Esperienza musicale, identità e libertà dell’assemblea
“Musica domus” e “cantus Domini”: azione rituale tra fonografo, web, gruppo chiuso e assemblea.
Se la dinamica della comune esperienza è sostituita dalla logica della fruizione personale che si nasconde dentro al legale precetto o alla forma produttiva di celebrazioni, il dono dell’eucaristia rischia di diventare sempre più una musica per chi se la canta e se la suona da solo. La competizione sarà il culmine della fonte.
Phonographo Sirene (1905-1906) –
Museo Radio
Umberto Rosario Del Giudice
La musica da esperienza a bene di consumo
Prima della fine del XIX secolo
non vi era la possibilità di registrare audio. L’invenzione di Edison si impose
solo nel 1877 e più nelle fiere che nelle case. Il fonografo (la prima versione
del grammofono) risultò attrarre la curiosità; da molti però non fu subito
considerato strumento di diffusione musicale. Pian piano ebbe la meglio sulle
musiche da camera. Ma non dappertutto. Nelle case semplici, povere, la musica
si poteva ascoltare solo se qualcuno la suonava dal vivo. In casa spesso c’era
qualcuno che praticava uno strumento. Allora poi, e molto più frequentemente di
oggi, i bambini presto venivano iniziati ad uno strumento musicale anche solo in
modo intuitivo.
Insomma, la musica o era prodotta
dal vivo oppure non si ascoltava, o meglio, semplicemente “non c’era musica”.
Poi, a metà del XX secolo,
l’avvento della televisione: questo nuovo “mezzo” ha gestito i luoghi degli
spazi comuni e quelli delle case in modo tale che il dopocena o era vissuto al
bar o sulla poltrona incollati a quella scatola con le figure che si muovevano,
magari invitando il parente o il vicino ancora sprovvisto di tivvù.
Musica, spettacoli, commedie,
tutto poteva essere registrato e messo in onda per la “consumazione” comune.
Lentamente i musicisti da unici
soggetti di mediazione son passati ad attività più specifiche: bande, spettacoli,
serate, cerimonie… Anche la musica dal vivo diventa una “cosa da professionisti”
e “da consumare”.
Quando ero piccolo accompagnavo
spesso mio padre a lavoro: ricordo ancora con forte emozione le performance dei
cinque-sei elementi nella “buca dell’orchestra” che accompagnavano gli spettacoli.
Il cd di oggi sarà più economico anche per la produzione teatrale, ma è un’altra
esperienza, direi più “intellettuale”.
Esperienza, canto e gruppo
Ma facciamo un passo in dietro.
La musica da camera o quella
casalinga certamente differivano: dotta la prima, tradizionale la seconda, anzi
popolare. Ma in entrambi i casi l’interpretazione dell’artista o del gruppo era
sostanziale all’esperienza della musica stessa. Che un artista suonasse a suo
piacimento un brano, interpolandolo con propri acciacchi, pause, abbellimenti,
silenzi, carattere, poneva lo stesso performer in una situazione di
personalizzazione del brano musicale e il gruppo non sapeva forse che quella
sarebbe stata un’esecuzione irripetibile e comunque “locale”, “unica”.
E questo soprattutto nelle case:
le musiche e i canti tradizionali erano suonati in forme così diverse che poteva
confondere un avventore che a stento avrebbe riconosciuto in quelle melodie il
vecchio motivetto cantato a casa. Un po’ come succede anche a noi: si ascolta
un brano in una comunità che si discosta così tanto per esecuzione che si riconosce
con fatica: ed anche il gusto segue l’esperienza. In ogni caso, senza l’esperienza
del e con il proprio gruppo, il singolo poteva non riconoscere come propria
quella melodia. Una dinamica che risiede nella comune esperienza musicale.
Anche la diversità è cifra dell’identità
e dell’esperienza. Un brano poteva diramarsi in mille versioni: il problema
non era l’esecuzione unica ma l’interpretazione che quella casa o quella camera
offriva di quel brano, tanto da farlo proprio fino a trasformarlo. Un po’ come
succede con le parole: di dialetto in dialetto, di regione in regione, di rione
in rione.
Insomma: la “localizzazione”
della esecuzione musicale mediava l’identità e l’esperienza di gruppi, in una casa
o in una camera. L’esperienza pone livelli di diversificazione che aprono a identità
irripetibili e significative, per il singolo o per il gruppo.
Questa evidenza è stata chiamata “impronta
sonora” (soundmark), ovvero un suono di riferimento di una determinata
comunità che, nella sua unicità, contribuisce a determinarne l’identità
culturale, diversificandola allo stesso tempo.
Esperienza, identità, gruppo,
musica, canto: una dinamica che rimanda poi al ritorno ad un’esperienza
sempre nuova, diversa, trasformata e trasformante, del gruppo e del singolo.
Musica e consumo
Le registrazioni però complicano
le cose, come già accentato.
Qui qualcuno ha parlato di vera e
propria schizofrenia[i]
tra espressione e scambio formale. L’esperienza espressiva del
canto diventa uso e consumo musicale. La musica diventa riconoscibile,
individuabile, mercificabile. Qualcuno parla di reificazione della musica in
merce e vede un nuovo modello farsi avanti: “il contrasto tra
musica-come-espressione e musica-come-merce”[ii].
Con la registrazione anche
l’errore non è perdonabile poiché, si sa, si pretende che la musica sia impeccabile,
e mentre la mano stanca dell’esecutore dal vivo era “perdonabile” perché con
lui si condivideva gioia e fatica del ballo, del canto, del suono, ora, tracce,
nastri e vinili chiedono un’esecuzione “originale”, impeccabile. L’errore non è
più percepibile perché non è condivisa l’esperienza musicale in atto. Abituati
alla “mano registrata” anche l’errore non si perdona più: la musica da luogo di
esperienza diviene bene da usare. Il consumo musicale porta i gruppi e i
singoli a divertirsi da soli, a riflettere individualmente: dalla registrazione
nasce il consumo come prevalente soddisfazione del bisogno del singolo. La
musica è sottoposta notevolmente alla dinamica di mercato. Bene intesto: non perché
la musica non sia stata oggetto di mercato anche nei secoli precedenti (basti ricordare
le opere commissionate). Ma la questione è che l’esperienza della musica è sostituita
con il consumo in sé.
Con le registrazioni il suono musicale
diviene un sistema chiuso: anche la cosiddetta “musica leggera” avrà una sua
esecuzione sempre raffinata e soprattutto orecchiabile, ovvero consumabile, per
la soddisfazione degli affetti personali.
Assemblee come sistemi chiusi
Anche le nostre assemblee rischiano
di vivere un “sistema chiuso” nonostante qualche canto si intoni.
La fruizione a numero chiuso
rischia di creare ingiustizie, perplessità, individualismi.
Sebbene vi siano, come mi
comunica un mio amico agostiniano da Firenze, basiliche lunghe 96 metri con
poca affluenza e con cinque messe domenicali (che possono anche diventare sei,
sette…), molte altre parrocchie non si troveranno nella stessa condizione. Conosco
almeno un rione in cui tre chiese su sei offrono uno spazio di massimo 50 mq
per un numero complessivo di circa 29 mila abitanti (non tutti praticanti e
cattolici ovviamente).
Questa è una delle difficoltà a
cui andremo incontro: il numero chiuso rischia di creare assemblee chiuse e non
solo perché mancano gli spazi ma perché manca la condivisione e ciò che era
latente ora si manifesta in tutta la sua drammaticità.
L’assemblea è un luogo di
esperienza concreta: non solo perché l’assemblea canta e fa esperienza comune
del suono che riunisce nello stesso respiro. L’assemblea è luogo comune di
esperienza di una Parola (o se volete, di un Canto) che non viene da sé.
L’assemblea è custodita nella comune esperienza della Parola e dell’eucaristia.
Il “consumo” delle due mense (ambone ed altare) è tale perché in comunione. Il “consumo
assembleare” è tale perché escatologico, attenzione per i piccoli, lavanda
comune, destrutturalizzazione dei ruoli per la comune esperienza di libertà
nello Spirito che convoca.
L’assemblea è il luogo non
domestico di una esperienza familiare, sebbene pubblica: una famiglia il cui
legame è l’esperienza della salvezza non dei soli legami intimi, affettivi,
parentali ma di quelli di fede condivisa e riconosciuta («chi sono i miei
fratelli?», si chiede Gesù…; cfr. Mc 3,33). Per questo l’assemblea è il
soggetto principale in cui l’azione rituale restituisce identità e forza al
gruppo e ai singoli in assemblea (in ecclesia).
Ogni assemblea (chiesa
particolare, locale, parrocchiale…) vive la sua esperienza e la sua identità
anche in modo specifico e dinamico. Le rubriche dei riti se conosciute, ad
esempio, aprano alla possibilità di mille “esecuzioni”. Cito spesso lo stesso
esempio lampante che mutuo dal rito della Penitenza: tutti conoscono un solo
“Atto di dolore” mentre il rito ne prevede almeno dieci e anche più (se si
leggono bene le rubriche…).
E se abbiamo pensato la Penitenza
come canto della libertà del singolo (pur sempre nella comunità – e questo dato
va recuperato) non possiamo con la stessa logica affrontare la libertà esperita
dall’assemblea eucaristica poiché le dinamiche dei sacramenti sono differenti e
chiedono differenti esperienze del soggetto nella Chiesa. Ogni rito ha una
forza creativa e rigenerativa in sé se è donato all’assemblea che vive il rito e
che fa proprio il rito. In questa dinamica il “consumo” non è mercenario ma
salvifico. Il “consumo nella salvezza comune” apre le esperienze e apre i cuori
confermandoli nella carità e nella fede.
Liturgie domestiche e liturgie a numero chiuso
Mi chiedo cosa sia venuto a
mancare in questo tempo di “liturgie in streaming” e cosa rischiamo nelle
previste “liturgie a numero chiuso”, formalmente impeccabili.
Le assemblee erano “in casa” o “a
casa”; ora saranno al massimo “a numero chiuso”.
E mentre sarà rispettata
l’esecuzione liturgica per pochi, come nella musica da camera, quella che
mancherà sarà l’esperienza dell’assemblea comune che ci fa uscire dalle nostre
case e ci rende liberi nella comunità, ci rende destinatari unici della Parola
e dell’altare. Non è il luogo che farà la differenza ma sarà il luogo che
cambierà le relazioni. Ciò che manca non è l’esecuzione formale, ma
l’esperienza che rende quella esecuzione agita perché “agita in comune” e quindi
luogo e spazio di creazione di una irripetibilità direi “segreta”: tale non
perché non comunicabile ma perché non trasmissibile se non nella comune esperienza.
Se anche la liturgia diventa un
sistema chiuso come se fosse un prodotto musicale da consumare grazia al
moderno grammofono in web o grazie alla camera d’élite a numero chiuso, la forma
canonica sarà salva ma tradirà la forma vivendi, col dubbio che
senza questa la prima sia solo una forma simulata.
Se la liturgia è “tracciata”
su un vinile o su un social, allora potrebbe essere anche “tradita”. Se poi
è “limitata” potrebbe essere “simulata”.
Sono giunte anche voci di qualche
“messa” in differita: un dvd rituale dove il tasto del telecomando vale più di
un segno di croce.
Azione comune e identità
Che l’esperienza comune e locale
sia una necessità per la propria identità è emerso anche chiaro da alcuni brevi
sondaggi. Numerosi amici (per lo più giovani) sollecitati sulle liturgie in streaming
hanno ammesso che cercavano quelle delle proprie parrocchie per sentirsi sempre
più uniti alla stessa comunità e per replicare o almeno vivificare l’esperienza
del proprio gruppo con la propria guida, il parroco.
È vero anche altro: qualcuno ha
confessato di connettersi agli spazi comunitari online solo per “testimoniare”
la presenza virtuale, ma poi di preferire altre “stanze” virtuali.
C’è anche chi disattivava l’audio
alle omelie per tornare vigile al credo…
Lo streaming è stato un luogo di
condivisione ricco ma i corpi erano virtuali. Si può ancora chiamare
celebrazione? Non si vede come anche se va evidenziato che la gradualità e i
livelli di “affetto ecclesiale” in una situazione oggi di quarantena per molti o
di impossibilità per altri (come spesso succede per i malati) dovrebbe far
sperare che ognuno sappia prendere il meglio dalle esperienze virtuali. Ma sembra
ambiguo almeno definire “celebrazione” e “partecipazione attiva” le visioni streaming
solo perché vi è una “comunione spirituale”: le esperienze spirituali vogliono il
corpo perché lo spirito non vive fuori da esso.
Se i riti sono esperienze
condivise e se le azioni rituali introducono alla novità salvifica come a canti
mai definitivamente posseduti come in una registrazione, anche ogni altra azione
sarà vivificata dalla propria identità confermata. Per questo la relazione
rito-vita appare come un falso problema. È l’identità personale e comunitaria
che, ristrutturata e ripercorsa nel rito, porta in sé un’identità indifferibile
e indistinguibile dalle altre azioni esistenziali.
Belle in proposito le parole
scritte negli anni ’80 da Dussel che ripercorre le esperienze delle prime
comunità cristiane: «il pane eucaristico della ‘comunità dei credenti’ era un
pane che aveva soddisfatto il bisogno, nella giustizia (“condividevano con
tutti”), nell’allegria del consumo, del mangiare, della soddisfazione. Era un
pane comunitario di vita e di amore. È l’utopia del cristianesimo originario,
l’utopia del Regno definitivo, l’orizzonte di comprensione critica di ogni
criterio economico storico, la giustizia come condizione pratica per poter celebrare
l’eucaristia che salva»[iii].
Ora va riconosciuto che la “giustizia”
che ci verrà dalle assemblee a numero chiuso sarà solo parziale.
Prospettive e limiti: avanti adagio
È il periodo di restrizione a evidenziare
i pericoli, ma la reale alterazione delle assemblee era già palese da tempo (e
per altri motivi oltre che quelli della logica dell’uso).
E se prima del tempo delle
liturgie domestiche il rischio concreto era quello che l’assemblea si chiudesse
in un semplice autocompiacimento affettivo (tipo sindrome chioccia) riducendo
la propria sensibilità alla presenza del mistero e al sentimento dell’Altro
quasi come se ci si vedesse in uno specchio narcisistico, oggi il pericolo
grande è quello di un nascisismo individualistico che le assemblee formali o virtuali, a numero chiuso o distanti, possono produrre e di fatto producono.
In esse più che respirare insieme nel canto e nella speranza, facendo così
esperienze nuove e proprie, si potrebbero realizzare luoghi di altri specchi
narcisistici: riflessi della forma valida e del precetto autoimmune contro la fatica
e la gioia delle relazioni e del sentire di e con tutti. Questo è un pericolo
del periodo postpandemico: e l’assemblea deve vigilare.
Se prima si faceva attenzione
alle specificità delle assemblee per età, tipo di cultura, vissuto sociale,
questioni locali o ambientali, ora toccherà fare attenzione a non reificare o
barattare l’eucaristia, che dell’assemblea è la prima e ultima libertà non solo
in quanto annuncio, pane, vino donato ma perché è altare e ambone condiviso. La
condivisione esperita è sempre consumo corale eucaristico: usufruire per sé al
contrario può essere consumo mercenario, come nella musica registrata.
Se nel fare musica in casa il
fatto stesso di riunirsi indicava il costituirsi come destinatario di
un’esperienza, nell’assemblea questo atto (il riunirsi) è costitutivo
dell’identità di destinatario della Parola e dell’altare. La reazione
esperienziale alla Parola e al mistero dell’altare da parte del destinatario è
essenziale alla identità del destinatario stesso, in questo caso,
dell’assemblea. Nella condivisione e nell’intesa l’assemblea conosce se stessa.
Si noti che anche per la celebrazione della Parola il soggetto destinatario è l’assemblea
pur rimanendo la possibilità di una lecio divina personale che è altro. E
in questo periodo siamo stati chiamati a formare assemblee casalinghe che celebrassero
la Parola non che la leggessero o la studiassero come nei gruppi di riflessione
o di condivisione. Non a caso nel cuore della celebrazione della liturgia della Parola
vi è un canto comune, il salmo responsoriale: il canto fa celebrare l’assemblea
nella Parola, della Parola e con la Parola che è altro dalle sole Scritture.
Ora siamo stati e siamo davanti
al rischio di riflessioni casalinghe, comunioni spirituali, esperienze virtuali
o a numero chiuso.
Allora è giusto chiedersi: cosa
succede se prevale l’intenzione di essere interlocutore/fruitore quasi privato
di quella comunicazione che sgorga dall’ambone e dall’altare?
Il rischio è una regressione ad
una forma assembleare garantita nel minimo a numero chiuso e senza la
possibilità di esperienza comune: il pericolo è quello della forma consumistica
del rito stesso. Un’assemblea che canta con la mascherina e tocca coi guanti. E quando le assemblee hanno vissuto in passato per diversi motivi queste
dinamiche c’è stata sempre una crisi ecclesiale o dottrinale. Ben vengano le
opportunità di riflessione: ma bisogna essere vigili.
L’attenzione è alta e deve
rimanere tale perché chi canterà in assemblea coi DIP non sia così isolato da
dimenticare il corpo oltre che la bocca per cantare, per stare vicino, per
mettersi in processione. Bisogna continuare a cantare dentro l’assemblea, pur
nei 4 mq di distanziamento, per rinnovare l’esperienza della fonte della nostra
identità cristiana.
In altre parole, il destinatario della
Parola comunicata dall’ambone e dall’altare è l’assemblea e ciascuno
nell’assemblea (anche colui che ha un ruolo non solo formale di presidenza). Se
la dinamica della comune esperienza è sostituita dalla logica della fruizione
personale che si nasconde dentro al legale precetto o alla forma produttiva di
celebrazioni, il dono dell’eucaristia rischia di diventare sempre più una musica
prodotta per chi se la canta e se la suona da solo. In questa prospettiva, ahimè,
la competizione e il soggettivismo saranno il culmine della fonte.
E bisogna stare attenti perché potrebbe
sempre più intensificarsi il contrasto tra eucaristia-come-esperienza-per-il-dono
ed eucaristia-come-competizione-per-un-diritto.
Il canto comune un giorno ci condurrà
alla libertà esperita che porta al canto di gioia e di adorazione, di lode e di
preghiera. E si sa: chi canta prega due volte e non perché canta bene, ma
perché nel canto c’è un’esperienza comune, non individualistica o idealistica, un’esperienza che lega con gli altri, col prima e col dopo: un’esperienza che è insieme fonte e vertice di vita e di identità. Un’esperienza
vera di liberazione e di salvezza, di eucaristia non formale. Un’esperienza tutta da cantare.
[i] Cfr. R.M.
Schafer, Il paesaggio sonoro,
Milano 1985 (2007) [or.: The Soundscape. Our Sonic Environment and The Tuning of the
World, New York
1977].
[ii] S. Frith,
Music for Pleasure, Cambridge 1988, 12.
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