Strade aperte e Codice chiuso?
Dal Sinodo alla riforma (del Diritto): un cammino tra istituzione e intuizione, una sfida che parte dalle possibilità di declinare il ministero del diaconato e rimanda ai nodi del Codice di Diritto canonico.
Umberto Rosario Del Giudice
La lettura
sinottica di due testi mi aiuta a tornare su argomenti per me fondamentali. Su
invito del caro prof. Giuseppe Guglielmi, ho letto il bell’articolo di Cesare
Baldi[1]
intitolato “Sassi sul cammino sinodale. Una proposta per sgomberare dal Codice
visioni ecclesiali medievali” (Il Regno - Attualità, n. 18/2025, pp.
512–516).
Oltre che
trovarmi d’accordo, ho provato a coordinare le richieste e preoccupazioni dell’autore
(le prime e le seconde del tutto condivisibili) con le indicazioni del Gruppo
di Studio n. 5 del Sinodo (Dicastero per la Dottrina della fede), che lavora
sul tema “Alcune questioni teologiche e canonistiche intorno a specifiche
forme ministeriali” e che Andrea Grillo aveva postato poco tempo fa con suoi
(sempre) precisi commenti didascalici (Il
ministero ecclesiale e le donne: lo stato dell’arte del Gruppo 5).
Nel confronto
tra i due testi ne risulta da una parte una preoccupazione istituzionale (quella
del Gruppo 5) e dall’altra una pragmatico-pastorale che (per chi scrive) vuol
dire anche sistematica.
Il Gruppo 5
ha assunto sicuramente un approccio istituzionale, tuttavia, come evidenzia
Andrea Grillo, vi sono segni di apertura progressiva e di maggiore inclusione
delle donne attraverso un dibattito più articolato rispetto al precedente
lavoro del Sinodo, con attenzione particolare al tema del diaconato femminile.
Grillo
sottolinea l’importanza del riferimento all’«enorme materiale» inviato al
Dicastero e alla consultazione di numerose donne già coinvolte nella guida
ecclesiale e lo interpreta come un cambio di passo rispetto ai progetti
precedenti. Materiale che rimanda anche alla ricostruzione storica e metodologica
di lavoro del Gruppo 5 che sembra indicare un’evoluzione interna ai lavori, con
l’apertura di nuovi ambiti di riflessione e discernimento non previsti
inizialmente. Vi è il tentativo di offrire un quadro completo del dibattito
sinodale, mostrando le diverse opzioni aperte dalla riflessione teologica e
pastorale e l’Appendice appare come una documentazione preziosa e ampliata
rispetto a quanto anticipato un anno prima includendo varie argomentazioni su
questioni specifiche.
Se da una
parte il lavoro del Gruppo 5 appare come una “progressione istituzionale”, dall’altra
l’articolo di Baldi denuncia non poche preoccupazioni. È il Codice che, nella
sua struttura interna e, direi, fondazionale deve cambiare rispetto ad alcuni
temi.
Il dibattito
sulla sinodalità, così come emerge dalle riflessioni di Cesare Baldi, si
colloca in un momento cruciale della vita ecclesiale. Il Sinodo dei vescovi,
avviato da papa Francesco e destinato a proseguire fino all’assemblea
ecclesiale del 2028, ha suscitato speranze e aperture pastorali, ma resta
ancora incerta la sua capacità di incidere sulla reale riforma delle strutture
giuridiche della Chiesa. La domanda di fondo è chiara: il processo
sinodale rimarrà un’esperienza spirituale e affettiva, o saprà trasformarsi in
riforma concreta?
Ecco i temi richiamati
da Baldi e articolati come dieci ostacoli e che di seguito riporto a mo’ di elenco:
1.
Il clericalismo giuridico (can. 129, §1) La potestà di governo riservata ai
soli ordinati sancisce una separazione ingiustificata tra clero e laici,
creando una casta privilegiata. Per Baldi, questo è il fondamento del
clericalismo che divide il popolo di Dio. D’altra parte (e molti canonisti lo
sanno) “cooperare” non significa non averne già la possibilità per battesimo. Lo
stretto legame tra potestas e ordine è dovuto ad una recente impostazione
dottrinale. E questo va ricordato.
2.
Il ruolo subordinato dei laici (can. 129, §2) I laici possono solo “cooperare” al
potere clericale, senza autonomia. In una Chiesa sinodale, invece, la comunità
dovrebbe riconoscere e affidare ministeri in base ai carismi, non per
cooptazione dall’alto ma per collaborare a partire dai munera battesimale.
3.
L’esclusività maschile del ministero ordinato (can. 1024) L’ordinazione riservata agli uomini
è vista come un retaggio culturale, non evangelico. Cambiare “vir” in
“christifidelis” basterebbe a superare una discriminazione che divide il popolo
di Dio. Per questo basta rimandare ad Andrea Grillo che ha scritto testi che
fanno scuola e che ho commentato in varie occasioni.
4.
Il potere sovrano dei vescovi (can. 381, §1) Il vescovo è descritto come monarca
assoluto della diocesi. Questo modello, assimilabile a una monarchia, contrasta
con la fraternità richiesta dalla sinodalità e soffoca la partecipazione
comunitaria.
5.
L’anonimato della parrocchia (can. 518) La parrocchia è definita per territorio, non come
comunità di fedeli. In un mondo mobile e relazionale, questo criterio
geografico riduce la parrocchia a un’assemblea anonima, priva di
rappresentanza. La parrocchia territoriale è davvero intollerabile…
6.
La piramide decisionale (can. 532) Il parroco è l’unico rappresentante della parrocchia, come
il vescovo per la diocesi. La comunità scompare nei “negozi giuridici”, e la
gestione partecipativa resta impossibile.
7.
La voce consultiva dei consigli (can. 536, §2) I consigli pastorali hanno solo voto
consultivo, e non sono obbligatori. La loro irrilevanza mostra quanto poco il
diritto canonico valorizzi la dimensione pastorale rispetto a quella
amministrativa. A parte che in alcuni casi il Consiglio Pastorale diventa una
buona riunione dove dare direttive e il Consiglio di Affari economici spesso un
miraggio…
8.
La liturgia senza fedeli (can. 837, §2) Dopo aver affermato che la liturgia è azione
comunitaria, il Codice aggiunge l’inciso “quando ciò è possibile”, che svuota
di forza l’obbligo della partecipazione. L’eucaristia rischia così di ritornare
ad essere (o ad essere compreso come) un atto del tutto individuale.
9.
La nozione di “sudditi” (can. 87, §1 e altri) Parlare di sudditi implica sovrani e
perpetua una visione feudale della Chiesa. Contrasta con l’uguaglianza
proclamata dal Concilio Vaticano II e con l’idea di comunità fraterna.
10. La carità dimenticata (can. 375, §1) Il Codice attribuisce ai vescovi
funzioni di dottrina, culto e governo, ma non menziona la carità. Una lacuna
sorprendente, già segnalata da Benedetto XVI, che priva la Chiesa di uno dei
suoi compiti fondamentali.
Insomma, il
cammino appare lungo.
Tuttavia è
chiaro che, se la possibilità di un diaconato al femminile aprirà nuove
prospettive, nondimeno la struttura fondamentale del Codice rimane problematica
e ancorata ad una visione ecclesiale legata alla società dell’onore e della
dignità solo ordinata. Le battezzate e i battezzati appaiono ancora a latere,
di spalla, come ombre.
Mi sembra
che la sfida rimanga aperta e difficile se il Codice rimane chiuso.
[1] Cesare
Baldi, teologo con un profilo fortemente missionario e pastorale. Sacerdote
della diocesi di Novara, missionario per molti anni in Africa (Ciad, Costa
d’Avorio, Algeria) è attualmente direttore dell’Istituto Pastorale di Studi
Religiosi (IPER) dell’Università Cattolica di Lione. Tra le sue pubblicazioni Il
popolo è la Chiesa. La comunità: soggetto pastorale delle funzioni regale,
sacerdotale e profetica (Paoline, Milano 2024) e Riunire i dispersi.
Lineamenti di pastorale missionaria (Tab Edizioni, Roma 2021).

Commenti
Posta un commento