una sola specie[7]. La pratica della comunione “sotto
le due specie” è stata prima riservata ai soli presbiteri e poi ripresa e
auspicata solo da Sacrosanctum Concilio.
Accanto a
questi “dati minimi”, su cui tanto è stato scritto con la sapienza di
ricondurli al fatto rituale e alla buona prassi ecclesiale, credo sia opportuno
offrire brevemente tre binomi di sintesi su cui continuare a dialogare.
Assenza-presenza: oltre il semplicistico “realismo-naturalistico”
La
“sostanza” non è una questione di “res naturalis”: se l’eucaristia ci salva
e ci nutre, bisogna ammettere che essa ci aiuta a non considerare la realtà con
gli occhi di soli “indagatori naturalisti”. Insomma, non è sicuramente una
squadra della scientifica che ci aiuta a giudicare la verità delle cose. Una
analisi dal punto di vista dell’indagine scientifico-naturalistica delle specie
eucaristiche, ad esempio, condurrebbe alla constatazione che il pane è pane
e il vino è vino. La “verità”, e quindi l’essenza e la sostanza
(i due termini nella storia della filosofia si sono equiparati e interscambiati
con significati non univoci)[8],
non è “naturalistica”: essa è data dalla congiunzione di azione rituale,
narrazione, evento, partecipazione e percezione (nella
fede). Distinguere e disgiungere azione liturgica e percezione, solo
attraverso le quali si “partecipa all’unico evento pasquale” (autodonazione,
morte e risurrezione), è non cogliere la “verità” ma solo il dato “realistico-naturalistico”
del “pane e del vino”. Un dato però che, senza l’azione sacramentale, non
esiste. La “presenza reale” o è mediata a partire dal rito (sebbene spesso
ridotto alla sola “consacrazione delle specie attraverso il racconto
dell’istituzione”) o, semplicemente, non è… Eppure, solo “quel pane” e “quel
vino” sono “presenza”: ma, si badi, non è una presenza fisica-personalistica-storico-unidimensionale
(confesso di non aver mai visto la persona di Gesù…): non si tratta di “vedere
Gesù” come lo potevano vedere Simon Pietro o Maria di Magdala. Si tratta di
“vedere” e “riconoscere” il Cristo nell’azione che ci ripresenta all’unico
evento pasquale.
In questo
senso, l’assenza fisico-personalistica-storico-unidimensionale passa in secondo
piano, anzi è condizione della “presenza reale”, poiché la “presenza” è data dalla
percezione mediata dal rito, tant’è vero che senza “epiclesi” non si “produce
presenza reale” (mi dispiace usare il verbo “produrre” ma credo meglio renda
l’idea a contrasto con un approccio “realistico-naturalista”). Si noti bene
che, se Gesù di Nazareth fosse presente nel suo darsi storico, avremmo
una presenza storica ma un’assenza eucaristica: nell’eucaristia
si ha “assenza storica” che si traduce in “presenza reale” perché nell’azione
rituale si è coinvolti nell’unico evento fondante che è “storico-pasquale-sacramentale”:
l’evento pasquale. In questo senso, i “miracoli eucaristici” sono “solo” miracoli:
dicono in modo “extra-ordinario” (fuori dalla natura delle specie e fuori
realtà storico-pasquale-sacramentale) ciò che, nella fede, è “ordinario”: la
presenza del Cristo pasquale totale.
Sebbene la
teologia non debba occuparsene (poiché i “miracoli” esulano dall’oggetto di
fede essendo eventualmente “straordinari” rispetto alla fede pasquale-sacramentale)
può sempre cogliere, teologicamente, ciò che i miracoli eventualmente sono: la percezione
straordinaria della e nella fede del culto eucaristico. Non un dato ma un possibile fenomeno percettivo. Dunque, non un
problema di “sacramentaria” ma uno di percezione (e di antropologia). Qui,
dev’essere chiaro, l’accento non è posto su un “fatto di fede” (sebbene possa
esserci o non esserci) ma sulla “straordinarietà della percezione” nella fede.
La teologia può occuparsi dei “miracoli eucaristici” non per argomentare
sull’eucaristia ma sulla percezione del fenomeno eucaristico che, in
modo straordinario, può estendersi oltre il rito ma mai senza il rito. Tuttavia, sebbene i
“miracoli” non sono e non possono essere “esperienze di fede comune”, è (e
dev’essere) comune nella fede la percezione della presenza reale del Signore
anche oltre il rito ma mai senza il rito: è su questa consapevolezza della Chiesa che esiste la
“riserva eucaristica” e tutte le forme di attenzione eucaristica oltre la
celebrazione che, nella tradizione, passa col nome di “culto eucaristico” oggi
ripreso nel “De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra
missam” (in italiano Rito della comunione fuori della messa e culto
eucaristico)[9]. Questo
“culto” è una “estensione” della celebrazione eucaristica; esso non è una sua
“sintesi cosificata a sé stante” e serve per orientare la “pietà” al sacrificio
celebrato, e non viceversa[10].
La presenza eucaristica di Cristo, infatti, «è il frutto della consacrazione, e
come tale deve apparire» (Rito della comunione, n. 6b)[11],
e la “consacrazione” non è un atto magico e isolato: al contrario, la «transustanziazione,
congiuntamente richiesta e operata nell’epiclesi e dalle parole
istituzionali, è “pro nobis”, ossia è dinamicamente ordinata
all’assemblea cultuale che si raduna per fare la comunione […]. In consonanza con
l’intera tradizione cristiana riconosciamo che la consacrazione è il cuore
della preghiera eucaristica […]. Come nell’organismo vivente il cuore non
può essere isolato dalla compagine degli altri organi, così anche nella
preghiera eucaristica la consacrazione non può essere confinata in un suo
isolamento aureo»[12].
È il rito
che riconduce e unisce fede della e comunione nella “presenza
reale”. Non è mai stato il contrario. Va annotato che, dal punto di vista
storico, si sono registrati “miracoli eucaristici” in concomitanza con dubbi
o dispute filosofiche su “realtà” e “mistero” della eucaristia. I “miracoli”
rimandano, dunque, ad un problema di percezione non a questioni di prassi e di patrimonio ecclesiale.
Percezione-devozione: tra tradizione e coscientizzazione
A questo punto
dovrebbe apparire più chiaro un dato: la “presenza reale eucaristica” non è (e
non può essere) un’evidenza naturalistica ma è una percezione evidente della
fede e nella fede.
Ma la
“percezione” va educata e non solo presunta.
Il fatto che con il solo “uso di ragione” (e la relativa discrezione di giudizio), presunta nei
bambini di sette anni di età (cfr. can. 97 §2 e can. 914 CJC), possa esserci la
distinzione tra “pane comune” e “pane consacrato” non è minimamente sufficiente
per garantire una “percezione eucaristica”, e questo, oggi, per vari motivi tra cui ne segnalo due: da una parte, i ragazzi di oggi all’età di sette anni non sono immersi
nel contesto simbolico-sociale dei loro coetanei di cento anni fa: per il
vissuto di un bambino di sette anni del 1925, immerso nel lavoro contadino e/o
nella società chiusa con tutte le sue gerarchizzazioni, era più “immediata” la
dinamica simbolico-rituale di quanto possano concederne lo sfondo
narrativo-simbolico dei video-giochi e di YouTube per un bambino di sette anni che, immerso in una società aperta, usa il telefonino nel 2025; dall’altra, la sola
distinzione formale tra “pane comune” e “pane consacrato” non è un elemento
certo; lo è piuttosto il graduale atteggiamento verso l’eucaristia e la
comunione ecclesiale che è frutto di una “coscientizzazione” prolungata e
continua che produce partecipazione alla e nella fede al mistero di Cristo, con
tutti le sue qualità e le sue “virtù” (non a caso si parla di “prima
comunione”, ovvero di apice dell’iniziazione cristiana ma che continua nella
partecipazione eucaristica domenicale).
È a questa
“coscientizzazione progressiva e virtuosa” che si vuole guardare quando si ammirano
e si sottolineano le “virtù” del Beato Carlo Acutis per il quale i racconti dei
miracoli eucaristici erano solo un “mezzo” per vivere la sua dimensione
teologale (di fede, speranza e carità).
Ma la
dottrina eucaristica e la prassi del culto eucaristico non possono restringersi
alla (sua) percezione e alla (sua) esperienza personale: come se la virtuosa
coscientizzazione o la devozione eucaristica in generale, possano diventare il fine
e la natura del culto eucaristico stesso che, come la sana tradizione ricorda e
ribadisce, permane solo nel rito celebrato. Confondere percezione
e devozione con natura del culto eucaristico è una mistificazione
che deprime e non rende giustizia alla virtuosa coscientizzazione e personale percezione
di Carlo Acutis il quale, nel suo modo di percepire, aveva colto la natura “pasquale-salvifica” dell’eucaristia. Oggi ammiriamo il suo esempio virtuoso (relativo alla sua percezione) ma che non va confuso come chiave di una dottrina eucaristica. Una cosa è la percezione
(prolungata) del culto eucaristico (anche fuori la celebrazione) un’altra è
fare di quella percezione il modello sintetico del vissuto eucaristico
ecclesiale il quale si nutre di “partecipazione attiva nella comunione”. Se si differenziano i
vari livelli, la virtù personale di un ragazzo adolescente e della sua
percezione è salva; e lo è anche il dato dottrinale che lega rito e culto.
Invertire l’ordine dei termini e ridurre il secondo dato alla personale percezione
è minare sia la partecipazione eucaristica sia la virtù della percezione del
beato.
Se da un lato
vi è una ripresentazione dell’unico mistero pasquale, dall’altra vi è la graduale
e continua formazione e coscientizzazione a e di questo mistero. La “coscienza”
non è una scatola chiusa di idee chiare e distinte ma è flusso continuo di
intersoggettivizzazioni. Ragion per cui, tale fenomeno è legato alla “comunione
ecclesiale” che “tramanda” il mistero pasquale; e l’iniziazione cristiana, cammino graduale e progressivo, ce lo ricorda proprio con quell'apice che è sempre anche fonte: la celebrazione eucaristica.
La dinamica realtà-mistero
Circa la
comprensione della presenza reale, tra realtà e mistero, riprendendo quanto già
accennato, basti focalizzare alcuni elementi. In genere bisogna distinguere
almeno tre forme di esistenza di Cristo:
§ lo stato connaturale e mortale del Gesù storico;
§ lo stato connaturale glorioso del Cristo risorto;
§ lo stato sacramentale (detto anche antitipico o simbolico) del Cristo nei sacramenti (e, per antonomasia, nell’eucaristia).
Se si tiene conto soltanto del primo stato, si potrebbe addirittura pensare a una manducazione cafarnaica, ovvero ad un mangiare senza fede. Dal punto di vista sacramentale e dottrinale, i tre “stati” del Cristo vanno considerati sempre uniti altrimenti la presenza sacramentale o sarebbe riduzione allo stato storico o a quello solo “allegorico”. L’unione di questi tre stati di presenza oggi la chiamiamo ancora “transustanziazione”: e «fintanto che non si sarà trovato un termine migliore, bisognerà continuare sempre a riflettere sul concetto di “transustanziazione”, malgrado il suo carattere paradossale […]. L’insolubile problematica del concetto di “transustanziazione” si è manifestata chiaramente fin dai primordi della sua storia»[13]. Ciò non toglie che l'essenza della partecipazione eucaristica, al di là dello strumento del concetto di “transustanziazione”, è immersione totale nel mistero pasquale dell'autodonazione, della morte cruenta, della gloriosa risurrezione del Cristo, nel quale tutti poniamo e ritroviamo la “nostra” autodonazione, la “nostra” sofferenza e morte, la “nostra” risurrezione. Inoltre, la partecipazione è relativa al “prendere e mangiare” e al “prendere e bere”: ciò che sicuramente non si può fare con i “miracoli” che, per tale motivo, non rivestono il carattere di realtà sacramentale.
È in questa
dinamica misterica e reale che si racchiude e si estende il culto eucaristico:
misterica perché è data nei sacramenti e mai fuori di essi; reale perché i tre
stati del Cristo sono compartecipativi e offerti al vissuto dei battezzati che
nella comunione ecclesiale ne fanno esperienza (e ne hanno percezione) ognuno
secondo la propria coscientizzazione.
Conclusione: critica delle devozioni e salvaguarda dei virtuosi vissuti
personali
Far passare la
doverosa differenziazione tra percezione personale e dottrina sul culto
eucaristico per critica diretta all’esperienza e alle virtù del giovane Carlo,
produce solo due effetti: da una parte, separare radicalmente partecipazione
eucaristica e culto eucaristico fuori dalla messa confondendo il secondo come essenza
del primo; dall’altra, deprimere le virtù di Carlo Acutis, luminose per il suo
vissuto, al rango di sola conoscenza intellettuale come se non fossero state
coinvolte tutte le sue dimensioni percettive. Quelle del beato Carlo Acutis erano
intuizioni personali e adeguate al suo stato di coscientizzazione della “presenza del Cristo eucaristico che dona vita a
tutto”: non erano frutto di elucubrazioni intellettuali soggettive. Esse erano
immerse in una tradizione che rinviava alla percezione della “presenza del
Cristo eucaristico” e non alla “dimostrazione naturalistica” della “reale
presenza”. Se non si distinguono questi piani (percezione mistico-intuitiva-soggettiva
e conoscenza teologico-intellettuale-intersoggettiva) si riduce ogni
sana tradizione a percezione individuale con la conseguenza di fare della fede
una sensazione personale senza ragione condivisa e condivisibile. Ed è proprio
questo uno dei pericoli che conducono sui rivoli del soggettivismo puerile, fideista e sensazionista,
molto più diffuso di quanto si possa pensare: «è “di fede” solo ciò che è
“sentito dai mistici”». Ma questa posizione la Chiesa l’ha sempre emarginata
con il richiamo alla dinamica liturgica (fonte e culmine) e alla lex orandi.
La fede (nei suoi contenuti condivisibili) non è “dottrina statica” ma
immersione nel mistero di Cristo ordinariamente e sacramentalmente
tramandata nella Chiesa che conduce ad una graduale coscientizzazione comune
attraverso l’educazione delle percezioni nella fede: se così non fosse non ci
sarebbero “sacramenti” né “pronunciamenti” della Chiesa a cui pure tanti si
richiamano. D’altra parte, i “pronunciamenti” magisteriali non garantiscono la
percezione dei singoli ma li aiuta nella loro inevitabile ambiguità: non è il
soggetto che “fa la fede” ma è la comunione nel mistero pasquale di Cristo che
rende la fede condivisibile. In quel “mistero” si è condotti ad una graduale
percezione del Cristo, sebbene in modo diverso. Ma la percezione immediata
fuori dal sacramento e dal rito, se non è prolungamento ed estensione della e dalla
celebrazione, è solo illusione.
Relativizzare o ricondurre la “partecipazione attiva” sacramentale a esperienze personali, sebbene virtuose, poste come paradigma di fede, rischia l’intellettualizzazione e il fideismo. Il dibattito nato in questi giorni non è un dito puntato contro le esperienze del beato Acutis ma è il confronto sul linguaggio e sulle ragioni teologiche di chi ne presenta le virtù dimenticando o misconoscendo la centralità della “partecipazione attiva sacramentale” della fede. L’assolutizzazione di una percezione soggettiva sarebbe la negazione della fede come “immersione nel mistero di Cristo celebrato e attuato”, e, dunque, sarebbe negazione della fede tramandata nella e dalla Chiesa che celebra per Cristo, con Cristo e in Cristo nell’attualità della sua presenza sacramentale condivisa, comunicabile e percettibile.
Non è solo questione di linguaggio, ma di patrimonio teologico-spirituale: è questione di prassi e, quindi, dottrina e di vita ecclesiale.
[1] «Una
vero est fidelium universalis Ecclesia extra quam nullus omnino salvatur in qua
idem ipse sacerdos et sacrificium Iesus Christus cuius corpus et sanguis in
sacramento altaris sub speciebus panis et vini veraciter continentur
transsubstantiatis pane in corpus et vino in sanguinem potestate divina ut ad
perficiendum mysterium unitatis accipiamus ipsi de suo quod accepit ipse de
nostro», Concilio Lateranense IV (1215), ribadito dal Concilio di Trento
(1545–1563).
[2] Si vedano
ad esempio: J. Auer – J. Ratzinger, Il mistero
dell’Eucaristia. La dottrina generale dei sacramenti e il mistero
dell’Eucaristia, Cittadella, Assisi 1972, [omissis]; G. Colombo, Teologia sacramentaria,
Glossa, Milano 1997, [omissis]. Su questo punto gli autori sono tutti d’accordo.
Molto meno chiare e condivise sono le proposte di categorie sostitutive. Tale
difficoltà fa propendere per la conservazione del termine “transustanziazione”
nella consapevolezza che si tratta solo di uno strumento logico.
[3] «Ad
tantum vero opus perficiendum, Christus Ecclesiae suae semper adest, praesertim
in actionibus liturgicis». SC 7 [«Per realizzare un'opera così grande,
Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni
liturgiche»].
[4] «Quae
quidem praesentia “realis” dicitur non per exclusionem, quasi aliae “reales”
non sint, sed per excellentiam, quia est substantialis», “excellentia”
viene tradotto con “antonomasia”. Così il testo in italiano: «Tale presenza si
dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per
antonomasia perché è sostanziale». MF n. 40.
[5] «La
Messa è il vero sacrificio di Cristo, che si rende presente in modo incruento
sull’altare». Così il Concilio di Trento: «…In divino hoc sacrificio quod in
Missa peragitur idem ille Christus continetur et incruente immolatur qui in ara
crucis semel se ipsum cruente obtulit». Ovvero: «questo divino sacrificio, che
si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso
Cristo, che si immolò una sola volta cruentemente sull’altare della croce…» (Conc.
Trid., Sess. XXII, cap. 2).
[6] Si noti
che i documenti magisteriali affermano costantemente la natura sacrificale
della celebrazione eucaristica con riferimento alla morte cruenta del Cristo,
ma non articolano la riflessione circa la natura del sacrificio stesso. Cfr. Sacrosanctum
Concilium, n. 47.
[7] «Si deve
credere e non dubitare che, sia sotto la specie del pane che sotto quella del
vino sia contenuto realmente l’intero corpo e sangue del Cristo». Concilio di
Costanza (1415), confermato dal Concilio di Trento. Va sottolineato che il
Concilio di Costanza espresse tale dottrina solo per condannare l’uso della
comunione sotto le due specie offerta ai “laici” voluta dai Boemi, mentre si
ribadiva che “ai soli preti sacrificanti si concedeva l’uso del calice” Cfr. L.
Tosti, Storia del Concilio di
Costanza, Vol. II, Pasqualucci editore, Roma 1887, [omissis].
[8] Il
concetto di “sostanza” ha una storia pluristratificata: dalla Scuola di Elea,
che per prima introdusse la nozione generale di “essenza” (ciò che permane
dietro le apparenze) all’idea (eidos) di Platone (che dà essere e
significato alle cose) e a quella di “sostanza” di Aristotele (ousia,
ovvero l’esiste in sé e non in altro); passando per la teologia trinitaria (la
substantia, ovvero ousia della divnità in tre persone) che in Boezio è la
possibilità di definire il termine stesso di “persona”, oltre Tommaso (che
riprende il sistema aristotelico e lo riorganizza tra essenza suprema
(Creatore) e atto creato (che non è causa di se stesso), fino all’età moderna
in cui, Cartesio, Spinoza, da una parte ne fanno una “res”, mentre altri come
Locke e Hume, ne fanno una l’essenza dell’unione delle qualità sensibili. Si
giunge poi a Kant per il quale la “sostanza” è una categoria gnoseologica (e
non ontologica) con la quale l’intelletto coglie il “ciò che permane nei
fenomeni”. Con l’idealismo tedesco (Hegel, Schelling), la sostanza diventa spirito
o processo dialettico. Nel Novecento, il concetto sopravvive solo in
contesti fenomenologici e teologici ma con determinazioni (e funzioni diverse):
da una parte è categoria gnoseologica, dall’altra ontologica. Per alcuni, ad
esempio, “sostanza” è una struttura di significato derivante dalla percezione
corporale. Il concetto di “sostanza” e quello
sovrapponibile di “essenza” non sono affatto “univoci”.
[9] Si badi
che non esiste celebrazione eucaristica che non sia già “culto eucaristico”:
anzi, essa ne è la fonte.
[10] «Ad
pietatem erga sanctissimum Eucharistiae Sacramentum recte ordinandam et
alendam, mysterium eucharisticum tota sua amplitudine considerandum est tam in
celebratione Missae quam in cultu sacrarum specierum, quae post Missam ad
extensionem gratiae sacrificii asservantur». De sacra communione et de
cultu mysterii eucharistici extra missam, n. 4 (ovvero: «Per ben orientare
la pietà verso il santissimo Sacramento dell’Eucaristia e per alimentarla a
dovere, è necessario tener presente il mistero eucaristico in tutta la sua
ampiezza, sia nella celebrazione della Messa che nel culto delle sacre specie,
conservate dopo la Messa per estendere la grazia del sacrificio». Rito della
comunione fuori della messa e culto eucaristico, n. 4).
[11] Questo la
completa parte del n. 6b: «Unde, ratione signi, magis congruit naturae
sacrae celebrationis ut in altari ubi Missa celebratur praesentia eucharistica
Christi, quae fructus est consecrationis et ut talis apparere debet, non adsit,
quantum fieri potest, iam ab initio Missae per asservationem sanctarum
specierum in tabernaculo».
[12] C. Giraudo, Stupore eucaristico. Per una
mistagogia della Messa alla luce dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia,
LEV, Città del Vaticano 2004, [omissis].
[13] Cfr. J.
Auer – J. Ratzinger, Il mistero dell’Eucaristia. La dottrina
generale dei sacramenti e il mistero dell’Eucaristia, Cittadella, Assisi 1972, [omissis].
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