Ciro e Genny come Caino e Abele?

 



È finita la serie TV che ha raccontato storie di minacce e di seduzioni tra personaggi sempre pronti a sparare un colpo o a stringersi in abbracci. L’ambiguità si è fatta storia criminale: la storia delle ambiguità criminali.

 


Umberto Rosario Del Giudice


Si è conclusa da poco la serie televisiva “Gomorra” che ha suscitato non poche perplessità. Qualcuno ha puntato il dito contro una narrazione troppo violenta; altri, nel tentativo di difendere l’immagine della Città, hanno negato l’onnipresenza della criminalità rifugiandosi nell’attestazione corale e quasi sdegnata: “Napoli non è questo!”.

Da varie parti poi è stata contestata fin dagli inizi della serie la quasi totale assenza degli apparati di “Stato”: sarebbero mancati gli antagonisti. Sarebbe mancata polizia, magistratura, legalità… Ma alla fine della serie si comprende meglio anche il perché. La narrazione completa si gioca su due personaggi: Ciro, il rampante “immortale”, e Genny, il “figlio del boss” destinato a raccogliere il potere del padre, capoclan feroce. “Gomorra”, nota come un pregevole romanzo denuncia di Roberto Saviano, nella serie TV cambia volto e diventa una storia di violenza che si allinea alle narrazioni fondazionali violente del mondo abitato da uomini alienati nei propri mostri.

 

Il fratricidio possibile e dovuto

L’intera narrazione di Gomorra nasce e si chiude nella vecchia tensione di una “rimozione del fratello”: ma a ben vedere si rimuove il “fratello” per sopprimere ogni “paternità”.

Ciro e Genny sono due personaggi legati tra loro: Ciro vuole far crescere Genny e Genny ammira Ciro forse più del padre. Ma la rottura definitiva tra i due arriva proprio quando la figura del padre si fa opprimente, tanto da delineare un archetipo inaccessibile.

Lo scontro dei due si gioca nel rispetto della “famiglia”, del “gruppo”, del “clan”, e si rompono gli equilibri che li rendevano complici.

Uno dei due è addirittura obbligato ad uccidere l’altro: e Genny uccide Ciro per “onore”, per rispetto ad una parola data e per sistemare le cose, affinché si possa dire “tutt’a pposte!”.

Ma quando Genny viene a sapere che Ciro è vivo, scatta per lui l’ora della vendetta. La rottura definitiva porta i due a volere l’uno la morte dell’altro. Epilogo inevitabile anche per le varie vicissitudini pregresse (il padre di Genny fa uccidere la figlia di Ciro e quest’ultimo si vendica uccidendo il padre di Genny).

Ma l’ombra di un “padre” atavico rimane per entrambi, anche se Ciro non l’ha mai conosciuto mentre Genny viveva con distacco conflittuale la relazione paterna.

Rimane l’ombra di un consenso cercato, di un volere essere qualcuno non insieme agli altri, insieme ai fratelli, ma solo su tutti: la maledizione del padre ricade sull’autoritarismo dei figli che, per questo, si scontrano senza mai essere capaci di abbandonare i vecchi fantasmi del potere e della vendetta. Si può riferire ai protagonisti criminali di Gomorra ciò che Umberto Saba riferiva circa il senso sociale del fratricidio. Il poeta triestino scriveva: «gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli».

 

Il fratricidio delle origini

Molti miti fondazionali contemplano fratricidi: basti pensare a Romolo e Remo, a Eteocle e Polinice e, tra i più conosciuti, Caino e Abele. E se ci sono volute cinque serie in otto anni per Gomorra, quella della Genesi è una narrazione molto stringata: sedici versetti del quarto capitolo della Genesi.

Caino uccide Abele per rivendicare su di sé la benevolenza di Dio, la benedizione del “padre”.

Tutti sappiamo come va la storia che non ha mancato di suscitare anch’essa tanta perplessità. Il Commissario Montalbano (noto personaggio dei romanzi di Camilleri) in un episodio rivela addirittura che se avesse potuto avrebbe riaperto il caso di Caino perché in fondo era convinto di poterlo fare assolvere. Per lui, pensava il Commissario, vi era stato un processo ingiusto, con assenza di un legale, senza diritto di difesa, per un delitto commesso senza testimoni oculari umani. E poi c’era la confessione estorta da un terribile inquisitore divino.

Ma, con buona pace di Camilleri, in queste antiche dinamiche non c’entra niente il solo diritto di difesa. E questa volta, ahimè, non c’entra niente neanche il “mirabile” Caino di José Saramago che mette sotto accusa il “creatore”, giudice inquisitore inamovibile e provocatorio, reo, tra l’altro, di preferire il dono sacrificale del pastore Abele ai prodotti agricoli di Caino.

Così avviene che nella narrazione di Gomorra i “fratelli antagonisti” fanno più bella figura della legge e della legalità. Perché? Perché sono l’immagine di una umanità che vorrebbe slegarsi dai vecchi miti del potere, dal sentimento eversivo liberale, dalla fatica del lavoro e dalla responsabilità della solidarietà. Genny e Ciro sono l’immagine di quei due vecchi fanciulli che si dimenticano del mondo e che si fanno guerra per essere in fondo accettati da quella immagine paterna di cui hanno una tremenda nostalgia esistenziale. Quella figura, a tratti diabolica, che hanno irrimediabilmente perduto rafforzando i desideri di potere e di successo che li contraddistingue in nome di un vecchio piacere atavico: quello di sovrastare l’altro, di deprimerlo, di sottometterlo. Quei ragazzi che vedono davanti a sé solo regole sacre di condotta in nome di un onore infranto non fanno altro che accrescere quel dittatore che opprime la loro eterna fanciullezza rafforzata da un piacere libidico fino a pratiche quasi erotiche ma incapaci di legami profondi e reali. Così il loro codice diventa quasi una “religione”, quasi come se nulla debba e possa varcare quel solco sacro, da cui tutto ha fondamento.

 

Fraternità negata e fraternità cercata

Le narrazioni mitologiche presentano spesso verità solide: e anche davanti ai fratricidi della storia ci ritroviamo a fare i conti con ciò che è di più atavico tra le tendenze umane: il controllo dell’altro che si manifesta come potere violento giustificato. Il fatalismo poi, che si nasconde dietro le varie narrazioni e che accomuna a sprazzi i miti antichi a quelli che ancora oggi “ci raccontiamo”, determina quella ingiustificabile indifferenza rispetto agli affetti, alle famiglie e alle vite degli altri.

Qui nascono quelle radici difficili da estirpare di ogni criminalità.

Se gli uomini non sapranno raccontarsi la realtà con la propria responsabilità libera finiranno sempre col raccontarsi storie per deresponsabilizzare la dittatura della loro incapacità violenta, della criminalità, della famiglia come clan, dell’aggressione come manifestazione evirata di sé stessi: in fondo solo questo è ogni tipo di “Gomorra”. Ogni tipo di criminalità non è altro che la negazione della fraternità anche se finisce col scimmiottare il linguaggio dei fratelli, dei padri, delle madri e delle famiglie.

Il racconto della Genesi poi ricorda come solo con la nuova discendenza dei progenitori antichi si manifesta la nuova speranza e la consolazione del futuro. Il quarto capitolo, infatti, ricompone la storia: i nuovi figli dediti alla costruzione, alla pastorizia, all’arte e alla lavorazione dei metalli e non alla soddisfazione con i sacrifici del “padre atavico”, riusciranno a “invocare il nome del Signore”.

La violenza, che fin dalla fondazione del mondo ha originato le società, sebbene raccontata in diversi modi cruenti, rimane sempre la stessa: solo i magnanimi, gli avventurieri, gli artisti, riescono a costruire e fondare città nuove.

A Napoli ci stiamo provando da tempo, come in tutte le città del mondo: per sentirci ed essere tutti fratelli di tutti.

Anche qui, come in tutti i luoghi e in tutte le epoche, ci sono quelli che si raccontano storie ingrossando di violenza la propria vita, e quelli che la storia semplicemente la fanno…

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