Dimmi che IRC pensi…


Tendenze intransigenti che mirano a confessionalizzare o neutralizzare l’insegnamento religioso, ambiguità insensate intorno ad una disciplina a statuto speciale che rimane una sintesi utile all’approfondimento e alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale italiano ed europeo, non devono sminuire la ricchezza della offerta formativa dell’IRC. Alcuni hanno condiviso la Lettera della Presidenza della CEI che invita ad avvalersi dell’IRC con un’enfasi troppo confessionale: vale dunque la pena ribadire la distinzione tra prassi educativa dell’IR e catechesi che rimane non solo una ricchezza ma anche una possibilità di ricomprensione dell’azione catechetica.
 

Umberto Rosario Del Giudice

 

È stata appena pubblicata la Lettera a firma di mons. Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), che invita ad avvalersi anche per l’anno scolastico 2022-2023 dell’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC). La Lettera, sebbene porti la data del 17 dicembre 2021, è stata pubblicata sul sito “Chiesa Cattolica” della CEI soltanto ieri, 3 gennaio 2022. In vista delle iscrizioni, la stesura di una lettera indirizzata soprattutto a tutti gli studenti e a tutte le famiglie è ormai prassi consolidata. L’occasione è utile per alcune considerazioni che riguardano la natura dell’IRC e l’IR in genere in Italia.

 

 

IR tra Patti, Concordato e altre Intese

L’insegnamento della religione era già previsto nel testo dei cosiddetti Patti Lateranensi (1929). Nell’art. 36 appaiono almeno tre elementi essenziali:

  1. Insegnamento della dottrina cristiana
  2. Docenti approvati dalla autorità
  3. Idoneità dell’Ordinario

Con l’Accordo di Palazzo Madama (1984) e la revisione dei Patti questi tre elementi persistono anche se in un contesto giuridico completamente diverso. Con l’Accordo cade definitivamente l’art. 1 dello Statuto Albertino (1848): ragion per cui lo Stato italiano non può più dirsi “confessionale”.

Questo passaggio è decisivo per l’insegnamento religioso poiché da questo momento sarà “cattolico” (IRC). Nasce l’esigenza non solo di specificare la confessionalità dell’insegnamento ma anche di evidenziarne natura e specificità entro i confini della laicità dello Stato e della libertà di coscienza. Inoltre, lo stesso articolo ribadisce il riconoscimento del valore della cultura religiosa e tiene conto che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano (cfr. Accordo art. 9).

Com’e noto le due soluzioni concordatarie miravano a garantire un insegnamento religioso ma in due prospettive completamente diverse. Sebbene entrambe rientrino nella finalità ultima dei rispettivi quadri normativi scolastici (educazione etico-religiosa –1929– e formazione della persona umana integrale –dal 2003–), per i Patti la finalità era strumentale e funzionale mentre per l’Accordo la finalità è di natura storico-culturale. Ne deriva che la specificità “cattolica” riguarda non solo parte dei contenuti (come più volte ricordato nei programmi, prima, e nelle indicazioni didattiche, poi) ma rimane una specificità di trasparenza anche rispetto al professionista incaricato di tale insegnamento la cui idoneità (retta dottrina, vita cristiana e abilità pedagogiche) è attestata dall’autorità ecclesiastica competente. Va aggiunto che in Italia non vi sono altri titoli utili per l’IRC che non siano quelli rilasciati da Facoltà o Istituti retti da autorità ecclesiastica e eretti dalla competente Congregazione.

È vero anche che, essendo decaduto lo Statuto Albertino, in Italia attualmente Intese con altre confessioni religiose, rimandano alla possibilità di non avvalersi di insegnamenti religiosi (non si cita il cattolicesimo) al fine di evitare effetti discriminanti e insegnamenti religiosi “occulti” nelle altre discipline.

In questo quadro, come più volte specificato, va da sé che anche metodi didattici e contenuti dell’IR non possono avere finalità proselitistiche né metodi e linguaggi catechetici e che la “trasparenza” è indice di tutela.

 

IRC e catechesi

La CEI ha già chiaramente delimitato le caratteristiche della relazione tra IRC e catechesi (CEI, Nota per l’IRC in Italia, 1991). Tra IRC e catechesi vi è complementarietà rispetto ad alcuni contenuti ma netta distinzione in riferimento alla sintesi culturale, alla metodologia e alle finalità. La catechesi, infatti, ha finalità e metodi diversi dall’IRC: quest’ultimo rientra nelle finalità della scuola adottandone le metodologie proprie dei diversi ordini e gradi di scuola e segue indicazioni didattiche stabilite attraverso lo strumento giuridico delle Intese.

Ora, la sfida rivolta a chiunque è quella di rilevare all’interno delle due Intese per le indicazioni didattiche attuali (2010 per il primo ciclo e 2012 per il secondo ciclo) anche un solo verbo che rimandi ad una qualsiasi forma di professione di fede.

Ancor di più.

La sfida, rivolta a ogni studioso di “buona volontà”, è quella di fare emergere dalle suddette indicazioni didattiche qualsiasi riferimento alla professione di fede o all’esperienza religiosa dei singoli studenti per la valutazione delle competenze attese.

In realtà, come vado ripetendo quasi scherzosamente ai miei studenti, l’IRC è un corso in cui un non credente potrebbe “prendere il massimo dei voti” (come spesso accade) mentre un “fervente devoto” può non conseguire neanche la sufficienza delle competenze attese (possibile sebbene difficile dal momento in cui a tutti i docenti e in tutte le discipline non mancano gli strumenti pedagogico-didattici per garantire la sufficienza alla maggior parte degli studenti).

Quella della valutazione è un dato importante poiché è uno dei terreni su cui si realizza la dinamica della vera natura a statuto speciale (di Intesa) dell’IRC: è un insegnamento che propone una sintesi culturale e storica di una professione religiosa in vista di un’adeguata preparazione rispetto alle competenze di cittadinanza attese e rispetto alla dottrina cristiana (secondo la tradizione cattolica) che rimane una proposta non solo culturale ma anche esistenziale.

Per cogliere la portata storico-culturale della tradizione cattolica e per apprezzarne il valore etico-esistenziale nonché religioso, non vi è bisogno di professare la fede. E questo i professionisti dell’educazione lo sanno bene.

Se la catechesi, che ha bisogno di narrazione biblica, contesto liturgico, ambiente comunitario, prassi cultuale, ha la finalità di educare nella fede, l’IRC, che ha come principale finalità la formazione integrale della persona (come tutte le discipline scolastiche) e assume i metodi pedagogico-didattici della Scuola italiana, mostra la valenza della dimensione religiosa e nella fattispecie il peso culturale, storico ed esistenziale del cattolicesimo.

Credere poi che questo tipo di insegnamento possa essere impartito da non cattolici non solo tradisce la natura dell’IRC ma anche la necessaria laicità dello Stato che non deve “neutralizzare le differenze” ma le deve valorizzare per una corretta formazione del cittadino, nel quadro della portata storico-culturale a favore del patrimonio italiano ed europeo. Va da sé che ogni esperienza religiosa come ogni dottrina, ha bisogno di una figura professionale adatta che rimandi anche ad una comunità credente e che non sia autoreferenziale.

Aggiungo che l’aggettivo “cattolico” è utile affinché sia chiaro che l’insegnante ha conseguito titoli e idoneità dalla competente autorità ecclesiastica e non perché l’insegnamento sia confessionale tantomeno perché esso richieda una qualsiasi forma di adesione religiosa a chi sene avvale. I contenuti poi non sono da considerare esclusivamente “cattolici”: è giusto, infatti, ribadire che, sebbene si studino altre religioni (ebraismo, islam, induismo, buddismo… che entrano a pieno titolo nella programmazione dell’IdR), chi introduce a quelle esperienze religiose non lo fa con ambiguità; appare infatti una nota di vera trasparenza dichiarare che egli rimanga un “cattolico”. Un indice maggiore di garanzia di dichiarata onestà e non di pregiudizio o presupposto occulto. È inutile ribadire che qualsiasi insegnante di una possibile “storia delle religioni” avrebbe un suo credo o non-credo che non andrebbe specificato: e questo, a ben vedere, non sarebbe una nota di merito, anzi: potrebbe addirittura apparire come una “falsa neutralità”. Ma questa è un’altra questione che rimando.

Al contrario, il vero problema è il pregiudizio pro-cristiano o anti-giudaico o anti-musulmano che alcuni educatori possono portare in classe. Meglio, dunque, sapere chi parla e come eventualmente intervenire. Nelle circostanze attuali meglio la trasparenza e la dichiarazione preventiva della qualifica dell’insegnante. E alla trasparenza dell’insegnante corrisponde la libertà di coscienza degli studenti e delle famiglie: equilibrio democratico.

Uno però dei limiti più evidenti sono i libri di testo, gli schemi dei quali nella maggior parte dei casi seguono quasi pedissequamente quelli del catechismo (né giova l’iter per l’imprimatur…).

 

Concludendo

Vorrei concludere mettendo in luce tre aspetti. Il primo riguarda le tendenze attuali; un secondo aspetto riguarda lo strumento degli Accordi; infine, vorrei ribadire la necessità di inquadrare l’IRC nella sua natura speciale di disciplina d’Intesa.

 

Tendenze ambigue e limitate

Da anni si nota una doppia tendenza. Da una parte c’è chi vorrebbe confessionalizzare (in senso catechistico) l’IRC e dall’altra c’è chi vorrebbe neutralizzarla a favore di una “storia delle religioni”.

Il sapere religioso si custodisce non “neutralizzandolo” ma favorendo le tradizioni attraverso la valorizzazione positiva delle dottrine e l’esperienza religiosa di cui sono portatrici.

Qualche anno fa Aldo Natale Terrin (in Preghiera ed esperienza religiosa. Per una fenomenologia del credere, del 2014) si chiedeva se fosse possibile davvero studiare storia delle religioni senza comparare anche l’esperienza religiosa. Il noto autore annotava che anche gli attuali studiosi riconoscevano alla sola comparazione storica un limite enorme di approssimazione irrilevante e concludeva che le dottrine religiose avevano bisogno non solo di storia e di cultura ma anche di essere studiate dal punto di vista dell’esperienza e del culto. Se questo è vero in ambito accademico quanto più lo è in un contesto che mira alla formazione della “persona” e per la quale sono vitali le “esperienze”. Va da sé che l’IRC non si arresta alla testimonianza del docente o della comunità di cui egli fa parte, ma che propone contenuti teologici, oltre che dottrinali, che appaiono fondamentali per la comprensione della cultura italiana, europea e per la storia del pensiero e della letteratura, in un senso e nell’altro.

Ora nella scuola italiana sarà anche possibile introdurre una “storia delle religioni” ma dovrà essere chiaro che sarà a detrimento della valorizzazione del “sapere teologico”, della “esperienza religiosa” e della “cultura cristiana” intesa come parte del patrimonio culturale e come possibilità di identità religiosa.

 

Accordi come strumenti validi

Gli Accordi o le Intese con le varie confessioni religiose in Italia sono uno strumento non solo utile ma che garantiscono tuttora la valorizzazione del fenomeno religioso e la laicità dello Stato.

Se è vero che per ridurre a “storia delle religioni” l’IR in Italia ci sarebbe bisogno di rivedere non solo l’Accordo del 1984 e tutte le Intese con le altre professioni religiose presenti in Italia (ne abbiamo la forza politica?...), è anche vero che questo non aiuterebbe a valorizzare la dimensione religiosa nell’ambito delle finalità della Scuola, già troppo aziendalizzata e poco preoccupata degli aspetti più umanistici della cultura.

Lo strumento giuridico dei “trattati”, degli “accordi”, dei “concordati” o delle “intese” tra Stato e le confessioni religiose, va inteso per le relazioni istituzionali e nell’ambito di una “sana cooperazione”. Tradurre il sistema concordatario come una concessione che lo Stato o la Chiesa si limitano a riconoscere vicendevolmente non è solo limitativo ma anche, ormai, ingenuo; una tale precomprensione del sistema concordatario appare soprattutto opaco se si guarda il futuro e non solo al passato (nelle dinamiche distorte di concessione reciproca tra potere temporale, potere spirituale e rivendicazioni politiche – è passata quella stagione…). La cooperazione tra Stato e confessioni religiose, sebbene meriti sempre attenzione e revisione, rimane una ricchezza giuridica e politica che si svela sempre più come perla da non buttare ai porci. Invocare uno Stato senza sistema pattizio è quantomeno un errore storico ma soprattutto politico e giuridico e fa parte di una visione distorta della cooperazione tra politica e confessioni religiose. Lo Stato è neutro ma la società non lo sarà mai: questo, almeno le tendenze politiche estremiste e poco attente, dovrebbero capirlo…

Certo, le cose potranno cambiare: ma rimane la curiosità di capire quali potranno essere le soluzioni proposte dalla politica tenendo conto del quadro giuridico attualmente in vigore, dal sistema pattizio e dalla giurisprudenza consolidata. Più che scappare verso utopiche soluzioni sarà meglio lavorare per una sempre più utile e proficua cooperazione. Attualmente, uno Stato senza sistema concordatario (con tutte le confessioni religiose) non appare una possibilità politicamente e socialmente adeguata; anzi, rimane l’utopia di una società pronta a rimpiazzare con “Cesare” ogni spazio, anche il più intimo, del cittadino.

 

L’IRC come valore aggiunto per tutti

In passato, da genitore, ho avuto la tentazione di non sottoscrivere la frequenza all’IRC di uno dei miei figli minorenni e il motivo era molto semplice. Sentendo mio figlio, l’azione didattica passava dal “come state ragazzi” al “di cosa volete parlare” fino allo studio personale interrotto solo da un docente canterino… In altre parole, se l’IRC è ridotta a una non-disciplina è giusto non avvalersene. A questo va aggiunto che qualcuno ha “pubblicizzato” la Lettera della CEI con un rimando a “Cristo nelle Scuole” con toni evidentemente trionfalistici e proselitistici, e questo, oltre a non corrispondere al vero perché sminuisce la natura della disciplina, produce sono una riduzione dello statuto dell’IRC ad ambiguo cavallo di troia.

Ma le cose non stanno così: l’IRC gode di un suo statuto, di sue indicazioni nazionali (armonizzate con i percorsi di ogni ordine e grado), di sue programmazioni e di una valutazione che guarda alle competenze (e non ai contenuti) come tutte le altre discipline.

A questo va aggiunto che insegnare religione a Scuola significa essere capaci di un linguaggio inclusivo e di una mediazione culturale: elementi che spesso sembrano assenti anche nelle nostre comunità. Forse anche i nostri “catechismi” avrebbero bisogno di una certa sintesi educativa che mediamente manca quasi del tutto alla formazione prossima “sacramentale” e che non regge il confronto con la cultura contemporanea e ad un necessario patto educativo tra le diverse “agenzie sociali”.

Personalmente, non reputo lecito neanche chiedere se chi si avvale è o non un “credente” o un “cristiano”. L’IdR è un professionista della sintesi culturale non del proselitismo tantomeno della narrazione mitologica.

A ben guardare, appare che è la catechesi che oggi ha bisogno della sintesi culturale dell’IRC. Per tanto rimane utile avvalersene purché si sia capaci di assicurare la professionalizzazione degli IdR e di ricordare lo statuto dell’IRC, “una materia che, per sua natura, favorisce il dialogo e il confronto tra persone ed esperienze diverse”, come giustamente è stato ricordato con la Lettera del Presidente della CEI anche quest’anno.

 


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