Sette affermazioni come sette “peccati di logica”
Le accuse di Rubén Peretó Rivas apparse in un blog sono prive di ogni argomentazione sia dal punto canonistico che teologico
che semplicemente logico. Tommaso d’Aquino non ci ha insegnato di sparlare ma
di argomentare.
Umberto Rosario Del Giudice
È apparso su un blog un articolo che non andrebbe né letto
né citato. Un classico modo di parlare di ciò che non si sa, solo per screditare
e confondere. Verrebbe da seguire l’utile consiglio che Dante associa alla
saggezza di Virgilio: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Inf.
III, 51) poiché se per il Sommo alcuni “misericordia e giustizia li sdegna”
(Inf. III, 50) per i seguaci di Cristo basta solo lasciarli al loro destino sebbene sia utile anche sperare che la ragione porti al dialogo.
Tuttavia, fa molto riflettere constatare come la logica sia poco
praticata anche da chi la “logica” la
dovrebbe usare per mestiere, vi è poi un’ulteriore aggravante: non è grave solo affermare inesattezze ma che lo si faccia per fuorviare fatti, dati e realtà. Ne
emergono solo rammarico, risentimento e frustrazione. Sarebbe bene “passare oltre” ma non sempre è prudente: la carità e la verità chiedono il dialogo serio.
Mi riferisco all’articolo scritto in castigliano col titolo “Los motivos del intento de aniquilación de
la liturgia tradicional” e rilanciato in italiano dal
blog dell’ormai dichiarato antibergogliano Aldo Maria Valli. Il pezzo, la cui
traduzione è a cura di Valentina Lazzari, è proposto in italiano con un titolo che
sembra meno provocatorio dell’originale: l’annientamento della liturgia diventa
le
ragioni che stanno dietro alla guerra dichiarata alla liturgia. A dire
il vero lo stesso titolo annuncia i “motivi” che avrebbero portato alla rimozione
della liturgia tradizionale ma non pone neanche una sola questione teologica,
ecclesiale, pastorale, spirituale…
L’autore dell’articolo è tale Rubén (Angel) Peretó Rivas che
lavora presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Università Nacionale di
Cuyo di Mendoza (Argentina). Consultando bibliografia
e insegnamenti non appare né un esperto di teologia, né di liturgia tanto meno
di diritto canonico. D’altra parte, i suoi studi e i suoi pregressi interessi
riguardano La antropología de Alcuino de York e il tema de La
iluminación del intelecto en Tomás nonché Conceptualización de la acedia
en la Edad Media: titoli dei suoi lavori di grado.
Una cosa è certa: l’autore si scaglia contro la riforma
liturgica, contro (dice lui) l’opera di papa Bergoglio e chiamando in causa studiosi
ed esperti (di ben altro calibro se si tiene conto della bibliografia, delle
esperienze professionali e del ministero che ricoprono); a proposito della menzione
dei quali l’unico rammarico può essere quello di non far parte dell’elenco. Si tratta
di Andrea Grillo, di mons. Vittorio Viola, di p. Corrado Maggioni, mons. Piero
Marini.
Per porre almeno le basi di un dialogo fruttuoso (forse impossibile) varrà la pena richiamare alcune
affermazioni e analizzarle.
Le affermazioni di Peretó Rivas: quæstiones
Le affermazioni di Peretó Rivas sono molto gravi, gravissime
tanto da apparire per quelle che sono: ridicole. Se fossero vero ci troveremmo
davanti a un “golpe ecclesiale”: solo che il golpe sarebbe ad opera di colui
che nella Chiesa ha potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale…
Ecco alcune affermazioni:
Prima affermazione: Coloro che conoscono il
diritto canonico assicurano che Traditiones custodes è un documento
molto discutibile dal punto di vista giuridico.
Seconda affermazione: ancor più discutibili
sono le risposte della Congregazione per il culto divino sui dubbi che
sarebbero giunti in Vaticano da parte dei vescovi in merito all’applicazione
della lettera apostolica.
Terza affermazione: Normative di questo tipo
sembrano dettate da un tiranno che, considerandosi al di sopra di ogni ordine
legale, ritiene di avere il diritto di fare ciò che vuole.
Quarta affermazione: l’aspetto più grave non è
quello canonico, ma sta nell’enorme danno e dolore provocati a decine di
migliaia di anime che non vengono né ascoltate né prese in considerazione, ma
sono semplicemente emarginate e condannate a una più o meno rapida estinzione.
Quinta affermazione: il responsabile ultimo è papa
Francesco ma i mandanti sono altri.
Sesta affermazione: la prova sta nel fatto che
durante i primi otto anni del suo pontificato non ha preso nessuna decisione
restrittiva in merito.
Settima affermazione: Francesco non si è mai occupato
di liturgia.
Contra
Prima affermazione (sed contra): l’autore cita
“coloro che conoscono il diritto canonico” senza però fare nome e senza
indicare bibliografia o nomi; chi potrà essere l’esperto, qualche nunzio
apostolico in pensione? La speranza è che Peretó Rivas abbia ben altre fonti ed
esperti su cui poggiare le proprie tesi poiché dal punto di vista giuridico non
solo Traditiones custodes è un motu proprio valido ma è
anche la conseguenza logica della riforma del Concilio Vaticano II, e non ci
sono dubbi sul fatto che corrisponda pienamente al continuo magistero postconciliare.
Seconda affermazione (sed contra): che le risposte
della Congregazione per il culto divino sui dubbi siano ancor più
discutibili è tutto da provare: ma l’autore se ne guarda bene dal farlo. Se impugni
un documento, un atto, e se fai delle rimostranze devi argomentare (questa è la
logica). Peretó Rivas si limita a gettare discredito senza argomentare: ma
questa la filosofia non lo fa, né lo può fare la teologia e ancor meno il
diritto canonico. Non c’è una questione che riguardi il merito. Si vorrebbe anche analizzare le osservazioni (giuridiche?): ma a partire da cosa? Perché allora le risposte sarebbero addirittura “más
cuestionables”? Non è dato saperlo…
Terza affermazione (sed contra): l’autore
accusa la norma di tirannia. Ora, se qualcuno spiegasse lui che la potestà di
papa Francesco è identica a quella di papa Benedetto XVI ed è la stessa di
quella di Giovanni Paolo II farebbe cosa gradita: la potestà di quest’ultimi,
infatti, non è stata contestata quando hanno, per la pace e l’unità della
Chiesa, concesso indulti o forme extra-ordinarie. Anche Benedetto XVI, infatti,
sapeva bene che le forme concesse per la celebrazione col rito antecedente alla
riforma conciliare, erano “extra”, ovvero “fuori”, “oltre”, l’ordinario: e se
un papa può permettere ciò che non è nell’ordinamento perché un altro non può disporre
che sia seguito l’ordinamento senza eccezioni? Quale potestà tiranna ci sarebbe
dietro una tale decisione che, si badi, nasce nel contesto odierno sempre per
la pace e l’unità dei fedeli e della Chiesa.
Quarta affermazione (sed contra): nonostante
si sia iniziato col parlare dell’aspetto canonico si devia poi su quello personale
rispetto a “migliaia di anime” che non sarebbero ascoltate o considerate. In realtà,
la riforma liturgica mirava proprio a non lasciare emarginati anime e corpi. E l’intento
del Concilio di riformare la liturgia nasceva proprio dalla constatazione che per
animare e ravvivare la spiritualità bisognasse riformare la liturgia. Se la
liturgia non fosse stata riformata le “migliaia di anime” sarebbero state “milioni
e milioni di persone” che, nel contesto attuale, non avrebbero più compreso il
rito, non si sarebbero più avvicinate alla Parola pregata, non avrebbero
ascoltato la narrazione del mistero di Cristo nella propria lingua… che poi ci
sia ancora una possibilità di messa col Vetus Ordo per quelle comunità stabili (perché
di comunità si deve trattare e non di singoli…) che conservano la spiritualità
particolare sebbene nostalgica della liturgia, questo il Motu proprio conserva
e permette.
Quinta affermazione (sed contra): per l’autore
il papa Francesco è solo esecutore mentre altri
sarebbero i mandanti. Questa affermazione appare nettamente in contrasto
con la quarta: insomma, viene da chiedere se papa Francesco è un tiranno o un
esecutore. All’articolista argentino sfugge il principio di non contraddizione: delle due l’una. In realtà, sfugge anche che il papa ha deciso
perché ne ha potestà ma avrà sicuramente, in spirito di comunione e sinodalità,
ascoltato pareri, considerato opinioni e, soprattutto, pregato e operato
discernimento. Anche qui: se Benedetto XVI aveva operato un discernimento proprio,
perché Francesco non può farlo? Forse si mette in dubbio le capacità di
Francesco di scegliere: strano che gli stessi dubbi non siano sorti negli
ultimi anni di pontificato di Giovanni Paolo II e per ben altri motivi. Rimane
il fatto che papa Francesco ha sia la facoltà di decidere, sia quella di ascoltare,
sia quella di riflettere e giudicare: e lo ha fatto in continuità, poiché non
vi sono mai state due lex orandi della stessa tradizione. E lo sa bene
Francesco come lo sapevano bene Benedetto XVI (vedi la forma “extra” ordinaria)
quanto Giovanni Paolo II (vedi gli “indulti”).
Sesta affermazione (sed contra): l’autore
rimanda al fatto che durante i primi otto anni del suo pontificato papa
Francesco non avrebbe preso nessuna decisione restrittiva in merito. In realtà,
ci vuol poco a capirlo, per decidere, ci vogliono dati, ci vuole consultazione,
riflessione e preghiera. E che siano passati otto anni per una decisione del
genere significa che non si è trattato di una valutazione di impulso.
Settima
affermazione (sed contra): che Francesco non si sia mai occupato di liturgia è l’affermazione
che denuncia l’ideologia ultima di chi scrive. Francesco si è occupato di
liturgia dal primo giorno del suo pontificato: da quando ha sostituito i
solenni saluti dal balcone centrale di San Pietro col “buonasera”. Da quando ha
chiesto di cambiare rubriche perché la lavanda dei piedi possa essere compiuta
con uomini e donne. Da quando ha chiesto di tradurre non solo le parole ma anche
le idee. Ed è un’affermazione falsa perché non solo di liturgia se ne è occupato
papa Francesco ma anche il Card. Bergoglio. Solo per citarne una, nel marzo
2005, quando il Card. Bergoglio era membro della Congregazione per il Culto e fungeva
da ponente, espresse parole uniche sull’arte del celebrare. Nel 2005: non certo
per far piacere a qualcuno… Da quella relazione ne emerge un prelato che non
solo ha una grande sensibilità liturgica ma anche un rispetto verso il rito e
la sacralità dell’azione rituale senza dimenticare la necessaria immediatezza. Bergoglio
si raccomandò che il sacerdote che presiede doveva saper «distinguere tra la “lingua
volgare” (nel senso del vulgus) e la “lingua popolare”, nel senso della lingua
della strada, ossia delle conversazioni private. Deve comunicare in una
lingua viva e accessibile. Deve parlare al cuore. Non deve, però, allontanarsi
da ciò che richiede la circostanza e la celebrazione del mistero». Per il card.
Bergoglio era necessario che la liturgia fosse mistero vivo e che le sacri
vesti del sacerdote fossero non solo i paramenti ma i volti di tutti i
partecipanti alla liturgia (così
nella sua ultima omelia da cardinale). Queste e tante altre raccomandazioni
hanno fatto di Bergoglio un gesuita che ben conosceva le lezioni di liturgia ma
soprattutto lo spirito del Vaticano II.
Conclusioni
Che la “lingua della strada” di qualche cristiano perplesso sia
ammantata di nostalgia e di foga rabbiosa può anche essere compreso. D’altra
parte, che la riforma liturgica si sia trovata davanti un’epoca in cui le
incertezze dei non prudenti fanno capitolare verso la fuga del presente e contro
ogni possibilità di futuro è palese. Ma che un professore di filosofia addottorato
a Roma presso l’Istituto di Filosofia dell’Angelicum scriva un articolo
in cui le affermazioni non sono argomentate o che rimandi a perplessità di “diritto
canonico” senza citarne o indicarne una è una opera che toglie ogni credibilità
alla ragione. Tommaso d’Aquino ci ha insegnato che bisogna disporre le
argomentazioni, che bisogna soppesarle, che la logica segue le realtà e non
viceversa. D’altra parte, fu Tommaso che mise un punto alla teologia confusa
con la psicologia e alla filosofia ammantata di idee eterne e sempre valide
(con buona pace di Sant’Anselmo).
In uno studioso la ragione viene meno per due cose: o a
causa della ideologia comunitaria della formica o per invidia perplessa e
pentita della cicala. Poiché non posso credere che Peretó Rivas sia invidioso come
la cicala di Esopo, non rimane che l’ideologia. La formica lavora, porta pesi,
si affanna, lotta contro ogni accidia ma non alza mai lo sguardo: lo sforzo di
mantenere le linee la rende cieca alla bellezza. Se questo è possibile purtroppo per
molti, per chi scrive con autorità di docente di filosofia è deleterio. Dal docente
di filosofia, come dal teologo o dal canonista, ci si aspetta argomentazioni ferree
e non congetture da corridoi.
Certo, e non sarà il caso del docente argentino che ha
studiato filosofia all’Angelicum, per molti la non capacità di ragionare
e di vedere serenamente le cose è tanto gravosa che l’unica cosa che rimane è lamentarsi
forte senza addurre forma e sostanza quasi “che ’nvidïosi son d’ogne altra
sorte”.
Ma poiché chi insegna filosofia deve poter dire altro,
attendiamo le argomentazioni canonistiche e teologiche che, stando all’articolo,
mancano completamente.
Commenti
Posta un commento