Fare teologia oggi: elementi di dibattito a partire dalle riflessioni di Andrea Grillo
Fare teologia è un compito e un dono. All'inizio di questo secolo il compito della teologia appare delicato: ridire, ripensare, riformulare. Non si tratta solo di dire cose vecchie con nuove parole ma aprire percorsi nuovi perché la saggezza antica risplenda nella fede della Chiesa di oggi. Andrea Grillo è uno dei teologi più fecondi nel tracciare la strada alla teologia contemporanea. Il cammino è un dono che si fa compito anche e oltre i nostri contesti culturali (europei e occidentali). Un cammino non lineare?
Umberto Rosario Del Giudice
Fare teologia oggi: sull’invito di Grillo
In questi
giorni è stato pubblicato
su YouTube sul canale dell’Instituto Humanitas Unisinos, un bell’intervento
di Andrea Grillo che ha offerto alcuni elementi fondamentali utili alla riflessione
teologica contemporanea. Alcune note intuizioni e riflessioni di Grillo mi
hanno sempre accompagnato in questi anni che mi hanno visto passare lentamente
da essere un suo studente a occuparmi di teologia e diritto canonico.
Proprio nel
mio insegnamento però ho riscontrato le difficoltà che molti studenti non
europei incontrano nell’accettare e nel comprendere i passi, lenti ma inesorabili,
del magistero oltre che della teologia.
Tra le varie
indicazioni di Grillo possono assolutamente essere considerati come dati
imprescindibili (per la teologia a cavallo tra XX e XXI secolo) due atteggiamenti,
uno ecclesiale e uno sociale: il primo Grillo lo chiama “dispositivo di blocco”;
il secondo, riprendendo Charles Taylor (e il suo Il disagio della modernità),
è riferibile al “passaggio dalla società dell’onore a quella della dignità”.
Quest’ultimo
atteggiamento è un fenomeno che rivela due modi di concepire e abitare la
società, la cultura, la fede e le relazioni. Un atteggiamento che segna anche il
passaggio dalla comprensione rigida e stabile della società ad una più “aperta”
in cui le relazioni non sono segnate dallo status ma dalle scelte e alla cui
base vi è il rispetto delle singolarità e delle libertà. Questo atteggiamento è
proprio della cultura moderna contro cui la Chiesa inizialmente si è come
scagliata (nella preoccupazione di vedere crollare le stratificazioni sociali e,
con esse, le certezze dottrinali). È noto che nella storia il rimando ad un “ordine
stabilito” (e “stabile”) è una sicura àncora per una visione mitologizzata (e
apologetica) della realtà oltre che della fede. D’altra parte, anche il continuo
e imperturbabile ricorso al concetto di “causa” che la teologia ha fatto
(soprattutto con la neoscolastica), sta a dimostrare che un certo determinismo “culturale”
nonché “naturale”, fa il gioco di un approccio apologetico (quanto antimoderno).
L’impostazione per la quale tutto ha una causa originaria e tutto ha un proprio
scopo (nel disegno del “Creatore”) aiuta a sostenere l’idea di un ordine
gerarchico delle cose e dei soggetti. In questa visione una società chiusa non
solo è funzionale ma è anche l’unica possibile.
Per quanto
mi riguarda (e non so se Andrea Grillo approva), in questa chiave di lettura e con
finalità antimodernistiche potrebbe essere letto anche il cosiddetto “dispositivo
di blocco” (categoria propria di Grillo), ovvero quell’altro atteggiamento che
ha come sfondo quell’idea che la Chiesa non può decidere su molti temi,
attribuendo tutta l’autorità solo al passato e, di fatto, dichiarandosi “indisponibile”
a decidere circa (e a vedere) quelle realtà che la società della dignità (e aperta) le
mette dinanzi.
Da qui l’invito
di Grillo (che credo poter sintetizzare così – lasciando ogni vera interpretazione
delle proposte ovviamente all’autore stesso–): per fare teologia oggi non
bisogna essere influenzati dalla impostazione di visioni e linguaggi antimoderni,
burocratici e istituzionali della fede. Anzi, bisogna continuare, anche sulle
orme di Papa Francesco, con una visione sinodale per superare quella impostazione
di chiusura stessa della fede nelle categorie istituzionali. In quest’ottica
bisogna superare il modello antimoderno e le sue rigidità; abbracciare una
teologia della dignità, capace di riconoscere l’uguaglianza e la libertà come
fondamenti; rinnovare il linguaggio per una Chiesa davvero sinodale e aperta al
futuro.
Non posso
che seguire ed essere d’accordo con questa impostazione.
Oggi fare
teologia significa davvero ridire la tradizione senza paura dei “segni dei
tempi”, ovvero senza avere paura di imparare da ciò che ci circonda. Anche perché
non sarebbe pienamente “tradizionale” non imparare dai contesti: il
cristianesimo l’ha sempre fatto e si è sempre ripensato cercando e trovando
modi per dirsi e ripensarsi seguendo i parametri della società in cui viveva e
che erano presupposti impliciti del suo stesso pensare (Tommaso ne è stato un
maestro). Urge dunque un nuovo linguaggio teologico che ridica la fede restituendo
alla teologia una concretezza capace di dare alla fede la dignità di essere
esperienza delle vie in cui Dio si dice incontrando l’uomo, senza ridursi ad
essere logiche ambigue e irreali che pretendono di “dire un Dio” che sta solo
nelle teste e dimentica i contesti. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe,
è tale perché è seguito ma anche perché segue i percorsi degli uomini di fede.
La questione: oltre i contesti e per i contesti
A mio modo
di vedere, qui però si apre una questione. Essa non nasce da una sensazione ma
da esperienze personali, da “fenomeni”.
Se la teologia si deve fare cogliendo il passaggio epocale dalla società dell’onore alla società della dignità e se la Chiesa garante della società dell’onore si traduce in dispositivo di blocco, come si fa invece a parlare in quei contesti sociali in cui quel passaggio non c’è stato (ancora) e in cui il vero “blocco” viene dalle società piuttosto che dalla Chiesa?
In altre
parole, se in ambito “europeo-occidentale” (inteso per occidentale anche il fronte
“americano” nella sua accezione ampia), il passaggio annotato da Taylor è,
potremmo dire, consumato, come ripensare linguaggi teologici per quei contesti le
cui culture non solo non hanno registrato il passaggio dall’onore alla dignità
e dalla chiusura alla apertura delle relazioni sociali ma criticano fortemente
(chiudendosi ancor di più) l’approccio “occidentale”?
Penso ad
alcuni “cristianesimi” (mi si lasci l’espressione) africani, asiatici,
mediorientali. In quei rispettivi continenti alcune posizioni delle conferenze
episcopali rispecchiano la visione di una società ancora ancorata ai linguaggi
delle “caste”, delle “funzioni”, delle “dignità diverse”.
Basti pensare
a quei paesi in cui l’omosessualità è sanzionata da pene che vanno dai due a trent’anni di carcere; o riandare con la mente a quei contesti in cui una relazione
matrimoniale fuori dal sacramento non solo pone fuori dalla Chiesa ma anche fuori
dalla famiglia… Contesti in cui la possibile preghiera per le coppie dello
stesso sesso è fortemente osteggiata e il possibile accompagnamento di coppie
non sposate appare utopico poiché quelle “unioni” sono un “grande disonore”
piuttosto che una “vera possibilità”. Senza parlare della percezione che le donne hanno di sé in quelle culture in cui la donna non ha autorità e non se la “sente cucita addosso”.
I nostri studenti africani, come quelli asiatici, fanno molta difficoltà a comprendere non solo il nostro contesto culturale (e storico) ma anche il nostro linguaggio teologico che cerca di guardare alle prassi con nuova consapevolezza. Anche solo parlare di "domenica" non come precetto ma come tempo di dono vissuto con e per la propria libertà diventa difficile per coloro che vivono in contesti in cui o si lavora o... si indossa l'abito della domenica (con tutto ciò che questo significa dal punto di vista sociale e per la percezione delle appartenenze religiose).
Ma c’è di
più: quei contesti culturali non sono forse molto lontani dal fronte più
reazionario nostrano. Chi fa fatica a vedere la “dignità” delle persone, non
riuscendo a pensare alle persone, ce lo ritroviamo anche “in casa”. E se nel
nostro “antico occidente” il cammino della cultura della dignità è inesorabile,
in quei contesti, in cui il cammino non sembra ancora iniziato, l’incomprensione
è palese, e con essa l’irrigidimento. Ce lo ricordano le reazioni delle
Conferenze episcopali a quelle poche indicazioni di papa Francesco che tentava
di aprire il linguaggio e lo sguardo del magistero (e della teologia) su tutte
le realtà (in cui Dio non si nasconde e per le quali Dio non può essere nascosto).
Sicuramente il
passaggio alla fondamentale dignità e alla dignità fondante di ogni persona,
donna e uomo che sia, non può arrestarsi. Ma intanto abbiamo un problema di linguaggio
teologico che non sembra essere immediatamente condivisibile con e per tutti. Per
questo la questione non si ferma alla sola teologia “europea-occidentale” ma travalica
i suoi confini nel momento in cui è il magistero petrino stesso ad essere chiamato
ad offrire linguaggi e percorsi illuminati e realistici per una Chiesa che si
deve sempre più pensare in cammino, aperta e non in uno stile “antimodernistico”.
Il cammino
forse non è lungo ma sicuramente complesso.
Le indicazioni di Grillo rimangono dunque non solo preziose per la teologia “nostrana” ma aiutano ad accendere i riflettori sulla necessità di articolare un linguaggio che favorisca uno stile “cristiano” che aiuti ogni donna e ogni uomo a riconoscere la dignità propria e dell’altro. Un linguaggio che può davvero rendere le culture più forti nel condividere ciò che in esse non deve morire e ciò che, al contrario, di esse può lasciare il posto alla luce del Cristo che rende “degni e santi” in ogni tempo e in ogni luogo, oltre i tempi e oltre i luoghi. Fare teologia uscendo dalla logica burocratica e istituzionale può essere l'occasione per illuminare contesti non “europei” divenendo atto politico di un cristianesimo capace di creare spazi di dignità. Ma il cammino non appare né semplice né lineare.
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