Se Bose si dà una “Regola”: tra diritto e profezia
La possibilità di chiedere/dare una "regola" per la realtà monastica di "Bose" apre orizzonti per la vita consacrata e le sue forme; e svela una grande opportunità profetica per l'unità della Chiesa.
Umberto Rosario Del Giudice
Uno degli aspetti più affascinanti della Comunità di
Bose è quella di essere stata sempre sganciata dai modelli classici e canonici di
vita consacrata. Com’è noto, la Comunità di Bose è un’Associazione privata di
fedeli di ispirazione ecumenica che ultimamente sta cercando una certa
stabilità canonica.
Da Associazione privata di fedeli a Istituto di Vita consacrata?
Sebbene anche le associazioni private di fedeli
siano sottoposte all’autorità ecclesiastica competente, la vera differenza con
le associazioni pubbliche di fedeli o con le varie forme di Istituti di Vita
consacrata (o Società di vita apostolica) è il fatto che i beni di queste
ultime realtà diventano, per il diritto stesso, “beni ecclesiastici”. In
altre parole, l’Associazione “privata” conserva la titolarità e la proprietà
dei beni in ogni caso.
Stante questa differenza, tutte le associazioni di
fedeli, e dunque anche quelle “private” che hanno chiesto e ricevuto l’approvazione
degli Statuti, sono sottoposti alla competente autorità ecclesiastica: motivo
per il quale è stata disposta una visita apostolica alla Comunità ex cann. 305 §§
1-2 e 323 §§ 1-2.
Eppure, la tendenza attuale della Comunità è quella di
farsi riconoscere come una (nuova) forma di vita consacrata.
Sarà una “nuova forma di vita consacrata”, ex can. 605?
Sarà concessa una struttura di governo già collaudata (unico governo centrale
con due rami e una famiglia ecclesiale per altri)? Sarà concesso loro un istituto
unico senza rami e con associazione pubblica di fedeli per altri oblati?
Tutto da vedere.
Necessità e profezia
Certo è che la tendenza di avere un riconoscimento come
“vita consacrata” da parte della Comunità attuale sposa il desiderio del
Dicastero competente a supportare, valorizzare e tutelare le nuove forme con
tutto il patrimonio di esperienza che offrono alla Chiesa, con la loro
peculiare indole e natura.
Sembra che a qualche “nostalgico” faccia “problema” l’indole ecumenica
della Comunità.
Va ricordato che quella di Bose non è l’unica “comunità
ecumenica”; anzi: varie sono le realtà monastiche (e non solo) che vivono
questa ispirazione.
A ben vedere, va riconosciuto che tali esperienze, si
badi, sono nate nel solco delle novità e dello spirito del Concilio Vaticano
II e del rinnovamento ecclesiale dell’epoca. Per tale motivo, si può concludere che riconoscere la validità di questi
vissuti e accoglierli nella Chiesa significa accogliere un ennesimo dono del
rinnovamento conciliare.
Se la Chiesa si facesse sfuggire questa occasione,
continuerebbe a chiudersi nei modelli preconciliari, anche rispetto alla vita
consacrata e alle sue novità che sono ispirate dalle esperienze, dalla preghiera,
dalla vita di molte monache e monaci.
Una semplice “soluzione canonistica”
Mi sembra poi che la possibilità di far convivere
fratelli e sorelle di diverso culto (cattolici, protestanti, ortodossi) possa confrontarsi,
salvis iuribus, col principio che offre a due parti, una cattolica e l’altra
battezzata ma non cattolica, di contrarre matrimonio (culto misto). Se
nel “matrimonio misto” la Chiesa cattolica si premura solo di verificare la
disponibilità che la parte non cattolica rispetti la professione della parte
cattolica e l’educazione dei figli, anche in una Comunità monastica, “ecumenicamente
mista”, basterebbe che i membri non cattolici, mutatis mutandis, dichiarassero
di rispettare la dottrina fondamentale cattolica e la formazione dei nuovi
membri secondo la dottrina cattolica.
Su questa base aprire anche a “vincoli riconosciuti” per i battezzati non cattolici.
Ci sarebbe poi da costruire (e accettare) una certa ospitalità
sacramentale (forse non solo eucaristica), nelle forme che saranno dettate
dalla competente autorità. Le disposizioni dovranno assicurare che i cristiani
non cattolici manifestino, circa i sacramenti, i fondamenti della fede
cattolica: e sarebbe un altro passo verso l’unità da più parti auspicata e
indicata dallo stesso Concilio.
Conclusione
La possibilità di dare una “forma canonica più stabile”
all’esperienza di “Bose” non è un’opportunità solo per la Comunità che
ne fa richiesta: è una grande occasione per la Chiesa cattolica che manifesta sguardo
profetico e riconoscimento di quanto lo “Spirito suscita in mezzo a noi”.
Non si tratta solo di dare una certa tranquillità
rispetto all’esercizio dell’autorità e alla gestione del governo della Comunità;
si tratta di mantenere (o ristabilire) un clima aperto, fraterno e autentico
che eviti dispersione di forze e di carismi ordinati al bene comune, ovvero
(per dirla con parole da Codice) “alla vita e alla santità” della Chiesa e alla
sua missione e apostolato.
Tutelare “Bose” significa dare maggiore libertà ai
membri della Comunità e più autenticità alla Chiesa che discerne le esperienze
nel solco dello spirito del Concilio Vaticano II.
Una possibilità di tutela, libertà e profezia
per la vita consacrata e per la Chiesa.
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