Festa di una donna di Magdala e di una fede autorevole
Parole ed immagini per riscoprire,
ricordare e festeggiare una donna nella cui esperienza si ripropone quella del Cristo:
Maria Maddalena.
Ma cosa manca alla fede per essere presenza
di fede anche nella autorità?
Umberto Rosario Del Giudice
Passione e passioni
Nell’aprile 2011 ebbi occasione di partecipare come relatore ad un Convegno che metteva insieme parole e immagini. Si trattava di un “convegno-mostra” intorno a una delle figure più emblematiche e a tratti misteriose dei racconti evangelici. Una donna che ha canalizzato su di sé, per vari motivi, l’attenzione di tutta la cristianità: Maria di Magdala. Figura controversa per alcuni aspetti ma anche sempre riportata nei racconti canonici riguardanti gli ultimi eventi cristologici, e quindi testimone centrale.
Ma Maria di Magdala non fu solo una
testimone qualificata: alla sequela di Gesù di Nazareth, ella fece esperienza
delle esperienze del Cristo.
Sentire, vedere e testimoniare
Il Convegno sulla “Maddalena” ebbe il titolo nitido di Passione. Un ruolo al femminile: la
Maddalena. Si svolse nei giorni del triduo pasquale e nei suggestivi locali
della Sala Carlo V del Maschio Angioino. Al Convegno si parlò
tanto, ma parlarono molto di più le opere di Aurora Cubicciotti, una brava artista
giovane.
L’iconografia proposta fondeva i corpi, le mani, gli
sguardi del Cristo in croce con quelli della donna ai suoi piedi, quasi
accavallandone le immagini e gli aspetti.
Nelle intenzioni degli organizzatori era necessario riproporre,
con parole ed immagini, non solo il personaggio evangelico della Maddalena ma
soprattutto la centralità del femminile nella società e nella politica
contemporanea. A ben guardare, l’evento fu pensato come un insieme di parole
ed immagini così che i relatori non poterono parlare senza tener conto
delle immagini mentre queste si arricchivano dei commenti dei relatori. Come se
si costatasse così l’imprescindibilità dell’intreccio di logos e typos, di
riflessione intelligente e rimando iconografico. Eppure il typos, con
le sue emozioni, i suoi affetti, le sue esperienze, è spesso più eloquente del logos
che pure struttura esperienze, ordina affetti, analizza emozioni. Ma
l’immediatezza rimane nell’immagine, nella somiglianza per rimando, quasi come
se fosse un’istantanea.
È in dubbio che Maria di Magdala abbia vissuto esperienze
vitali in piena sintonia col maestro: la sua fede, le sue emozioni, la
sua sequela indefettibile sui passi di quel giovane rabbì la rendevano
sempre più vicina al Cristo, quasi confusa con lui.
Chi era Maria di Magdala
Una breve digressione aiuterà a ricordare la figura storica
di Maria di Magdala, per quel che ne sappiamo. Il soprannome deriva dalla città
di Magdala, suo luogo d’origine. Negli elenchi evangelici di donne si nomina
sempre al primo posto (cfr Mt 27, 56; Mc 15, 40; Lc 24, 10) e ciò indica la sua
preminenza. Il suo prestigio nella comunità cristiana primitiva è dovuto al
fatto di essere stata tra le donne che seguirono gli eventi della crocifissione
ma, soprattutto, di essere stata la prima testimone delle apparizioni del
risorto. Per questo viene direttamente ricordata dalla liturgia nell’inno “Victime
pascalis laude”, quale testimone della “vittoria del risorto nel duello con
la morte”. A partire da Gregorio Magno viene identificata erroneamente con
la peccatrice di Lc 7, 36-50; al contrario nei racconti evangelici di lei
si dice solo che fu guarita da “sette demoni”, ovvero da una grave malattia.
Le altre “discepole” nei vangeli
I vangeli menzionino varie donne al seguito di Gesù di Nazareth[i]. La
testimonianza dei tre vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) concorda con il
fatto che sotto la croce vi fossero almeno tre donne oltre la Maria di Nazareth.
Un altro elenco lo si trova nel vangelo secondo Luca per il quale al seguito di
Gesù vi erano «alcune donne, che erano state guarite da spiriti maligni e da
infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni,
e Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode, e Susanna e molte altre le
quali li servivano con i propri beni» (Lc 8, 2-3).
Oltre Luca (cfr Lc, 23, 49) anche gli altri sinottici
ricordano che le donne avevano “servito e seguito” il Cristo fin dalla Galilea
(cfr Mt 27, 55; Mc 15, 40). I verbi usati ci consentono di chiamare queste
donne “discepole” anche se gli evangelisti non le chiamano direttamente
così: esse, infatti, lo “seguono”, verbo che ha un chiaro riferimento alla
sequela proprio del discepolo e lo “servono”. Tutto questo comporta un
orizzonte di vera novità introdotta da Gesù: questa originalità sta nel fatto
che vengono accolte delle donne tra i discepoli, un gesto molto provocatorio
all’epoca. Donne discepole erano inimmaginabili presso i rabbini del
giudaismo storico e per il culto nelle sinagoghe. La donna, infatti, non
poteva leggere la Torah, né partecipare al banchetto pasquale, né
pronunciare la preghiera della fede ebraica, ovvero lo Shemah; non era molto possibile alle donne impartire lezioni di
carattere religioso. Per le donne non valeva il precetto del riposo assoluto da
lavoro creativo del sabato. Allora, per il diritto giudaico le donne non erano
abilitate a rendere testimonianza.
Le testimonianze neotestamentarie che riferiscono il seguito
femminile sono la palese affermazione di quanto, dalla neonata comunità
cristiana, sia stata percepita come novità assoluta il lasciare entrare nella
schiera dei seguaci le donne nonostante i pregiudizi della legge giudaica.
Emozione per Cristo come imitazione in Cristo
Ma la sequela non
basta. Non basta “seguire” il Cristo, bisogna “vivere in lui” (cfr. Fil 1,21). Questa dinamica della fede (non solo paolina) dice però che il
“Cristo” è la totalità di tutte le esperienze. Ogni gioia, ogni speranza,
ogni tristezza ed ogni angoscia è ricapitolata, accolta nell’unica grande
esperienza del Cristo e il Cristo totale è l’esperienza di fede di ciascuno.
In questo senso le
immagini del Convegno riuscirono a dire con maggior forza ciò che le parole
possono solo far intendere.
Quelle immagini
divennero un grido, un manifesto sul vissuto nella sua completezza.
Mi colpì molto quando l’artista affermò che volle riproporre
la figura della Maddalena per “riflettere attraverso di lei”. Aurora Cubicciotti
dichiarò: «Queste icone vogliono essere un rivolgersi alle persone col grido
della penitenza: penso che ci sia bisogno proprio di ripercorrere le strade
della penitenza per ritrovare quelle dell’umanità. La penitenza della
Maddalena, donna liberata e libera, è il luogo fertile per recuperare
l’immagine e l’identità dell’uomo smarrito».
Nel mio intervento spiegai che la sovrapposizione di Maria
di Magdala con la figura della peccatrice pentita era un refuso storico. Ma
poco importava ormai. L’artista aveva offerto in modo plastico la connessione
viva tra Passione di Cristo e Passione di Maria Maddalena. Tra
esperienza di Cristo ed esperienza della Maddalena. In quelle icone i
sentimenti, i dolori, le sensazioni sofferenti di entrambi si sovrapponevano tanto
che quelli della donna di Magdala si andavano completando in quelle del Cristo,
e viceversa.
Il messaggio era chiaro: l’esperienza di Maria Maddalena fu così profonda e assoluta che la
“sua” passione, nel vivo amore per quell’uomo crocifisso e nella condivisone
profonda di quell’esperienza drammatica, donava la luce della forza delle
proprie passioni e delle emozioni, per tutti. Maria Maddalena si presenta così
come un’icona della fede che contempla e completa il Cristo: una dinamica
che è la prefigurazione di tutte le “fedi”.
Si dimentica spesso che Maria di Magdala prima di essere
testimone del risorto fu testimone del crocifisso. Ed è la fede intrecciata,
plasmata, formata dalle passioni per il crocifisso, il sepolto e il risorto
per noi che dona viva luce alla vita e alla testimonianza di Maria di Magdala.
Passioni, emozioni e imitazioni si accavallano in una sola
realtà: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). E
il Cristo vive ora nelle esperienze delle donne e degli uomini.
Ma se questo è vero, perché si dovrebbe ancora impedire il ministero al femminile?
Perché fa comodo ricordarla come peccatrice perdonata (notizia infondata storicamente) per la quale "la misericordia di Dio ha fatto meraviglie" più che per la sua sequela e autorevolezza nella esperienza di fede e nella testimonianza?
Cosa manca alla fede per essere autorevole nella fede?
1.
L’immagine iniziale dell'articolo è quella dell’artista che cito nel
post: Aurora Cubicciotti è stata brava nell’imprimere alla sua iconografia
plasticità dei corpi e delle esperienze. Questo mi interessa. E lo spiego.
2.
Non vedo perché dover citare l’unzione di Betania:
non c’è dato storico per cui mettere insieme le varie figure (la Maddalena, Maria
di Betania, la donna pentita…). Nei sinottici la donna che unge Gesù non ha
nome. Solo in Gv 11,2 vi è un nome: quello di Maria sorella di Lazzaro che,
ovviamente, non è la Maddalena. Queste due figure restano due donne distinte e
non vedo perché associare la Maddalena alla donna pentita. In ogni caso, intorno
all’ultimo decennio del VI secolo, Gregorio Magno scrive: «crediamo che questa
donna che Luca chiama peccatrice e che Giovanni chiama Maria, sia quella Maria
dalla quale - afferma Marco - furono cacciati sette demoni» e lo fa per sottolineare
la grandezza della sua fede e la immensa realtà della misericordia di Dio.
Questi i dati. Ma a me importa altro.
3. In realtà, ciò che interessa qui, al di là dei dati storici, è la fede di una donna esaltata già dal I secolo dalla comunità cristiana. In quella fede non vedo perché non accogliere la presenza autorevole del Cristo.
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