In ricordo di Woytila oltre l’ingenuità di ieri e di oggi






Semplicità del vivere ed errori sistematici di valutazione/percezione





Umberto Rosario Del Giudice



La semplicità personale non va confusa con la possibile ingenuità.
È bello, anzi virtuoso essere semplici: è pericoloso essere ingenui.
Tento di spiegarlo con racconti che incrociano due papà, un bambino e un Papa.


Errore di ingenuità

A volte commettiamo errori di ingenuità o almeno quelli che alcune ricerche di psicologia definiscono come “errori fondamentali di attribuzione” o “errori di corrispondenza”.
Vi sono principi che usiamo, in modo alquanto non ragionato, per interpretare la realtà.
Questi “principi” sono dettati dal senso comune in cui siamo immersi e con cui percepiamo le cose o le persone.
La percezione crea la realtà.
La stessa interpretazione/percezione della realtà determina, spesso in modo irriflesso, i principi con cui cataloghiamo noi stessi e la realtà.
Con i propri “principi” e le proprie “categorie” l’uomo ha l’impressione di avere una padronanza sul mondo che gli si pone avanti, compiendo allo stesso tempo non poche previsioni. Tutto questo “sistema” non è un “errore” ma è indice di quanto l’uomo tenda a semplificare la realtà seguendo la sua spontaneità primordiale e simbolica.
Siamo così quasi predisposti a credere che la realtà non sia complessa e con un semplice ragionamento di causa/effetto o di causa/risultato possiamo sempre cavarcela.

Proprio in questo periodo ci stiamo accorgendo come la fiducia nella tecnologia, nella medicina, nella scienza, nella didattica induttiva, stia diventando spesso un veicolo di pensiero generalizzato e diffuso.
Insomma, basta un “clic” è tutto può andare a posto.
La nostra fiducia nel “semplice” sembra senza confini e la nostra interpretazione della realtà ingenua.

Oggi, tra l’altro, le strade tornano ad affollarsi e, forse troppo ingenuamente, quella che i virologi chiamano “fase 2” la interpretiamo come “fase libera”.
Ma la realtà resta complessa.

Spiritualità, semplicità e ingenuità

Questa semplicità primordiale si ripropone nella spiritualità.
Le relazioni con noi stessi, con gli altri e col trascendete spesso richiedono una semplicità che le tradizioni religiose hanno tradotto con “percezione del sé”, “mente libera”, “povertà interiore”, “disponibilità”, “concretezza”, “umiltà”.
Ma la semplicità delle intuizioni e degli atteggiamenti non va confusa con la semplicioneria. E soprattutto la semplicità nelle relazioni non va confusa con l’ingenuità nella interpretazione della realtà.
Così anche dal punto di vista delle pratiche ecclesiali possiamo adoperare con una certa ingenuità: rimandiamo la soluzione “immediata” ad una preghiera, ad un sacramento, oppure lasciamo che un bel progetto pastorale ci dia l’impressione di rimettere tutto a posto e in breve: basta l’efficacia pastorale.
Ma non è così.

Errori di ingenuità tra vita e prassi

L’errore di ingenuità ci dice che non siamo ben consapevoli delle cause e degli effetti, intenzionali o meno, rispetto alla realtà che ci circonda ma cerchiamo sempre di fidarci della soluzione immediata. Attribuiamo cause, effetti, intenzioni, volontà, soluzioni, in modo netto e distinto ad una realtà che, al contrario, è il risultato aperto di molti fattori.

Mi tornano in mente tre piccoli esempi chiamando in causa mio padre, uno dei miei figli e me stesso in riferimento ad un Papa, oggi festeggiato nel centenario della sua nascita.
A volte la fiducia nella medicina o nella tecnologia ha il risvolto di una percezione ingenua della realtà.
Da figlio ho visto l’ingenuità di mio padre e da padre ho visto quella di mio figlio.
Ma da figlio e da padre sono stato a mia volta ingenuo.

Basta una “compressa” o un “tasto”

Io come figlio.
Ricordo che mio padre, pur essendo informato chiaramente sulle sue condizioni, continuava a chiedere ai vari chirurghi, in ospedale e a casa, una “compressa”. Era sicuro che nel terzo millennio la medicina avesse già una soluzione per le sue condizioni o la stesse per trovare. Credeva che sicuramente ci sarebbe stata una soluzione chimica ai suoi problemi fisici; bisognava solo trovare il medico capace di capire quale fossero le dosi giuste. Ma la sua condizione fisica era molto complessa e la compressa utile in un corpo non risultava efficace nel suo.
La realtà complessa rendeva inutile ogni compressa.
Ma lui continuava ad aggrapparsi ad una possibile “medicina”. Non so se fosse la disperazione o la fiducia cieca nella medicina che lo facesse ragionare in questo modo. In realtà non si è in errore se si ripone fiducia: l’errore inizia col credere che basti avere fiducia dimenticando di guardare e ragionare sulla realtà.
Qualsiasi sentimento che distorca la realtà conduce ad un errore di ingenuità e di mistificazione.
Una compressa non basta.

Io come padre.
Mio figlio, che frequenta la primaria, durante le due ore di didattica a distanza avrebbe voluto subito consegnare un compito svolto con la maestra. Di solito la consegna la facciamo insieme nel pomeriggio. Chi è pratico sa che tra scansione, formattazione, salvataggio in pdf, caricamento, condivisione sulla classe virtuale, le operazioni non sono poche e richiedono una certa competenza digitale.
Ma la sua domanda è stata netta: quale fosse l’unico tasto per caricare il documento dalla stampante e condividerlo con la maestra.
Un unico tasto.
Credeva bastasse un tasto e non una serie di operazioni per condividere. Mi sono ripromesso di insegnargli alcuni passaggi: avremo bisogno di tempo e di simulazioni. Solo così potrò insegnargli quante e quali sono le operazioni in gioco.
Qualsiasi idea che scavalca la complessità della realtà determina errore di ingenuità.
Premere un tasto non basta.

È evidente che siamo spinti a credere, un po’ troppo ingenuamente, che la realtà sia semplice.
Al contrario, la realtà rimane complessa nella interpretazione e nei risvolti anche quando il nostro atteggiamento è semplice.


La prassi ecclesiale tra personalità semplice e personalismo ingenuo

Io come figlio, padre e credente.
Tra i miei errori di ingenua valutazione vi è quello di aver creduto, per un buon periodo degli anni Novanta, che bastasse la buona e solida personalità del santo pontefice Giovanni Paolo II per aiutare la Chiesa a rinnovarsi.
Poi ho capito: la Chiesa doveva e deve comprendere la sua realtà complessa.
Non bastava la personalità del papa Santo ma c’era bisogno della fatica di tutti per fare qualche passo lungo il cammino tracciato dal Concilio Vaticano II.
Richiamo qui un’evidenza: le virtù di un santo possono raccontare la sua fede e la sua carità, la sua forza e la sua speranza in determinate situazioni, ma non possono descrivere tutta la realtà, né la sua né quella da lui vissuta. In altre parole, se vanno accolte le virtù vissute non per questo vanno condivise le dottrine insegnate.
San Giovanni Paolo II è stato forte comunicatore, uomo generoso, libero e sincero e questo anche grazie al suo passato di minatore, di poeta e di attore. Da Pontefice, e va riconosciuto, è stato un personaggio determinante chiamato alla ribalta della politica europea e internazionale.
Ma la sua personalità semplice e forte, le sue “virtù”, per dirla nei termini di una certa teologia spirituale e morale, non possono sostituire la complessità dell’autocomprensione e autopercezione che la Chiesa deve avere di se stessa.
La semplicità di un uomo, sebbene sia “santo subito”, non va confusa con la sua possibile ingenuità. Anzi, il pericolo serio è quello di canonizzare le ingenuità insieme alla semplicità.

La semplicità di papa Woytila

Ci fu un atteggiamento di papa Woytila che mi colpì tra gli altri e che disegna il suo tratto umano.
Quando atterrò a Cuba in un viaggio epocale che vedeva il capo della Chiesa cattolica incontrare uno dei leader più convinti della rivoluzione comunista del sud America, il santo Papa non indugiò in un saluto diplomatico né si trattenne in convenevoli.
Papa Woytila chiese a Fidel Castro che ora fosse; e fu subito accontentato dall’ex guerrigliero cubano.
Il minatore polacco e il rivoluzionario sudamericano stavano lì sulla scena del mondo a regolare gli orologi.
Dopo un lungo viaggio, dopo anni di embargo, in un momento in cui il mondo attende l’incontro che potrebbe stravolgere i rapporti internazionali nel continente americano e non solo, scendi dalla scaletta, incontri il Líder Máximo e cosa chiedi? Che ora è?!
Ecco questa non è ingenuità ma è l’intuizione semplice dell’umanità matura, la capacità relazionale dell’uomo buono che riesce a dialogare con chiunque per rendere la realtà semplice, come quando si parla di affari importanti davanti ad una tazza condivisa di caffè. Karol Woytila sapeva tuonare contro le mafie, ma sapeva anche accostarsi con semplicità ad un dittatore per aiutarlo a capire.
Chissà quante cose si saranno detti al di là del fuso orario. Ma quel gesto semplice ha contestualizzato la visita del papa a Cuba e avrà aiutato lo stesso Castro a sentirsi più disponibile, anche ad ascoltare parole che “potrebbero non essere piaciute”.
Ma, io come tanti, non ho colto subito che se gli uomini possono essere semplici nelle relazioni ed eroici nelle virtù, possono essere ingenui nei sistemi.

L’ingenuità del papa Santo

Per lungo tempo ho letto i testi frutto delle lezioni dell’allora giovane insegnante Woytila: Persona e atto o Amore e responsabilità. Vi erano in nuce i parametri del suo insegnamento dottrinale da futuro pontefice. È noto che negli anni precedenti il Concilio insegnò etica mettendo insieme aspetto ontologico e psicologico della fede, ovvero cercando di coniugare tomismo e fenomenologia.
Ma ho dovuto constatare che la mia attenzione euforica si confondeva e si fondeva con la sua dottrinale ingenuità: voler trovare in una idea, quella personalistica, il passepartout per reinterpretare la antropologia tomista con quella moderna e classica sarebbe stato un errore di valutazione che ancora tinge i colori del sapere ecclesiale. Il tentativo, sebbene con stile e buona volontà, era quello di far passare attraverso il concetto di “persona” l’ontologia in cui andava cristallizzandosi la dottrina cattolica sotto il suo pontificato.
Così l’ingenuità del dottore in morale è diventata l’ingenuità del Papa, della Chiesa e la mia.
Ora sarebbe un grave errore di attribuzione o errore di corrispondenza dire che tutto il pontificato di Wojtyla fu un passo indietro rispetto al Concilio Vaticano II. La sua persona ha segnato il cammino della Chiesa. Ma sarebbe altrettanto errato attribuire alla sua dottrina una semplicità intuitiva: in realtà lo stesso concetto di persona nasconde tinte di sistema ideologico. Se al posto dell’essere ci metto la persona ho fatto una bella opera di traduzione ma nella pratica nulla cambia: il personalismo ontologico può rivelarsi una brutta ingenuità di sistema razionale.

Un bel ricordo non ingenuo

A cent’anni dalla nascita di papa Wojtyla è giusto che la Chiesa ricordi la sua “virtù”. È altrettanto doveroso evitare ingenuamente di far passare attraverso il concetto di persona un’ontologia statica che non considera a conti fatti né la persona, né la sua storia, né la complessa identità della Chiesa nella sua vita e nella sua autodeterminazione.
Non basta un concetto per dire la realtà di cui oggi facciamo parte né basta un’idea per tradurre i principi dottrinali. Il rischio del magistero di papa Wojtyla è stato quello di essere semplice nella comunicazione ma ingenuo nella conservazione di una dottrina che va ricompresa oltre lontologia e oltre i sistemi teologici e gerarchici. La sua ingenuità dottrinale ha avuto gravi ripercussioni anche nell’uso e nell’idea di autorità: e questo è risaputo.
Anche le idee fanno le persone.
Ma non dobbiamo fermarci alle idee.
È un errore che non ci possiamo permettere su vari livelli e soprattutto oggi, in  un momento in cui la Chiesa rischia l’ingenua percezione che le basti “tornare a celebrare in qualsiasi modo” per essere ancora sé stessa, oggi e domani.

Il cammino semplice, non ingenuo, è lungo.




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