«Nella commemorazione del corpo e del sangue del tuo Cristo…»

 

 



 

Ancora qualche nota a margine del dibattito/confronto sorto in questi giorni circa l’equilibrio tra culto, devozione, percezione e partecipazione eucaristica.

 




[Vincenzo Civitali, Ciborio, 1581 (angeli di Matteo Civitali 1478 ca), Chiesa di San Martino, Lucca]



Umberto Rosario Del Giudice


 

Qualche verità ritenuta e tre binomi da riprendere (decisamente)

 

Il dibattito sul culto eucaristico e sull’esperienza ad esso legato (iniziato da un primo post di Andrea Grillo) si sta intensificando (tra le varie reazioni, su specie e sostanza di Andrea Grillo, lettera di don Zeno Carra, mio primo intervento, articolo di Giovanni Salmeri, proposta di Pietro Busti).

Purtroppo, bisogna registrare, accanto al dialogo franco, anche reazioni dure fino alla denigrazione e alle offese. Segno che il dialogo teologico è davvero molto compromesso da un clima feroce.

Per chi voglia continuare il confronto sereno, mi permetto di sintetizzare alcuni aspetti e aggiungere, alle varie riflessioni, tre questioni riassuntive qui riprese a mo’ di “binomi” nella consapevolezza che più che essere “quantità matematiche” sono “possibili dinamismi-intenzionali”.

A scanso di equivoci vanno qui ripresi e riportati i principii minimi che la sana tradizione, a partire da sollecitudini storiche ben contestualizzate, ci offre come “verità” e che richiedono precisazioni.

I “dati” sono questi:

Presenza reale di Cristo nell’eucaristia[1]. È importante notare che i testi magisteriali si riferiscono alla “salvezza nella Chiesa” in cui il “sacerdote”, che è anche “sacrificio”, Gesù Cristo, veramente – veraciter – “è contenuto”, attraverso la “transustanziazione”, del pane nel corpo e del vino nel sangue. Si noti pure che non è la “transustanziazione” in sé ad essere “dogma”: lo è la “presenza del Cristo” nelle specie del pane e del vino. La trans-substantiatio è solo uno strumento logico-filosofico per spiegare la “realtà creduta e ritenuta”, com’è stato più volte rilevato già dagli anni ‘70[2]. Si noti pure che la “presenza del Cristo”, per tradizione sana, non è relegata “solo” alle “specie eucaristiche”. La “presenza reale” nell’eucaristia è per antonomasia non per esclusione: anzi sia in Sacrosanctum Concilium (1963)[3] che in Mysterium fidei (1965) si ribadisce che “c’è vera presenza di Cristo” in tutte le azioni liturgiche[4].

Carattere sacrificale della Messa[5]. Carattere sacrificale che non va ridotto ad un semplicistico “do ut des”, ma che va ricondotto alla partecipazione attiva al mistero della morte del Cristo[6].

Comunione sotto una sola specie[7]. La pratica della comunione “sotto le due specie” è stata prima riservata ai soli presbiteri e poi ripresa e auspicata solo da Sacrosanctum Concilio.

Accanto a questi “dati minimi”, su cui tanto è stato scritto con la sapienza di ricondurli al fatto rituale e alla buona prassi ecclesiale, credo sia opportuno offrire brevemente tre binomi di sintesi su cui continuare a dialogare.

 

Assenza-presenza: oltre il semplicistico “realismo-naturalistico”

La “sostanza” non è una questione di “res naturalis”: se l’eucaristia ci salva e ci nutre, bisogna ammettere che essa ci aiuta a non considerare la realtà con gli occhi di soli “indagatori naturalisti”. Insomma, non è sicuramente una squadra della scientifica che ci aiuta a giudicare la verità delle cose. Una analisi dal punto di vista dell’indagine scientifico-naturalistica delle specie eucaristiche, ad esempio, condurrebbe alla constatazione che il pane è pane e il vino è vino. La “verità”, e quindi l’essenza e la sostanza (i due termini nella storia della filosofia si sono equiparati e interscambiati con significati non univoci)[8], non è “naturalistica”: essa è data dalla congiunzione di azione rituale, narrazione, evento, partecipazione e percezione (nella fede). Distinguere e disgiungere azione liturgica e percezione, solo attraverso le quali si “partecipa all’unico evento pasquale” (autodonazione, morte e risurrezione), è non cogliere la “verità” ma solo il dato “realistico-naturalistico” del “pane e del vino”. Un dato però che, senza l’azione sacramentale, non esiste. La “presenza reale” o è mediata a partire dal rito (sebbene spesso ridotto alla sola “consacrazione delle specie attraverso il racconto dell’istituzione”) o, semplicemente, non è… Eppure, solo “quel pane” e “quel vino” sono “presenza”: ma, si badi, non è una presenza fisica-personalistica-storico-unidimensionale (confesso di non aver mai visto la persona di Gesù…): non si tratta di “vedere Gesù” come lo potevano vedere Simon Pietro o Maria di Magdala. Si tratta di “vedere” e “riconoscere” il Cristo nell’azione che ci ripresenta all’unico evento pasquale.

In questo senso, l’assenza fisico-personalistica-storico-unidimensionale passa in secondo piano, anzi è condizione della “presenza reale”, poiché la “presenza” è data dalla percezione mediata dal rito, tant’è vero che senza “epiclesi” non si “produce presenza reale” (mi dispiace usare il verbo “produrre” ma credo meglio renda l’idea a contrasto con un approccio “realistico-naturalista”). Si noti bene che, se Gesù di Nazareth fosse presente nel suo darsi storico, avremmo una presenza storica ma un’assenza eucaristica: nell’eucaristia si ha “assenza storica” che si traduce in “presenza reale” perché nell’azione rituale si è coinvolti nell’unico evento fondante che è “storico-pasquale-sacramentale”: l’evento pasquale. In questo senso, i “miracoli eucaristici” sono “solo” miracoli: dicono in modo “extra-ordinario” (fuori dalla natura delle specie e fuori realtà storico-pasquale-sacramentale) ciò che, nella fede, è “ordinario”: la presenza del Cristo pasquale totale.

Sebbene la teologia non debba occuparsene (poiché i “miracoli” esulano dall’oggetto di fede essendo eventualmente “straordinari” rispetto alla fede pasquale-sacramentale) può sempre cogliere, teologicamente, ciò che i miracoli eventualmente sono: la percezione straordinaria della e nella fede del culto eucaristico. Non un dato ma un possibile fenomeno percettivo. Dunque, non un problema di “sacramentaria” ma uno di percezione (e di antropologia). Qui, dev’essere chiaro, l’accento non è posto su un “fatto di fede” (sebbene possa esserci o non esserci) ma sulla “straordinarietà della percezione” nella fede. La teologia può occuparsi dei “miracoli eucaristici” non per argomentare sull’eucaristia ma sulla percezione del fenomeno eucaristico che, in modo straordinario, può estendersi oltre il rito ma mai senza il rito. Tuttavia, sebbene i “miracoli” non sono e non possono essere “esperienze di fede comune”, è (e dev’essere) comune nella fede la percezione della presenza reale del Signore anche oltre il rito ma mai senza il rito: è su questa consapevolezza della Chiesa che esiste la “riserva eucaristica” e tutte le forme di attenzione eucaristica oltre la celebrazione che, nella tradizione, passa col nome di “culto eucaristico” oggi ripreso nel “De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra missam” (in italiano Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico)[9]. Questo “culto” è una “estensione” della celebrazione eucaristica; esso non è una sua “sintesi cosificata a sé stante” e serve per orientare la “pietà” al sacrificio celebrato, e non viceversa[10]. La presenza eucaristica di Cristo, infatti, «è il frutto della consacrazione, e come tale deve apparire» (Rito della comunione, n. 6b)[11], e la “consacrazione” non è un atto magico e isolato: al contrario, la «transustanziazione, congiuntamente richiesta e operata nell’epiclesi e dalle parole istituzionali, è “pro nobis”, ossia è dinamicamente ordinata all’assemblea cultuale che si raduna per fare la comunione […]. In consonanza con l’intera tradizione cristiana riconosciamo che la consacrazione è il cuore della preghiera eucaristica […]. Come nell’organismo vivente il cuore non può essere isolato dalla compagine degli altri organi, così anche nella preghiera eucaristica la consacrazione non può essere confinata in un suo isolamento aureo»[12].

È il rito che riconduce e unisce fede della e comunione nella “presenza reale”. Non è mai stato il contrario. Va annotato che, dal punto di vista storico, si sono registrati “miracoli eucaristici” in concomitanza con dubbi o dispute filosofiche su “realtà” e “mistero” della eucaristia. I “miracoli” rimandano, dunque, ad un problema di percezione non a questioni di prassi e di patrimonio ecclesiale.

 

Percezione-devozione: tra tradizione e coscientizzazione

A questo punto dovrebbe apparire più chiaro un dato: la “presenza reale eucaristica” non è (e non può essere) un’evidenza naturalistica ma è una percezione evidente della fede e nella fede.

Ma la “percezione” va educata e non solo presunta.

Il fatto che con il solo “uso di ragione” (e la relativa discrezione di giudizio), presunta nei bambini di sette anni di età (cfr. can. 97 §2 e can. 914 CJC), possa esserci la distinzione tra “pane comune” e “pane consacrato” non è minimamente sufficiente per garantire una “percezione eucaristica”, e questo, oggi, per vari motivi tra cui ne segnalo due: da una parte, i ragazzi di oggi all’età di sette anni non sono immersi nel contesto simbolico-sociale dei loro coetanei di cento anni fa: per il vissuto di un bambino di sette anni del 1925, immerso nel lavoro contadino e/o nella società chiusa con tutte le sue gerarchizzazioni, era più “immediata” la dinamica simbolico-rituale di quanto possano concederne lo sfondo narrativo-simbolico dei video-giochi e di YouTube per un bambino di sette anni che, immerso in una società aperta, usa il telefonino nel 2025; dall’altra, la sola distinzione formale tra “pane comune” e “pane consacrato” non è un elemento certo; lo è piuttosto il graduale atteggiamento verso l’eucaristia e la comunione ecclesiale che è frutto di una “coscientizzazione” prolungata e continua che produce partecipazione alla e nella fede al mistero di Cristo, con tutti le sue qualità e le sue “virtù” (non a caso si parla di “prima comunione”, ovvero di apice dell’iniziazione cristiana ma che continua nella partecipazione eucaristica domenicale).

È a questa “coscientizzazione progressiva e virtuosa” che si vuole guardare quando si ammirano e si sottolineano le “virtù” del Beato Carlo Acutis per il quale i racconti dei miracoli eucaristici erano solo un “mezzo” per vivere la sua dimensione teologale (di fede, speranza e carità).

Ma la dottrina eucaristica e la prassi del culto eucaristico non possono restringersi alla (sua) percezione e alla (sua) esperienza personale: come se la virtuosa coscientizzazione o la devozione eucaristica in generale, possano diventare il fine e la natura del culto eucaristico stesso che, come la sana tradizione ricorda e ribadisce, permane solo nel rito celebrato. Confondere percezione e devozione con natura del culto eucaristico è una mistificazione che deprime e non rende giustizia alla virtuosa coscientizzazione e personale percezione di Carlo Acutis il quale, nel suo modo di percepire, aveva colto la natura “pasquale-salvifica” dell’eucaristia. Oggi ammiriamo il suo esempio virtuoso (relativo alla sua percezione) ma che non va confuso come chiave di una dottrina eucaristica. Una cosa è la percezione (prolungata) del culto eucaristico (anche fuori la celebrazione) un’altra è fare di quella percezione il modello sintetico del vissuto eucaristico ecclesiale il quale si nutre di “partecipazione attiva nella comunione”. Se si differenziano i vari livelli, la virtù personale di un ragazzo adolescente e della sua percezione è salva; e lo è anche il dato dottrinale che lega rito e culto. Invertire l’ordine dei termini e ridurre il secondo dato alla personale percezione è minare sia la partecipazione eucaristica sia la virtù della percezione del beato.

Se da un lato vi è una ripresentazione dell’unico mistero pasquale, dall’altra vi è la graduale e continua formazione e coscientizzazione a e di questo mistero. La “coscienza” non è una scatola chiusa di idee chiare e distinte ma è flusso continuo di intersoggettivizzazioni. Ragion per cui, tale fenomeno è legato alla “comunione ecclesiale” che “tramanda” il mistero pasquale; e l’iniziazione cristiana, cammino graduale e progressivo, ce lo ricorda proprio con quell'apice che è sempre anche fonte: la celebrazione eucaristica.

 

La dinamica realtà-mistero

Circa la comprensione della presenza reale, tra realtà e mistero, riprendendo quanto già accennato, basti focalizzare alcuni elementi. In genere bisogna distinguere almeno tre forme di esistenza di Cristo:

§  lo stato connaturale e mortale del Gesù storico;

§  lo stato connaturale glorioso del Cristo risorto;

§  lo stato sacramentale (detto anche antitipico o simbolico) del Cristo nei sacramenti (e, per antonomasia, nell’eucaristia).

Se si tiene conto soltanto del primo stato, si potrebbe addirittura pensare a una manducazione cafarnaica, ovvero ad un mangiare senza fede. Dal punto di vista sacramentale e dottrinale, i tre “stati” del Cristo vanno considerati sempre uniti altrimenti la presenza sacramentale o sarebbe riduzione allo stato storico o a quello solo “allegorico”. L’unione di questi tre stati di presenza oggi la chiamiamo ancora “transustanziazione”: e «fintanto che non si sarà trovato un termine migliore, bisognerà continuare sempre a riflettere sul concetto di “transustanziazione”, malgrado il suo carattere paradossale […]. L’insolubile problematica del concetto di “transustanziazione” si è manifestata chiaramente fin dai primordi della sua storia»[13]. Ciò non toglie che l'essenza della partecipazione eucaristica, al di là dello strumento del concetto di “transustanziazione”, è immersione totale nel mistero pasquale dell'autodonazione, della morte cruenta, della gloriosa risurrezione del Cristo, nel quale tutti poniamo e ritroviamo la “nostra” autodonazione, la “nostra” sofferenza e morte, la “nostra” risurrezione. Inoltre, la partecipazione è relativa al prendere e mangiare e al prendere e bere: ciò che sicuramente non si può fare con i miracoli che, per tale motivo, non rivestono il carattere di realtà sacramentale.

È in questa dinamica misterica e reale che si racchiude e si estende il culto eucaristico: misterica perché è data nei sacramenti e mai fuori di essi; reale perché i tre stati del Cristo sono compartecipativi e offerti al vissuto dei battezzati che nella comunione ecclesiale ne fanno esperienza (e ne hanno percezione) ognuno secondo la propria coscientizzazione.

 

Conclusione: critica delle devozioni e salvaguarda dei virtuosi vissuti personali

 

Far passare la doverosa differenziazione tra percezione personale e dottrina sul culto eucaristico per critica diretta all’esperienza e alle virtù del giovane Carlo, produce solo due effetti: da una parte, separare radicalmente partecipazione eucaristica e culto eucaristico fuori dalla messa confondendo il secondo come essenza del primo; dall’altra, deprimere le virtù di Carlo Acutis, luminose per il suo vissuto, al rango di sola conoscenza intellettuale come se non fossero state coinvolte tutte le sue dimensioni percettive. Quelle del beato Carlo Acutis erano intuizioni personali e adeguate al suo stato di coscientizzazione della “presenza del Cristo eucaristico che dona vita a tutto”: non erano frutto di elucubrazioni intellettuali soggettive. Esse erano immerse in una tradizione che rinviava alla percezione della “presenza del Cristo eucaristico” e non alla “dimostrazione naturalistica” della “reale presenza”. Se non si distinguono questi piani (percezione mistico-intuitiva-soggettiva e conoscenza teologico-intellettuale-intersoggettiva) si riduce ogni sana tradizione a percezione individuale con la conseguenza di fare della fede una sensazione personale senza ragione condivisa e condivisibile. Ed è proprio questo uno dei pericoli che conducono sui rivoli del soggettivismo puerile, fideista e sensazionista, molto più diffuso di quanto si possa pensare: «è “di fede” solo ciò che è “sentito dai mistici”». Ma questa posizione la Chiesa l’ha sempre emarginata con il richiamo alla dinamica liturgica (fonte e culmine) e alla lex orandi. La fede (nei suoi contenuti condivisibili) non è “dottrina statica” ma immersione nel mistero di Cristo ordinariamente e sacramentalmente tramandata nella Chiesa che conduce ad una graduale coscientizzazione comune attraverso l’educazione delle percezioni nella fede: se così non fosse non ci sarebbero “sacramenti” né “pronunciamenti” della Chiesa a cui pure tanti si richiamano. D’altra parte, i “pronunciamenti” magisteriali non garantiscono la percezione dei singoli ma li aiuta nella loro inevitabile ambiguità: non è il soggetto che “fa la fede” ma è la comunione nel mistero pasquale di Cristo che rende la fede condivisibile. In quel “mistero” si è condotti ad una graduale percezione del Cristo, sebbene in modo diverso. Ma la percezione immediata fuori dal sacramento e dal rito, se non è prolungamento ed estensione della e dalla celebrazione, è solo illusione.

Relativizzare o ricondurre la “partecipazione attiva” sacramentale a esperienze personali, sebbene virtuose, poste come paradigma di fede, rischia l’intellettualizzazione e il fideismo. Il dibattito nato in questi giorni non è un dito puntato contro le esperienze del beato Acutis ma è il confronto sul linguaggio e sulle ragioni teologiche di chi ne presenta le virtù dimenticando o misconoscendo la centralità della “partecipazione attiva sacramentale” della fede. L’assolutizzazione di una percezione soggettiva sarebbe la negazione della fede come “immersione nel mistero di Cristo celebrato e attuato”, e, dunque, sarebbe negazione della fede tramandata nella e dalla Chiesa che celebra per Cristo, con Cristo e in Cristo nellattualità della sua presenza sacramentale condivisa, comunicabile e percettibile.

Non è solo questione di linguaggio, ma di patrimonio teologico-spirituale: è questione di prassi e, quindi, dottrina e di vita ecclesiale.



[1] «Una vero est fidelium universalis Ecclesia extra quam nullus omnino salvatur in qua idem ipse sacerdos et sacrificium Iesus Christus cuius corpus et sanguis in sacramento altaris sub speciebus panis et vini veraciter continentur transsubstantiatis pane in corpus et vino in sanguinem potestate divina ut ad perficiendum mysterium unitatis accipiamus ipsi de suo quod accepit ipse de nostro», Concilio Lateranense IV (1215), ribadito dal Concilio di Trento (1545–1563).

[2] Si vedano ad esempio: J. Auer – J. Ratzinger, Il mistero dell’Eucaristia. La dottrina generale dei sacramenti e il mistero dell’Eucaristia, Cittadella, Assisi 1972, [omissis]; G. Colombo, Teologia sacramentaria, Glossa, Milano 1997, [omissis]. Su questo punto gli autori sono tutti d’accordo. Molto meno chiare e condivise sono le proposte di categorie sostitutive. Tale difficoltà fa propendere per la conservazione del termine “transustanziazione” nella consapevolezza che si tratta solo di uno strumento logico.

[3] «Ad tantum vero opus perficiendum, Christus Ecclesiae suae semper adest, praesertim in actionibus liturgicis». SC 7 [«Per realizzare un'opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche»].

[4] «Quae quidem praesentia “realis” dicitur non per exclusionem, quasi aliae “reales” non sint, sed per excellentiam, quia est substantialis», “excellentia” viene tradotto con “antonomasia”. Così il testo in italiano: «Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia perché è sostanziale». MF n. 40.

[5] «La Messa è il vero sacrificio di Cristo, che si rende presente in modo incruento sull’altare». Così il Concilio di Trento: «…In divino hoc sacrificio quod in Missa peragitur idem ille Christus continetur et incruente immolatur qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit». Ovvero: «questo divino sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si immolò una sola volta cruentemente sull’altare della croce…» (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2).

[6] Si noti che i documenti magisteriali affermano costantemente la natura sacrificale della celebrazione eucaristica con riferimento alla morte cruenta del Cristo, ma non articolano la riflessione circa la natura del sacrificio stesso. Cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 47.

[7] «Si deve credere e non dubitare che, sia sotto la specie del pane che sotto quella del vino sia contenuto realmente l’intero corpo e sangue del Cristo». Concilio di Costanza (1415), confermato dal Concilio di Trento. Va sottolineato che il Concilio di Costanza espresse tale dottrina solo per condannare l’uso della comunione sotto le due specie offerta ai “laici” voluta dai Boemi, mentre si ribadiva che “ai soli preti sacrificanti si concedeva l’uso del calice” Cfr. L. Tosti, Storia del Concilio di Costanza, Vol. II, Pasqualucci editore, Roma 1887, [omissis].

[8] Il concetto di “sostanza” ha una storia pluristratificata: dalla Scuola di Elea, che per prima introdusse la nozione generale di “essenza” (ciò che permane dietro le apparenze) all’idea (eidos) di Platone (che dà essere e significato alle cose) e a quella di “sostanza” di Aristotele (ousia, ovvero l’esiste in sé e non in altro); passando per la teologia trinitaria (la substantia, ovvero ousia della divnità in tre persone) che in Boezio è la possibilità di definire il termine stesso di “persona”, oltre Tommaso (che riprende il sistema aristotelico e lo riorganizza tra essenza suprema (Creatore) e atto creato (che non è causa di se stesso), fino all’età moderna in cui, Cartesio, Spinoza, da una parte ne fanno una “res”, mentre altri come Locke e Hume, ne fanno una l’essenza dell’unione delle qualità sensibili. Si giunge poi a Kant per il quale la “sostanza” è una categoria gnoseologica (e non ontologica) con la quale l’intelletto coglie il “ciò che permane nei fenomeni”. Con l’idealismo tedesco (Hegel, Schelling), la sostanza diventa spirito o processo dialettico. Nel Novecento, il concetto sopravvive solo in contesti fenomenologici e teologici ma con determinazioni (e funzioni diverse): da una parte è categoria gnoseologica, dall’altra ontologica. Per alcuni, ad esempio, “sostanza” è una struttura di significato derivante dalla percezione corporale. Il concetto di “sostanza” e quello sovrapponibile di “essenza” non sono affatto “univoci”.

[9] Si badi che non esiste celebrazione eucaristica che non sia già “culto eucaristico”: anzi, essa ne è la fonte.

[10] «Ad pietatem erga sanctissimum Eucharistiae Sacramentum recte ordinandam et alendam, mysterium eucharisticum tota sua amplitudine considerandum est tam in celebratione Missae quam in cultu sacrarum specierum, quae post Missam ad extensionem gratiae sacrificii asservantur». De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra missam, n. 4 (ovvero: «Per ben orientare la pietà verso il santissimo Sacramento dell’Eucaristia e per alimentarla a dovere, è necessario tener presente il mistero eucaristico in tutta la sua ampiezza, sia nella celebrazione della Messa che nel culto delle sacre specie, conservate dopo la Messa per estendere la grazia del sacrificio». Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, n. 4).

[11] Questo la completa parte del n. 6b: «Unde, ratione signi, magis congruit naturae sacrae celebrationis ut in altari ubi Missa celebratur praesentia eucharistica Christi, quae fructus est consecrationis et ut talis apparere debet, non adsit, quantum fieri potest, iam ab initio Missae per asservationem sanctarum specierum in tabernaculo».

[12] C. Giraudo, Stupore eucaristico. Per una mistagogia della Messa alla luce dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, LEV, Città del Vaticano 2004, [omissis].

[13] Cfr. J. Auer – J. Ratzinger, Il mistero dell’Eucaristia. La dottrina generale dei sacramenti e il mistero dell’Eucaristia, Cittadella, Assisi 1972, [omissis].

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