Teologia da clic?



Se si scambia la vocazione teologica con la libertà di espressione religiosa postata sui social, la fede cristiana rischia di perdere la sua ragionevolezza e autorevolezza. C’è bisogno di libertà di espressione per tutti ma anche che tutti riconoscano le competenze specifiche dei singoli campi di indagine e di ruoli. Eppure, il “sensus fidei socialis” sta aiutando a declinare gli elementi attuali di un certo irrequieto “sensus fidei fidelis”.

 

Umberto Rosario Del Giudice

 

Un “sensus fidei socialis”?

I social possono aiutare la discussione, il dialogo, la riflessione anche tra persone che non si sono mai “viste” e la cui forma di “amicizia” rimane “digitale”.

Una ricchezza per molti aspetti.

Eppure, possono anche creare la convinzione che “tutti possono parlare di tutto”: uno degli ambiti in cui molti sono “più attivi” è quello religioso. Molti “profili” diventano così “esperti teologi”.

È bene accogliere tutte le “parole dette e scritte” come indicazioni di un senso comune sulla fede; ma queste convinzioni personali conservano l’esigenza di un coraggio per un confronto con la ragionevolezza teologica. Se non c’è questa esigenza, si rischia l’ideologia e il relativismo.

La teologia non si può arrestare nello stretto spazio di una presunta “e-leadership”: la teologia ha bisogno di competenze culturali e professionali precise che non si fermano agli studi per la formazione sacerdotale.

Le libere convinzioni spesso hanno bisogno di essere liberate.

Beninteso: tutti possono esprimere la propria opinione; pochi possono indicare un’opinione fondata su cui riflettere e che oggi possa indicare strade di “vita cristiana” e per la “comunità ecclesiale”.

La teologia non si ferma neanche all’autoritarismo: gli argomenti “ex autoritate” allontanano non solo i fedeli dalle comunità ma anche la ragione dalla possibilità di scorgere verità.

Certo è che i “social” forniscono un “metro” di misura sulle convinzioni più comuni ma anche i caratteri delle questioni che più stanno a cuore a “tutti i fedeli”. E per questo, i social diventano un ottimo indicatore del “sensus fidei”.

 

Brevi indicazioni per una riflessione continua

In quest’ultimo finesettimana di pausa estiva e prima di riprendere ogni attività meglio darsi alcune piste di riflessioni e di approfondimento: in realtà non credo che un “teologo” possa del tutto dimenticare la sua attività (si riflette bene anche sotto l’ombrellone o davanti a un buon piatto di cucina tradizionale); in ogni caso meglio riprendere l’anno accademico con qualche riferimento puntuale.

Presupposto che la vocazione teologica è immersa nella vita cristiana e di essa fa parte, va ricordato che essa richiede competenze specifiche. Non si tratta di essere “migliori cristiani”, ma di immergersi in un complesso mondo di saperi vari per tentare di parlare all’uomo di se stesso piuttosto agli uomini di Dio: il teologo sa che Dio ha la migliore parola su se stesso per poter parlare a ciascuno. Ma sa anche che spesso le logiche umane si sovrappongono, si incrociano, si mescolano fino a creare immagini della vita cristiana e di Dio stesso confuse se non addirittura distorte.

Per questo i compiti del teologo oggi appaiono vari. Provo a indicare alcune piste che non credo non dover trascurare per non rimanere un “buon catechista”.

 

Piste di riflessione

Gli ambiti di riflessione personale sono anche lo spettro dell’esigenze ecclesiali. Quelli elencati di seguito, credo siano aspetti sostanziali della vocazione teologica attuale; su essi vorrò lavorare nel prossimo anno accademico; ambiti che propongo alla riflessioni di tutti.

In modo particolare:

·        attenzione al dato biblico da usare non come citazione avulsa ma come contesto in cui ragionare;

·        uso del dato biblico come esperienza e non come garanzia a posteriori di affermazioni sistematiche;

·        attenzione al Concilio Vaticano II senza relegarlo a “puro pastoralismo” e senza dimenticare la produzione costitutiva di quell’assise per un’ermeneutica dalla quale nessuna teologia e nessun diritto canonico “pò scappare”;

·        superare l’impostazione (diffusa) di una visione ipertrofica del ministero sacerdotale;

·        approfondire il termine “sacrificio” come dimensione della rivelazione della libertà dell’uomo liberandolo dal suo “peso antico e religioso”;

·        proporre la revisione dell’esercizio di un’autorità gerarchica (spesso ancora troppo arbitraria);

·        proporre dinamiche (comunionali oltre che giuridiche) per superare l’eccessiva istituzionalizzazione ecclesiale;

·        aiutare a radicalizzare la natura sinodale delle pratiche della fede in una revisione formale che tenga distinte le pratiche ecclesiali ma che sappia sapientemente far interagire diritto, liturgia e morale;

·        dimensione storica: non tralasciare mai la storia del cristianesimo, del cattolicesimo e delle religioni in genere: la storia ci aiuta a conoscere gli elementi da valorizzare e i limiti da tralasciare;

·        la stessa pista storica aiuta il teologo a evitare di usare la tradizione mortificandola più che interpretandola e valorizzarne le radicali e antiche “novità evangeliche”;

·        coltivare la tradizione senza idealizzarne le forme;

·        tutelare la tradizione cogliendone la potenziale ricchezza per l’oggi proponendo interpretazioni valide e fondate;

·        dimensione giuridica: il diritto canonico soffre sia la presunzione delle posizioni di una profonda antigiuridicità sia quella autoritaria di chi fa uso del diritto senza coglierne la logica: la difesa dei diritti di tutti, soprattutto dei battezzati e delle relazioni fra essi.

Questi aspetti sono lo sfondo di molte questioni attuali e darne una “interpretazione ragionata” può essere utile a molti.

 

Vocazione teologica come “prendere parola”

In altre parole, si tratta di riflettere e di prendere la parola. Non a caso tempo fa Andrea Grillo scriveva che, davanti alle approssimazioni autoritarie e alle ambiguità, «al cristiano sono aperte molte vie, al teologo solo una. Si tratta di prendere la parola. Di fronte all’imbarazzo per arroganza, l’unica forma di prudenza è parlare e parlare chiaro».

Se i “social” pongono (seri) elementi su cui ragionare indicando al tempo stesso un certo “sensus fidei”, il teologo non può dimenticare queste tensioni senza mai farle precipitare in ideologie, sincretismi, relativismi…

Per la natura ecclesiale della sua vocazione, al teologo non basta tacere e vivere bene nelle proprie convinzioni: il teologo “parla” per “dare ragione” non per “avere ragione”.

Parlare e dare ragione della propria speranza: una vocazione utile, personale e comunitaria.

Così il teologo parla e scrive non per uniformare ma per unire.

Si sforza di “dare ragione” alla libertà cristiana oltre gli autoritarismi, i classismi, i moralismi sulla via di una “pace” che si chiama “libertà dei figli di Dio”: una porta che spesso diventa “stretta” ma che va percorsa.

Il teologo non risponde sui “numeri dei salvati”, ma sulla speranza di coloro che vogliono percorrere le “vie della pace”, le vie del Cristo.

Forse una vocazione che oggi deve tener conto più delle speranze testimoniate dai “sensus social”, pur emancipandone gli orizzonti, che dei sistemi teorizzati dai paroloni accademici. Certo, è una vocazione che parte dal lavoro nelle aule ma che non può disdegnare o relativizzare le vere e profonde domande di tutti.

 

 

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