La Supplica: “dolce catena” tra difesa e accoglienza della identità di fede
Collage di immagini del rifugio di Bernardo Provenzano tratte dal video del suo arresto avvenuto nel 2006.
Abbondano icone sacre, crocefissi, rosari ed almeno un paio di bibbie[i]
Nel giorno della tradizionale supplica dobbiamo ricordarcelo: senza la lettura sapienziale della fede di Maria e della sua figura,
si rischia una regressione sentimentalista. Non a caso alcuni gruppi religiosi popolari
conservano una forte devozione a Maria proprio confondendo il linguaggio
religioso con quello mitologico e superstizioso. Ed è questo il pericolo del devozionismo che rischia di essere una
delle tante “calamità ed afflizioni che ci costringono”.
Collage di immagini del rifugio di Bernardo Provenzano tratte dal video del suo arresto avvenuto nel 2006.
Abbondano icone sacre, crocefissi, rosari ed almeno un paio di bibbie[i]
Abbondano icone sacre, crocefissi, rosari ed almeno un paio di bibbie[i]
Umberto Rosario Del Giudice
Era il
1973
Tutti conoscono il mio nome. Molti si confondono.
Mi chiamo Umberto Rosario, senza virgola, e non per mia scelta: a
distanza di tempo, di firme, di dati anagrafici e di presentazioni, è un nome
che sembra essermi dato da solo.
Umberto era mio nonno paterno: così avrei dovuto chiamarmi.
Mia
madre, dopo complicanze accorse nelle ultime ore prima del parto, da brava
cristiana e devota, promise alla Vergine di Pompei, se l’avesse aiutata a
partorirmi vivo, di dichiararmi “Rosario”.
Il racconto ha poi dell’incredibile: nasco vivo; vengo alla luce; e
mentre mi guardo intorno con gli occhi ovattati da neonato, i miei genitori
litigano sulle mie generalità. “Si chiamerà Umberto”; “Rosario è il suo nome!”.
Così sarò ricordato con quel nome frutto di un’intesa non poco combattuta.
Oggi
Molto più vitale invece è la battaglia che circonda oggi le pratiche
e l’identità ecclesiale.
Dalle nostre parti, la devozione alla Madonna di Pompei è “di casa” come
un po’ ovunque al Sud.
L’icona che ritrae San Domenico e Santa Caterina da Siena in
ginocchio davanti alla “Regina” mentre accolgono la “catena dolce”, è presente nelle
case e, spesso, sosta sui talami nuziali.
Una devozione mariana che spinge nell’ultimo sabato del mese a pregare col corpo in un pellegrinaggio faticoso: “a piedi fino a Pompei”.
Chi ha
compiuto il lungo cammino religioso partenopeo capirà bene quanto, passo dopo passo,
tra canti e preghiere, il nome di “Maria” entri nel corpo prima ancora che
nell’anima, se mai ci possa essere distinzione tra questa e quello.
Nelle pie pratiche l’esperienza accompagna
la preghiera e si fa intimità, fino a far nascere le identità, vissute e
pensate, responsabili e rivendicate.
La pia
pratica della Supplica
Oggi, 8 maggio, la Chiesa si ritrova a pregare la “Supplica”.
Tutti ne ricordiamo la storia: è spuntata come un ennesimo fiore
nella letteratura mariana. La compose Bartolo Longo il cui principale scopo era
quello di far conoscere la preghiera del Rosario a tutto il mondo. In questo
modo l’avvocato salentino avrebbe dato voce all’Avvocata celeste espiando così il suo passato da spiritista e da sacerdote simil satanista. Una volta convertito,
avrebbe dovuto difendere e diffondere la vera religione, la vera devozione e la
preghiera quale “dolce catena che riannoda al cielo”. La spinta spiritista la riversava tutta nel nuovo ardore mariano, quasi come se l’impeto di prima
dovesse essere superato dalla intensità della conversione.
Era il
1883
Così Bartolo Longo compone, tra altri sonetti e giaculatorie, il suo
“Atto d’amore alla Vergine” poi conosciuto come “Supplica”. Nel 1915 Benedetto
XV prega la Supplica e la introduce definitivamente tra le “pie pratiche” del
cattolicesimo mondiale. Quel cattolicesimo che all’epoca vive in una società combattuta
tra razionalismo, spiritismo, nazionalismi palesi o nascenti e che ha bisogno di essere difeso e diffuso. Una tradizione religiosa che aveva come uniche forme immediate di preghiera le Ave,
i Pater, i Gloria, e che assisteva alla “messa” del prete di cui conosceva più
le sfumature della pianeta che quelle della faccia. Un cattolicesimo che viveva
di giaculatorie e di occhi rivolti verso il cielo mentre la popolazione
italiana contava il 90% di analfabeti; per inciso: alfabetizzato era considerato colui che sapeva “mettere la firma”, anche solo alla “Filumena Marturano” maniera, con una grande
e faticata “o” finale.
Un cattolicesimo combattivo, in un’epoca complessa, faticosa, in
cui la gente, in un continente dove lo straniero era il nemico, doveva far quel
che poteva, mentre ai ceti più elevati era riservato un cristianesimo intriso di
“devotio moderna”, orazione mentale, manuali di spiritualità, padre confessore, altari privilegiati e messe bi- e
tri-facciate.
Un cattolicesimo che ancora viveva di una forte propensione
apologetica ma che non dimenticava la prassi nonostante le note fossero quelle del rubricismo debordante e del sentimentalismo animista.
In quell’epoca va affermandosi sempre più la figura di Maria “immacolata”,
donna prediletta ma anche privilegiata rispetto alla “Miriam” del Vangelo, la
giovane donna di fede: forse una scelta ma soprattutto una conseguenza. Le
glorie di Maria (Alfonso Maria de’ Liguori), il Trattato della vera
devozione a Maria (Luigi Maria Grignion de Montfort), manuali di devozione
e di mariologia che, in qualche modo, supportavano il bisogno di predicare
fiducia e misericordia in una visione teologica tutta allineata alla virtù di religione e
alla giustizia divina.
Dalla letteratura dell’epoca ne viene fuori un’immagine mariana più
santa che terrena, più divina che umana. Alla donna di fede si preferisce la figura della Vergine potente. E non ce ne dobbiamo meravigliare visto che il sentimento generale della società era ancora monarchico più che liberale, più
analfabetico e passionale che dotto e accorto, più idealista che missionario: tanto che il “re” era visto come l’inviato
di Dio, figura tra mediatore sacro e taumaturgo.
Era il
1521: la fede di Maria nel passato
Ciò nonostante, il cristianesimo nella sua letteratura non aveva
dimenticato la fede quale atto centrale della vita di Maria.
Lutero scrisse una “Commento al Magnificat” in cui esaltava la fede
come atto principale dell’amore e della speranza di una giovane donna che
ripone tutto nella bontà di Dio. Quel mistero che lei conosceva bene grazie
alla preghiera dei Salmi, la preghiera di Israele; e Lutero ebbe la forza e la
capacità di raccontare quella fede declinata negli affetti e nelle virtù di Maria.
Le
laude
Prima di Lutero, Francesco d’Assisi dipinse Maria con l’uso del linguaggio di corte. Maria era la “Madonna”, la “Signora”,
la “Donna”. Così nacque l’attitudine a rivolgersi a Maria con “laude” in cui la “Donna”, prima del Figlio, è considerata come mandata al mondo da Dio. Da notare però che il contesto
medioevale è più cristocentrico di quanto possa esserlo quello della Basilica
di Pompei ai tempi di Longo. Nel medioevo l’interpretazione simbolica della
realtà rimanda, pur con tutti i limiti, a una lettura sapienziale; per tutto il
periodo tardomedievale, Maria appare come apertura alla trascendenza[ii].
Era il XIII secolo.
Tra Vangelo
e Vaticano
Eppure rimane lì, il “Magnificat” secondo il vangelo di Luca, il primo cantico dedicato agli affetti di Maria appassionata dal grande nome del suo Signore e che riveste i
panni dei “piccoli che si fidano” di Dio. L’umile giovane esalta la
misericordia del Signore, ringrazia la sua manifestazione, racconta la sua
potenza che è insieme giustizia e misericordia.
Questa “Maria” è ripresa dal Concilio Vaticano II non senza qualche
rimando al linguaggio del XIX secolo ma con un deciso approccio teologico
rinnovato nella tradizione biblica e patristica.
La Chiesa, grazie agli studi dei movimenti biblici, liturgici, ecumenici,
patristici, ritorna ad affidarsi a Maria come alla fedele eminente tra i
fedeli, dentro e non fuori alla Chiesa, come “donna dei nostri giorni”
(don Tonino) che ben conosce le dinamiche del credere.
Le
difficoltà emergono
Nel XIX secolo i linguaggi vari, quello evangelico del “Magnificat”,
quello signorile delle Laude, quello devozionale delle Suppliche, si incontrano
e si scontrano.
La “donna dei nostri giorni” si affianca a malapena con la “Regina
delle Vittorie”; la “giovane donna di Nazareth” si scontra con le maiuscole del
vocativo “Regina gloriosa del Rosario”.
Alla donna “innamorata di Giuseppe”, “al cui nome si rallegrano i
cieli e tremano gli abissi”, concediamo in un tutt’uno ammirazione responsabile
o filiale obbedienza: approcci a tratti schizofrenici.
Tra
devozione e sequela
I linguaggi narrativi e mitologici si rimandano senza entrare in conflitto
solo se compresi nei loro contesti storici, nelle dinamiche vissute dalla Chiesa,
secondo le riflessioni della teologia che sta dietro e le prossimità
dettate dalle pratiche religiose agite.
Nel momento in cui non capiamo o non ricordiamo i contesti dei vari linguaggi,
il conflitto sarà l’unico modo con cui risolveremo mito e sequela. I linguaggi,
se non compresi, generano conflitti, opposizioni, confusioni.
Tenendo conto però dei presupposti e dei vissuti ecclesiali, sarà possibile
pregare col linguaggio della Supplica solo se abbiamo ben presente lo sfondo biblico. Così la devozione ottocentesca è riconosciuta come tale se la
preghiera del Rosario è ricondotta tra le pie pratiche vocali come utile mezzo di
“contemplazione dei misteri di Cristo” ma non sostitutivo dell’esperienza e
della sequela cristiana. Capiremo i linguaggi se li conosciamo e li traduciamo,
e, nella consapevolezza, potremmo usare lo stile della Supplica riconoscendola
come atto popolare e non sostanziale di fede. Anzi, il vero atto d’amore e di affidamento verso Maria sarà nell’aiutare a superare quel linguaggio e quella mentalità, poiché lo stile dice la forma e la forma dice la sostanza.
Il
pericolo dei linguaggi
Purtuttavia distinguendo i linguaggi, dunque, il pericolo è dietro l’angolo:
la “Augusta Regina delle Vittorie”, la “Sovrana del Cielo e della Terra”, la “Regina
gloriosa del Rosario” potrebbe alimentare una Chiesa fatta di pii devoti che gridano
alla “madre” senza però entrare nelle dinamiche di quella fede che ha generato la
“madre” e i “figli”, la “giovane donna” e il “Popolo di Dio” in cui e con cui essa
cammina.
La figura retorica della “sposa dello Spirito Santo” (definizione in sé
già complessa) non potrà e non dovrà confondersi con l’azione dello Spirito di Dio.
Le pratiche devote nel corpo, nelle parole e nelle ginocchia piegate possono
coesistere con una fede capace di guardare in faccia alla sua libertà, purché
quelle pratiche non sostituiscano la necessaria sequela di Cristo e la rinnovata affettività illuminata dalla fede.
Ecco che l’equilibrio tra preghiera e culto mariano rimandano a
questioni ecclesiologiche e liturgiche.
In fondo il Rosario, conosciuto anche come “salterio della beatissima
vergine Maria”, già dal XIV secolo sostituisce quasi definitivamente la preghiera
dei Salmi[iii]
con la bella intenzione di superare l’analfabetismo letterario. Quest’intenzione,
non più adatta all’attuale condizione sociale della comunità ecclesiale, rischia
di diventare analfabetismo funzionale ed ecclesiale se non compreso nella sua pratica di preghiera vocale che accompagna, stimola, evoca, la preghiera affettiva ed effettiva, nell’abbandono dei piccoli e nella contemplazione dei semplici oltre le parole o il numero delle giaculatorie.
Le buone parole del XIII o
del XIX secolo rischiano di confondersi con le utili pratiche del XX secolo
sostituendosi ancora una volta alla sequela, fino ad arrivare nel nostro secolo
ad una possibile ambiguità.
Il Rosario prende il posto della Liturgia delle Ore ancora oggi non
solo come pratica funzionale ma come mentalità religiosa: e questo è il pericolo antimariano.
E se l’ecclesiologia
della “Maria incoronata” sostituisce quella della “Maria della fede”, la
devozione finirà per sostituisce la celebrazione del mistero, la pratica della
fede, l’esperienza della preghiera.
Anzi, è la stessa realtà e identità ecclesiale
che viene confusa anche nell’immaginario collettivo: prova ne sia il fatto che oggi
ritroviamo il testo della Supplica tra la cronaca di un quotidiano online[iv].
Riconoscere
i linguaggi, gli affetti e le identità
Il Popolo di Dio deve affidarsi con tutto il cuore a Maria, madre del
Signore[v]
ma deve sapientemente riconoscere i linguaggi, i contesti e gli affetti. Le generazioni hanno il dovere di riconoscere i linguaggi in cui vivono e di svilupparne le identità, come fossero dottrine rinnovate, perché nei linguaggi nasce e cresce l’esperienza e si cristallizza la credenza.
Così la percezione della vicinanza di Dio, del regno dei cieli, viene diversamente detta di generazione in generazione.
Senza la lettura sapienziale della fede di Maria e della sua figura,
si rischia oggi una reale regressione intimista che può animare superstizioni animiste come se la figura di Maria fosse una personificazione sacra eretta nel panteon
delle potenze invisibili. Non a caso vi sono persone pie e gruppi religiosi
spesso poco coerenti con la morale cristiana che pur conservano una forte devozione a Maria, confondendo
il linguaggio religioso con quello mitologico e superstizioso. Nel rifugio di Bernado Provenzano furono ritrovate immagini e corone sacre. Ecco il pericolo
devozionalista che rischia di essere una delle tante “calamità ed afflizioni che ci
costringono”.
Il testo della Supplica rientra in quella letteratura apologetica e
trionfale che può anche risultare utile nel condurre e ricondurre gli affetti filiali
in un accorato appello secondo le dinamiche dei sentimenti popolari. Ma la Supplica
non può sostituire l’esperienza personale, e le parole nostalgiche non possono
sostituire la dinamica della fede oggi più che mai chiamata ad costruirsi in modo trasparente a partire dalle pratiche.
Bisogna dunque ribadirlo: le giaculatorie così come gli atti di amore
o di dolore non nascono per sostituire la fede ma per alimentarla in un
contesto ecclesiale in cui solo i preti erano a “contatto col sacro”.
Oggi possiamo
conservarli a patto che riconosciamo quella mentalità: il pericolo è di perdere la memoria dei linguaggi e con essa il
buon nome di “cristiani”, rischiando l’identità ecclesiale.
Che la fede vissuta di Maria ci liberi dalla nostalgia di un’ecclesiologia celeste della separazione piramidale, della pratica intimista, dell’invocazione animista e della scarsa
consapevolezza battesimale dei “figli nel Figlio”.
O la fede ci aiuta a vivere nell’esperienza di Cristo sperimentando la
presenza e l’azione dello Spirito o qualsiasi altra pia pratica ci porterà
lontano dal nome di cristiani.
Io, intanto, ricordando i voti mariani di mia madre e ritrovandomi nell’esperienza di fede che gusta la misericordia estesa di generazione in generazione, continuerò
a presentarmi con l’identità, gli affetti e il nome di battesimo: Umberto Rosario.
[ii] Dinamiche
storiche che ho tentato dispiegare in: U.R. Del
Giudice, Dalla fede di Maria al Rosario. Saggio breve di mariologia
tra francescanesimo, luteranesimo e preghiera del Rosario mariano, Napoli
2014.
[iii] Cfr. E.D.
Staid, «Rosario» in S. De Fiores – S. Meo, Nuovo
dizionario di mariologia, Assisi 1986, 1086-1093.
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