La signoria della croce
I crocifissi antichi non esprimono angoscia, spasimo o tragedia, ma calma, maestà e regalità. Sulla croce – come aveva ripetuto tante volte l’evangelista Giovanni – Gesù è glorificato, è innalzato, attira tutto a sé; in una parola: regna. La signoria di Cristo si rivela nella risurrezione, ma “poggia” sulla croce.
[Riprendo qui una meditazione che scrissi nel 2006. Rispolvero con lo stesso entusiasmo e la offro così com’è].
Umberto R. Del Giudice
Oggi risplende su tutta la Chiesa il mistero della croce: «Fulget
crucis mysterium». La liturgia ci ha proposto una certa visione della
croce; nonostante tutti gli sforzi, essa rimane una visione dolorosa che fa
leva soprattutto sui sentimenti di pentimento e di compassione. Nel momento
culminante della liturgia odierna - nell'adorazione della croce -, la croce ci
è presentata come «il legno a cui fu appeso il Cristo». Nei canti che accompagnano
il bacio della croce da parte dei fedeli (i cosiddetti improperia), Gesù
si rivolge, in modo accorato, all'uomo peccatore dicendo: «Popolo mio, che male
t'ho fatto? Che dolore t'ho dato? Rispondimi!».
E un momento altamente suggestivo della liturgia della
Chiesa; ma quando lo si ripensa alla luce della tradizione cristiana antica si
avverte un disagio; non possiamo fermarci qui, cioè al dolore, alla
compassione, e alla compunzione. Per le prime generazioni cristiane, la croce
non era tanto «il legno in cui Cristo fu appeso», quanto «il legno sul quale
Cristo regnò»: Regnavit a ligno Deus, dicevano adattando il versetto di
un salmo (cfr. Sal 96,10 in Giustino, I Apol 41,4).
I pagani non riuscirono, con il loro sarcasmo, a spingere i
cristiani a vergognarsi della croce: «Il Figlio di Dio è stato crocifisso? –esclamava
uno di loro–; non me ne vergogno, proprio perché c’è da vergognarsene»
(Tertulliano). Il nome stesso della croce - annotava nel primo secolo a.C. un autore
antico che non avrebbe potuto conosciuto Cristo – deve essere tenuto lontano
non solo dalla carne, ma anche dai pensieri, dagli occhi e dalle orecchie dei
cittadini romani; il solo discorrere di una morte da schiavi, cosi umiliante,
in presenza di persone dabbene è cosa immorale e sconveniente (Cicerone). San Paolo,
per tutta risposta, scriveva ai primi cristiani: «Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14). Da
lui, la Chiesa raccolse questo sentimento della croce vanto e lo tradusse in
mille modi. «Ogni altra azione di Cristo è motivo di vanto per la Chiesa
cattolica, ma vanto dei vanti è la croce» (Cirillo). «Osserva la gloria della
croce! – dice sant’Agostino – Essa ormai è stampata sulla fronte dei re; gli
effetti ne provano la potenza; egli ha domato il mondo non con il ferro, ma con
il legno».
I crocifissi antichi non esprimono angoscia, spasimo o
tragedia, ma calma, maestà e regalità. Sulla croce – come aveva ripetuto tante
volte l’evangelista Giovanni – Gesù è glorificato, è innalzato, attira tutto a
sé; in una parola: regna. La signoria di Cristo si rivela nella risurrezione,
ma “poggia” sulla croce. Quella dell’evangelista Giovanni è una teologia
completa del venerdì santo tracciata dal vangelo fin nell’Apocalisse: l’Agnello
vi appare ucciso e in piedi, cioè morto e risorto; con solennità divina, egli
prende il libro che nessuno poteva aprire – il libro della storia e dei destini
umani – e ne scioglie ad uno ad uno i sigilli, mentre intorno si canta a gran
voce: L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza, onore, gloria e benedizione (cfr. Ap 5,12).
Cristo penetra ormai con la potenza del suo Spirito la
Chiesa e il mondo; a tanto lo ha «innalzato» l’umiliazione e l’obbedienza della
croce (cfr. Fil 2,7ss).
Qui non si tratta più, infatti, solo del Verbo che, in
principio, era Dio e per mezzo del quale tutte le cose furono fatte (cfr. Gv
1,1s); si tratta di Gesù Cristo, del Figlio dell’uomo, del servo sofferente
(secondo l’immagine di Isaia) che, anche in quanto uomo e nuovo Adamo, ora è
Signore del cielo e della terra; non è un semplice ritorno a ciò che era «in
principio»: la croce segna una novità anche per Dio. Dio cambia per noi, si
trasforma nella sua continua possibilità di amarci nonostante noi.
Da questo possono scaturire alcune indicazioni: per questo secondo
giorno santo del Triduo pasquale:
a.
il cristiano è colui che si fa responsabile del vivere
per gli altri, in famiglia, in comunità, nella società, secondo determinazioni
di fedeltà, fortezza, pazienza e soprattutto serenità.
b.
il cristiano è colui che si immerge, si battezza,
si nasconde e al tempo stesso si vanta del dolore di Cristo.
Immergersi nel dolore di Cristo, lasciarsene compenetrare e “impressionare”,
come se ci “segnasse dentro”; ma non fermarsi ad esso.
Il dolore e rimanda alla sua forza, al suo amore, alla sua autodeterminazione
irreversibile.
E di fronte alla prova suprema che Cristo ci ama (giacché «non
c’è amore più grande che dare la vita per la persona amata»), non si può dare solo
spazio alla compassione e neppure alla compunzione. Bisogna lasciare spazio allo
stupore, alla gratitudine e alla gioia, quella vera, quella stabile, quella del
sapersi amati fino a quel punto. Una stabilità profonda che chiede chiarezza e
stabilità.
Così “Dio ha tanto amato il mondo” e “mi ha amato e ha dato
se stesso per me”, sono frasi (cfr. Gv 3,16; Gal 2,20) di forte
esclamazione, esprimono stupore e al contempo chiedono radicale stabilità e
decisione.
La compassione è un inizio. Ma non basta. Chi ama non vuole
essere compatito, ma riamato. Non vuole essere solo ammirato ma seguito.
«Sic nos amantem, quis non redamaret?», diceva san
Bonaventura, che vuol dire: “come non riamare colui che ci ha amato tanto?”.
Il culto della croce porta all’adorazione oltre il dolore; è
adorazione della potenza salvifica e dell’amore sconfinato di cui è segno.
Compassione sì: ma anche e soprattutto gratitudine, amore,
stupore, speranza. Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato
per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli
eletti di Dio? Chi ci separerà dall’amore di Cristo? In tutte le cose, compresa
la morte, noi ormai possiamo essere più che vincitori, in virtù di colui che ci
ha amati fino alla croce (cfr. Rm 8,31-37).
Davvero, risplende oggi il mistero della croce!
Ave crux, unica spes!
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