Con quale autorità? Sulle parole di Viganò
Dopo l’ultima feroce intervista, è necessario ribadire e riconoscere che mons. Carlo Maria Viganò si è posto fuori dalla comunione e non può più far uso di alcuna potestà episcopale.
Espongo il mio pensiero come se fossi il patrono (avvocato) della parte pubblica della Chiesa in un dibattimento possibile e, forse, immaginario e chiedo che sia dichiarata la sua autoesclusione dal Collegio perché non più in comunione gerarchica.
Come qualsiasi cittadino e sulle varie questioni mons. Viganò ha il diritto di dire quello che vuole, si spera confortato da argomenti lucidi, ai quali saremo ben lieti, con responsabilità e rispetto, di rispondere con la dovuta chiarezza.
Ma non può più parlare usando l'apostolica auctoritas episcopi avendo a più riprese in modo aperto abbandonato la comunione gerarchica con il successore di Pietro e con il Collegio apostolico.
[Michelangelo, Cappella sistina, Particolare: San
Pietro col volto di papa Paolo III]
Umberto Rosario Del Giudice
Ancora opinioni personali
proclamate e pubblicate come avessero peso e autorità formali. Torna oggi a
farsi sentire mons. Carlo Maria Viganò in un momento
delicatissimo per la Chiesa e per l’Italia.
Per me le sue parole non
hanno più peso né autorità: e lo spiego con delle considerazioni
offerte in modo formale e solenne che spero possano contribuire ad una pubblica
dichiarazione della Congregazione dei Vescovi e ad una presa di coscienza
ecclesiale. Non sono ostile contro le opinioni di Viganò sulla possibilità di
celebrazioni e rientro in Chiesa: il dibattito è aperto e deve esserlo ed è
giusto che ogni vescovo esponga le proprie ragioni. Ma non posso tollerare che
parli con piglio episcopale: per me ha perso ogni uso dell’autorità già
da tempo, e spiego il perché.
La parola di Viganò, non più in
comunione, è vera “violazione delle coscienze, deleteria per la salute delle
anime”.
Le Conferenze episcopali di tutto
il mondo sono impegnate, in un modo o nell’altro, nella redazione dei
protocolli per la sicurezza nelle Chiese. È un momento delicatissimo che chiede
dibattito aperto e confronto.
Nelle ultime settimane mi ha
particolarmente colpito il rialzare la voce di mons. Carlo Maria Viganò che ha
addirittura cavalcato la pandemia per attaccare papa Francesco.
Oggi un
altro suo intervento con toni apparentemente pacati, inneggia alla
libertà di culto: ma, dalle considerazioni legali (per me non
condivisibili come spiego qui
in modo non formale – ma questa è un’altra faccenda) si passa agli
attacchi alla Curia romana e si riapre il fronte di una guerra
intestina condotta con strategia “glocale”.
Dalle analisi e dai modi di mons.
Viganò è nata in me l’esigenza di proporre a tutti, e in particolar modo al
Collegio episcopale, alcune considerazioni sul suo atteggiamento
ecclesiale che sta minando la credibilità e l’unità della Chiesa ancora
una volta, e non in riferimento all’attuale questione socio-politica che vede
la CEI impegnata a redigere norme per la ripresa delle azioni liturgiche mentre
il Comitato scientifico temporeggia.
Qui, ora, non si tratta di
riflettere sulle sue dichiarazioni sulla libertà di culto ma di
prendere atto che mons. Viganò da tempo si è posto fuori della comunione
gerarchica conducendo uno scontro a campo aperto su tutti i fronti per
attaccare papa Francesco e il suo entourage.
Per questo motivo ho immaginato,
da canonista, un possibile contraddittorio in cui manifesto la mia tesi in modo
formale e “processuale”: mons. Viganò non può esercitare autorità
episcopale perché si è posto da tempo fuori dalla comunione gerarchica.
Se ci dovesse essere un processo,
Dio non voglia, e fossi il promotore di giustizia, presenterei la mia
dichiarazione finale così come qui allego. E se vi fosse la possibilità di
costituirsi “parte civile” anche nella Chiesa (cosa che in qualche modo è riservata
all’azione del promotore di giustizia), volentieri rivestirei le vesti
dell’avvocato di “parte ecclesiale” per manifestare al Collegio episcopale le
mie “animadversiones”, le mie considerazioni, circa la necessità di
prendere atto che mons. Carlo Maria Viganò, ponendosi fuori dalla comunione
gerarchica, ha perso l’uso della potestà episcopale. I suoi
attacchi sono un frontale e organico impegno alla demolizione della Chiesa: e
di questo chiedo non il risarcimento ma la restituzione della stabilità nella comunione.
Le mie considerazioni sono nate
dalla necessità di ricordare che la comunione gerarchica è un bene comune e non
è un affare dei preti o dei vescovi. Nella comunione, che non va confusa con la
sterile pacificazione o la cieca obbedienza, risiede la forza della disciplina
e della testimonianza. La comunione non è manifestazione di mero consenso
comune, è esigenza della testimonianza apostolica e origine della sua
autorità. Non a caso il vescovo di Roma era colui che presiedeva nella carità
la quale si nutre di comunione anche formale e gerarchica. Con la comunione non
si chiede ai vescovi di essere concordi su tutto: anzi. Ma la ricerca subdola
dell’attacco frontale alla Curia e a certi ambienti è la palese e continua
ricerca di strategie del “dividere” con toni aspri, irriverenti, addirittura
blasfemi, come in altri casi, per “comandare”. E questo non lo possiamo
permettere noi come Chiesa né i Vescovi come Collegio episcopale.
La comunione gerarchica consente
l’uso dell’autorità episcopale: fuori dalla comunione non c’è uso della
potestà. Ora è necessario ribadire e riconoscere che mons. Carlo Maria Viganò
si è posto fuori dalla comunione e non può più far uso di alcuna potestà
episcopale.
Come cittadino può dire quello
che vuole, se potrà, con argomenti lucidi ai quali saremo ben lieti, con
responsabilità e rispetto, di rispondere con la dovuta chiarezza.
Ecco, dunque, la mia animadversio pubblica in cui
espongo i dati, il diritto e, da questi, come si possa articolare costatazioni
giuridiche ed ecclesiali per una formale accusa.
Di seguito gli indirizzi mail a
cui è stata inviata la dichiarazione.
direzione.teologicopastorale@spc.va;
segreteria@ossrom.va; rvi@spc.va; ilsismografo.blog@gmail.com;
repubblicawww@repubblica.it; report@rai.it
___________________________________________________
CUM
E SUB PETRO:
CONTRA CAROLUM MARIAM VIGANÒ ANIMADVERSIONES PUBLICÆ
CONTRA CAROLUM MARIAM VIGANÒ ANIMADVERSIONES PUBLICÆ
FACTI
SPECIES
- Carlo
Maria Viganò, nato a Varese il 16 gennaio del 1941, è stato ordinato
presbitero nel 1968 e consacrato nel grado dell’episcopato nel 1992 col
titolo di arcivescovo di Ulpiana (Kosovo). L’Arcivescovo viene da subito impiegato
tra i ranghi della diplomazia vaticana prima come nunzio apostolico in
Nigeria poi come delegato per le Rappresentanze pontificie nella
Segreteria di Stato della Santa Sede. Dopo circa dieci anni è trasferito
all’ufficio di segretaria del Governatorato dello Stato della Città del
Vaticano soprattutto per risanare i conti in rosso. Nel 2011 è nominato
nunzio apostolico per gli Stati Uniti d’America. Nel 2016 cessa la sua
attività per raggiunti limiti di età.
- In
alcune ricostruzioni, a partire dall’agosto del 2018, l’Arcivescovo cita vicende
riferibili al caso del card. Theodore Edgar McCarrick il quale sarebbe
stato in qualche modo “redarguito” da Benedetto XVI e “coperto” da papa
Francesco: il cardinale non avrebbe osservato delle “censure” imposte;
nessuno gliene avrebbe chiesto conto, né papa Ratzinger e il suo entourage,
e, secondo la sua ricostruzione, ancor meno papa Bergoglio. Lo stesso Viganò
annota che papa Giovanni Paolo II avrebbe nominato mons. McCarrick arcivescovo
metropolita di Washington in un periodo in cui sarebbe stato “già molto
malato” lasciando intendere la non capacità di intendere e di volere del
papa Santo: correva l’anno 2000, anno in cui il papa Santo consacrava
dodici Vescovi, accoglieva Putin, canonizzava tra gli altri suor Maria
Faustina Kowalska, presiedeva le celebrazioni del Giubileo, viaggiava fino
in Terra santa. In ogni caso, mons. Viganò con un unico dossier mette
sotto accusa, direttamente o indirettamente, tre papi e i loro entourage. È
il 26 agosto del 2018 il giorno in cui l’Arcivescovo decide di rendere
pubblico, contemporaneamente in Italia e negli Stati Uniti, il dossier di undici
pagine il cui obiettivo finale è la pubblica accusa a papa Francesco per
aver coperto il card. McCarrick. Così facendo non solo mette in cattiva
luce l’operato dei precedenti due pontificati ma disegna con perspicacia
sottile un quadro pessimo della Curia romana, di ieri e, soprattutto, di
oggi. Le accuse di mons. Viganò sono apertamente ritenute false e
suscitano le reazioni di alti prelati che cercano di riportarlo a ragione
come “caro confratello”[i].
- Altre
vicende hanno contornato l’attività dell’Arcivescovo: richiamiamone
alcune. Nel 2011 inizia un carteggio pubblico circa le vicende interne
agli uffici dello Stato del Vaticano tra l’Arcivescovo, il sommo Pontefice
e il Governatorato[ii] che produrrà una
reazione decisa[iii]. Nel 2012 viene
tirato in ballo, anche se una sola volta, dal “maggiordomo” Paolo Gabriele
circa la raccolta dei documenti nel caso “Vatileaks”[iv]:
quale sia il vero collegamento tra i due non ci è dato sapere.
L’Arcivescovo è intanto nominato nunzio apostolico per gli Stati Uniti[v] a sostituzione del
defunto mons. Pietro Sambi. Sul versante personale, nel 2018 è condannato
a risarcire con quasi due milioni di euro il fratello e sacerdote
disabile, rev. Lorenzo Viganò, per aver gestito da solo i proventi dei
beni ricevuti in eredità[vi]: vicenda da cui
risulta anche che mons. Viganò avrebbe usato il motivo di assistenza al fratello
per evitare un possibile trasferimento. Altri familiari lo accusano di
aver gestito per il proprio beneficio beni a lui affidati[vii]. Di questi fatti si danno
diverse interpretazioni[viii]. Intanto le condanne
a risarcire rimangono e raccontato una verità quantomeno processuale. Non
va taciuto però il fatto che il bilancio del 2010 dello Stato Città del
Vaticano, grazie all’opera di Viganò, chiude con un attivo di circa 21.043.000
di euro sanando così in un sol colpo i deficit precedenti, calcolabili 7,8
milioni di euro per il 2009 e in 15,3 milioni per il 2008, e rilanciando
l’utile[ix].
- Oggi
però Mons. Viganò continua in esternazioni contro l’azione pastorale e il
governo di papa Francesco. All’inizio dell’anno 2020 scrive un’altra lettera
in cui denuncia legami tra il card. Sandri e il presbitero Marcial Maciel
Degollado, quest’ultimo noto per ripetuti abusi e poi condannato[x]. In ogni caso, tutte le
sue esternazioni sono accolte e pubblicate con benevolenza su siti d’ispirazione
tradizionalista[xi] o siti di soggetti a
lui molto vicini[xii] che ospitano anche lettere
che ammirano la condotta generale dell’Arcivescovo[xiii] e in cui si afferma
che “nella ricerca della verità il cristiano non può prescindere dalla
preparazione dottrinale”. Intanto l’Arcivescovo viaggia probabilmente
usando ancora un passaporto diplomatico, tentando di evitare il pubblico
riconoscimento[xiv] e promuovendo
preghiere esorcistiche per “liberare la Chiesa dai nemici”. In una delle
ultime lettere, in cui invita Vescovi e Sacerdoti a “recitare l’Esorcismo”,
l’autore afferma: «La Chiesa, Sposa dell’Agnello Immacolato, è saturata
di amarezze e inebriata di veleno da nemici scaltrissimi, che posano le
loro sacrileghe mani su tutte le cose più desiderabili. Laddove c’è la
Sede del beatissimo Pietro e la Cattedra della Verità costituita per
illuminare i popoli, lì essi hanno stabilito il trono dell’abominio e
della loro empietà, affinché colpito il pastore, fosse disperso anche il
gregge»[xv]. L’Arcivescovo
continua imperterrito nel suo intento: rilascia interviste in cui conferma
le accuse al governo di papa Francesco e ribadisce aspre critiche circa le
competenze di discernimento teologico e morale dello stesso Pontefice[xvi] anche in una
situazione che sta mettendo a dura prova la Chiesa e l’Italia[xvii].
IN
IURE
- Se
è vero che “nella ricerca della verità il cristiano non può prescindere
dalla preparazione dottrinale”, bisogna riandare brevemente all’identità
dell’ordine sacro nel grado dell’episcopato in relazione alla comunione gerarchica,
alla potestà e al suo uso. L’ordinazione episcopale costituisce il
ministro non per sostituire l’assenza del Cristo ma per manifestare la sua
presenza in una dinamica continua tra autorità e servizio. Gli elementi
che fondano l’autorità del Vescovo sono la successione apostolica,
la collegialità e la comunione. Queste tre realtà coesistono
necessariamente: non si dà l’una senza l’altra. Per questo ogni Vescovo
conserverà bene in mente e nel cuore l’imposizione delle mani che rimanda
alle prime mani, quelle degli Apostoli. Si badi: mani che sono state
imposte per la successione come per la crismazione o per gli
altri sacramenti. Da quell’imposizione tutti dipendiamo in qualche modo:
il Vescovo, nello specifico, ne ricava il mandato alla mediazione e alla
responsabilità piena e quindi all’autorità nella comunità ecclesiale
gerarchicamente strutturata.
- La
gerarchia è un servizio alla comunione e l’una e l’altra si rimandano a
vicenda per dare stabilità al cammino del Popolo di Dio. Ma poiché nessuno
è autorevole da solo, la collegialità conserva il bene della stessa
autorità: si badi che anche il Vescovo di Roma è primo su altri che lo
eleggono ma non per autoelezione. Il Romano Pontefice è capo, sì, ma di un
Collegio che lo elegge (cfr. cann. 330-331) e potrebbe essere eletto anche
se privo del carattere episcopale (cfr. can. 332): e, distinguendo tra
potestà ed elezione, appare chiaro che non è il carattere episcopale da
solo a dare autorità ma è l’autorità in quanto collegiale ad avere forza
nell’elezione. L’autorità viene dispensata nel Collegio dalla successione
apostolica e la relazione circolare Pietro/Apostoli nel Collegio è
costitutiva di tutti i Vescovi, compreso quello di Roma (cfr. can. 330)
sebbene sia unito singolarmente alla successione di Pietro in quanto capo
(cfr. can. 331). È pur vero che con la nuova disciplina senza l’ordinazione
episcopale, l’elezione creerebbe un eletto al sommo pontificato senza
potestà perché non ancora membro formale del Collegio (cfr. can. 332). Così
è normato dall’ultimo Codice. In realtà l’eletto, al momento della
consacrazione avrebbe immediatamente potestà perché entrerebbe a far parte
del Collegio il quale lo avrebbe già eletto come successore di Pietro: l’uso
della potestà gli verrebbe dall’elezione da parte del Collegio come
successore di Pietro prima ancora che dalla consacrazione episcopale. È il
nuovo Codice che lega quella potestà alla ordinazione: e questa è una
prerogativa del Legislatore. Nondimeno, la differenza tra l’elezione di
Pietro e l’elezione di un Vescovo anche in ordine alla potestà sta nel
fatto che il primo è eletto come successore di Pietro mentre i Vescovi
sono successori degli Apostoli; e questo è possibile solo attraverso il
Collegio episcopale, non in altro modo. E sebbene il pontefice sia poi
anche separabile nella potestà dal Collegio, è pur vero che nessun
pontefice può eleggersi da solo. E che la potestà venga dal far parte del
Collegio nella comunione oppure dall’essere eletto come successore di
Pietro e non dalla sola ordinazione in sé, lo testimonia il fatto che alcuni
pontefici hanno esercitato potestà piena e suprema anche senza
l’ordinazione episcopale[xviii] e solo con
l’accettazione formale della elezione a pontefice, come prevedeva il
Codice del 1917 (al can. 219: il Pontefice «legitime electus, statim ab
acceptata electione, obtinet […] plenam supremae iurisdictionis
potestatem). La stessa accettazione appare come un momento di comunione
rispetto alle intenzioni del Collegio: dopo l’accettazione si entra in
possesso della potestas Petri attendendo la consacrazione
episcopale perché si è in comunione col Collegio. Dunque, collegialità,
comunione e potestà, possono distinguersi per norma
ecclesiastica ma non distaccarsi: ogni separazione di questi elementi
diventa inadeguata.
- «Nei molti pastori c’è un solo Pastore», scriveva il Cardinale Ennio Antonelli; e proseguiva: «L’episcopato è uno, indiviso e universale come la Chiesa (cfr. San Cipriano, Lettere 66, 8, 3; Pastor gregis, 8) e agisce nelle forme della collegialità affettiva ed effettiva»[xix]. In questa collegialità affettiva ed effettiva risiedono gli elementi della autorità e della comunione: si è solidali e responsabili nell’autorità. Anzi, potremmo dire, si è responsabili in solido della vita della Chiesa: e questa è comunione ed autorità insieme, lì dove il potere è nella comunione, nei fatti e nelle parole fino al servizio della fraternità profonda nata e ritrovata nella eucaristia e nella lavanda dei piedi. Così il segno del potere lascia il posto al potere dei segni che salda le parole con i fatti, come ha testimoniato mons. Antonio Bello, da cristiano, da prete e da Vescovo. Molte, dunque, sono le doti che devono mantenere insieme questi elementi: la fedeltà, la bontà, il servizio, l’autorità ma anche l’attività pastorale e la capacità organizzativa. Elementi che vanno cuciti insieme, anzi vanno tenuti insieme senza cuciture in modo tale che la bontà sia competenza e l’azione sia fedeltà, che l’autorità sia servizio e la comunione sia mediazione: un’unica tunica di autorevolezza e di potere, di comunione e di carità. Le vesti di copertura possono anche essere stracciate, logore, divise, ma l’indumento più prossimo al corpo deve avere una sola tessitura. Così, per quanto ci possano essere errori dei singoli, e per quanto ci possano essere colpi al Collegio, la tunica episcopale deve conservare la profonda comunione e incoraggiare sempre il cammino di tutta la Chiesa e non solo del Collegio. Perché, ebbene ricordare anche questo, se è vero che c’è una profonda relazione tra Vescovo e Collegio è pur vero che ancora più profonda è la relazione tra Collegio e Chiesa, quella Chiesa fondata sulla professione di Pietro e che ha come oggetto solo il Cristo, luce delle genti. Ce lo ricorda la Costituzione Lumen gentium: «Gesù Cristo […] ha voluto che i loro successori, cioè i Vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori». I pastori sono dunque nella Chiesa e non fuori di essa. Il Collegio è tale perché responsabile e custode di una fede comune e non perché genera fede. Così ogni singolo Vescovo riceve “il ministero della comunità” (cfr. LG, 20) ma non origina la comunità che è pur sempre legata alla fede in Cristo. Se è vero, infatti, che il Vescovo deve sempre promuovere la sequela, la fraternità, la sollecitudine nella carità, è vero anche che egli non è detentore né della carità né della comunione, né della sequela, che sono al contrario legati all’opera di Cristo (cfr. LG, 7.11.14) e all’azione dello Spirito Santo che «dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli» (LG, 4). Nella Chiesa i battezzati sono coloro sui quali questi doni vengono riversati dall’origine del loro essere in Cristo: il Vescovo ha l’onere e la missione propria di custodire, consolidare, promuovere e stimolare questi doni che solo la luce delle genti, Cristo risorto, può donare. Così il Vescovo opera collegialmente “in persona Christi capitis” nella comunione della Chiesa.
- Non
si tratta dunque di una comunione solo di sentimenti: essa è anche
gerarchica perché connessa alla potestà. Senza comunione gerarchica viene
a mancare l’uso proprio della potestà episcopale. I poteri pur derivanti
dalla consacrazione episcopale non sono sufficienti ed è necessario che
«il loro esercizio si svolga nell’unità visibile del Corpo apostolico
continuato nell’episcopato. Una comunione di cuore o di sentimento non
potrebbe bastare; è necessaria una comunione gerarchica, cioè che manifesti
l’accettazione della coordinazione voluta da Cristo fra i membri del Corpo
episcopale, e della subordinazione al successore di Pietro da parte degli
altri membri del Collegio. Voler usare i poteri ricevuti con la
consacrazione al di fuori di questa comunione gerarchica, significa voler
agire contro la natura stessa di questi poteri, che sono dati da Cristo
per essere esercitati nell’unità del Collegio Apostolico; significa
dunque, mettersi al di fuori del Collegio e dunque separarsi, ipso
facto, dal Collegio […]. Si deve dunque fare distinzione tra la
funzione (munus)
e l’esercizio di questa funzione: la consacrazione conferisce le funzioni
episcopali, e quindi anche i poteri episcopali, perché siano esercitati
nella comunione gerarchica […]. Ma va notato […] che, con l’espressione
“potere di ordine”, San Tommaso intende non solo il potere di conferire i
sacramenti, ma ogni potere conferito con una consacrazione; di tale natura
è il potere episcopale di agire “in persona Christi” sulla Chiesa,
un potere di ordine che rimane perpetuamente anche se il Vescovo per
qualche ragione è stato deposto, o si è egli stesso separato con lo scisma,
benché allora ne perda l’uso, cioè il diritto di usarne»[xx]. La dottrina dunque
riconosce che perdendo la comunione ecclesiale il Vescovo perde ogni
diritto all’uso dei propri poteri che, al di là della logica sacramentale,
vuol dire non poter più esercitare in nome della Chiesa o del Collegio, a
nessun titolo. Nel cattolicesimo, ogni fedele, compreso il Vescovo, opera,
secondo il proprio munus e la propria potestas, cum Petro
et sub Petro.
IN
FACTO
- La
condotta dell’Arcivescovo Viganò non si distingue certo per discernimento,
mitezza e comunione. Appare lontano dalle virtù del sacramentum
bonitatis[xxi]. È vero: le sue
competenze sono tante sebbene qualcuno si chieda perché non si parli mai
della sua vita ecclesiale contornata da aspetti forse discutibili[xxii]. Ma va riconosciuto:
è stato un uomo capace; lodevole, forse, come un amministratore scaltro. Tuttavia,
la sua talare purpurea più che «annunciare la buona novella ai poveri, a
guarire quelli che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e
salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), sembra stropicciata da
lotte familiari, intrighi di palazzo e devozionalismo carrieristico.
Almeno solo perché quegli intrighi, se ci sono stati e in quale misura non
ci è dato saperlo, a più riprese li ha voluti rendere pubblici più per suscitare
perplessità che per informare e rendere giustizia. Le vesti di mons.
Viganò più che odorare di una porzione di popolo, quale primo liturgo del
popolo, animatore del vantaggio di tutti e promotore della sollecitudine
per tutta la Chiesa, insomma più che unte della preoccupazione per i poveri
e maltrattati, per le famiglie in difficoltà e per i disoccupati, odorano ancora
troppo, senza macchia alcuna, dell’inchiostro di appalti, concessioni,
contratti e fideiussioni. E forse ognuna di queste operazioni sarà stata
condotta anche con le meritorie intenzioni di “far cassa” o di “sanare la
cassa”: forse. Ed è anche vero che tutte quelle operazioni rientravano nei
compititi propri del suo ufficio: ma se è vero che “la Chiesa è per il
mondo, non per se stessa”, come affermava mons. Tonino Bello in una
sintesi incantevole del Concilio Vaticano II, ci si aspetterebbe che ogni Vescovo
pensasse più alla comunione ecclesiale e agli ultimi che alle trame di coorte
per destabilizzare tanto la Curia quanto i poveri di spirito magari
nascondendosi dietro a narrazioni “mitologiche”. Ma non è questo l’oggetto
delle presenti considerazioni poiché altri si sono occupati della
biografia, dei movimenti[xxiii], delle
ricostruzioni dei fatti, accuse e delazioni[xxiv].
Forse qui non è importante neanche se le lettere di presunta protesta, e
non comprovata denuncia, siano state usate o sollecitate da fazioni ultrasovraniste[xxv]. Né interessa se è
vero che quel qualcuno che avrebbe dovuto sapere e intervenire molto in
relazione ai casi denunciati dovesse essere proprio lui, in veste di Nunzio[xxvi]. All’Arcivescovo ci
preme chiedere altro: perché un uomo scaltro come lui, un uomo “di Curia”
come lui, un calcolatore esemplare come lui, non sia stato capace di formulare
altre forme di intervento e correzione, ammesso che vi sia stato davvero
bisogno di correzione in relazione ai fatti da lui riportati e nel modo in
cui li ha riportati. Ma qui non si vuole discutere sui fatti, che
attendono ulteriore chiarimento del sommo Pontefice. Il problema ora non
sono i fatti ma i modi; non è la storia della Curia ma è la condotta nell’oggi
della Chiesa che attende giustizia.
- L’Arcivescovo
Viganò ha sempre agito per avere una certa autorità: nella famiglia, nella
Chiesa, in ogni posto dove andava. La sua attitudine appare quella di chi tende
al palese riconoscimento personale. E il fatto che sapesse muovere molti
soldi forse non sarà una prova ma è un ammennicolo importante: monsignore
sapeva gestire i soldi per la propria stabilità e sapeva usare le
contrattazioni per la funzionalità delle strutture che dirigeva. È un
peccato questo? No, assolutamente. È un limite? Forse. Nella vita
ecclesiale la troppa stabilità economica e la non cura degli altri dice
scarsa sensibilità affettiva del destino altrui: e per un Vescovo questo è
oltremodo pericoloso. Insomma, muovere circa un milione di euro dall’Italia
alla Svizzera e usare quei fondi anche al di là e oltre le intenzioni di
chi è titolare o almeno contitolare di quei fondi (come attesta la
documentazione della contesa familiare) non è un precedente canonicamente
rilevante (forse) ma un precedente poco collegiale, poco attento alla
famiglia, poco rispettoso del consesso, delle relazioni. E questo è un
antecedente che molto può dire e dice. Forse non è una prova; ma è sicuramente
un’indicazione, non sullo stile di quelle contenute nelle lettere dello
stesso Arcivescovo bensì sull’esperienza di chi sa quanto sia doloroso
adire i tribunali (civili) per questioni familiari e soprattutto quanto
sia necessario amministrare come un buon padre di famiglia che cerca la
pace, la comunione e l’interesse dei congiunti, prima del proprio. Mi si
dirà: “a volte c’è bisogno di denunciare il male anche in famiglia”.
Certo! E a volte bisogna, purtroppo, davvero ricorre ai tribunali civili
le cui disposizioni possono essere ratificate anche dai Vescovi. Ma qui
non si tratta di “lavare i panni in famiglia”; stiamo affermando che chi
semina tempesta nella propria famiglia di origine, per motivi di eredità,
di controllo e di patrimonio (e che patrimonio!), non può pretendere di fare
comunione nella famiglia ecclesiale seminando ulteriore discordia con
minacce aggressive e denunce plateali. È solo un ammennicolo? Non credo. Il
suo atteggiamento è lì, sotto gli occhi di tutti.
- Si
racconta della capacità di gestione dell’Arcivescovo. Eppure i suoi modi
non sono apparsi del tutto rispettosi degli altri. Né a qualcuno va giù il
fatto che avesse ed abbia a disposizione un attico di 250 metri quadri
nelle mura Vaticane[xxvii]. In realtà però
quello che desta perplessità maggiore è il fatto di non essere sincero neanche
nelle relazioni private e di essere irrispettoso anche di quel fratello
chiamato in causa per evitare la partenza da Roma. Viganò riferì a papa Benedetto
XVI, che avrebbe voluto destinarlo “ad altra promozione”, che non poteva
andare via da Roma poiché avrebbe dovuto accudire il fratello che, invece,
non vedeva da anni[xxviii]. Santa bugia? E
tutto questo mentre l’Arcivescovo curava gli interessi di un patrimonio
comune stimato intorno ai sette milioni di euro in contanti e ai venti milioni
e mezzo in beni immobili: il modus dell’amministrazione dei beni
comuni e la sua “imprecisione” nell’usare la condizione di salute del
fratello sono saltati fuori nella sentenza con cui stato condannato a
restituire i beni sottratti[xxix]; e irrilevante che,
in un secondo momento, mons. Viganò abbia dichiarato che parte di quei
fondi servivano per finanziare missioni in Africa[xxx]. Va bene l’assistenza
e la cura, ma le faccende familiari parlano da sole. Si è davanti ad una
personalità manipolatrice, capace di tirare in ballo la sofferenza al fine
di usarla per i propri scopi: restare a Roma. Il fratello era stato
colpito da ictus negli Stati Uniti e lui diceva che doveva accudirne la
persona e gli interessi stando a Roma. E va bene anche finanziare
missioni: ma perché arrivare ai ferri corti, anzi cortissimi, con i
fratelli? Manifestazioni queste di una personalità dedita al controllo
degli altri, con o senza potere formale. Gli ammennicoli iniziano a
delineare le circostanze personali e caratteriali. E le sentenze sono lì
che raccontano almeno anni di incomprensione familiare, litigi, tensioni
nate dal controllo che mons. Viganò aveva delle persone e delle cose. Tutte
circostanze antecedenti e concomitanti.
- Non
indugiamo oltre: a mons. Carlo Maria Viganò va chiesto se le sue azioni
pubbliche ai suoi occhi appaiano davvero difesa della fede, richiamo al
cattolicesimo, scossone alla morale addormentata. Io non vedo niente del
genere. Vedo una comunione infranta e stracciata. Vedo un uomo provato dal
potere, che semina confusione e non solo perché parla male del santo Padre
(non è il primo né l’ultimo) ma perché dice senza dimostrare, parla
accusando gravemente senza neanche l’ombra ragionevole di un orpello di
fatti, evoca l’ombra del maligno in seno alla Chiesa. E che sia logorato lo
dimostra il fatto, tendendo quasi in modo naturale ad alti compiti nei
palazzi vaticani nella speranza di essere magari investito del cardinalato,
ai primi segni di chiusura, dettati probabilmente proprio dalle vicende
familiari e da altre circostanze, ha tramato per bastonare tutti senza
risparmiare colpi, senza guardare in faccia a nessuno[xxxi]: e lo ha fatto
sapendo di ricostruire fatti in modo maldestro. A quale fine? Carlo Maria
Viganò ha usato gli scandali degli abusi sessuali non solo per colpire al
cuore l’autorità morale del Pontefice e del Collegio, ma per lacerare nel
petto la comunità ecclesiale o almeno per accaparrarsi il favore di chi
già voleva e tutt’ora vuole alimentare una profonda spaccatura. Qualcuno
ha detto che un tale atteggiamento appare blasfemo (così il card. Ouellet).
E se è blasfemo per l’affettata ricerca del conflitto nei confronti
dell’autorità collegiale e petrina e ancor più empio in riferimento all’uso
ambiguo, subdolo e violento della fede e della dottrina al fine di sventrare
la Chiesa; azione ancora perpetuata al di là della dottrina stessa e della
sua interpretazione condivisa[xxxii].
- Non
che non si possa parlare, col dovuto ossequio e la dovuta parresia, o non
si debba apertamente comunicare le perplessità anche riguardo il ministero
petrino, il Collegio apostolico, le questioni di costume: ma usare i
motivi di fede per “dividere” al fine di “governare”, e farlo in modo
aggressivo e violento, è un’operazione di strategia politico-militare non di
correzione fraterna, come la comunione e l’autorità episcopale richiederebbe,
e come richiede la natura della stessa Chiesa. Non voglio un Vescovo ciecamente
obbediente; anzi credo che nessuno cerchi battezzati e ancor più consacrati
nell’ordine episcopale che non siano capaci di autorità personale generata
dalla propria donazione di vita nella Chiesa. Ogni fedele, oltre ad avere
il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (cfr. can. 212
§3), ha anche il diritto di vedere in chi esprime ed è in vestito della
piena autorità ecclesiale la capacità di parlare apertamente per la
critica costruttiva e non per la divisione faziosa. Credo che tutti i christifideles
vogliamo successori degli Apostoli che sappiano lavorare liberamente per
il bene della Chiesa e del cristianesimo e non sopportino Vescovi capaci
solo di minacce e distruzione. Ora questo mostra di essere e volere essere
mons. Carlo Maria Viganò: un uomo capace sì, ma furioso nel dividere
usando il potere con ogni mezzo fino alla simulazione formale,
sostanziale e totale della comunione anzi nel disprezzo della gerarchia e
della unione con il successore di Pietro ed il Collegio. In questo
modo si è posto fuori dalla comunione ecclesiale, fuori dal Collegio e
dallo stesso diritto di uso dell’autorità episcopale. E se è vero, come
alcuni sostengono, che «la dimissione dallo stato clericale inflitta a un
Vescovo confligge fatalmente con l’oggettiva permanenza dello stesso nel
Collegio episcopale, malgrado l’esercizio delle funzioni gli sia inibito»[xxxiii] è altrettanto vero
che lo stesso Collegio, in casu, deve prendere atto di una lacerata
comunione e, di conseguenza, di un impossibile esercizio delle funzioni e
delle potestà episcopali.
- Per
tale motivo è urgente non solo manifestare il sostegno al Pontefice[xxxiv] ma anche riconoscere
che mons. Viganò non può più esercitare l’autorità dei successori degli Apostoli:
egli a più riprese opera per la divisione contro il Pontefice e contro il
Collegio episcopale. E poiché «uno è costituito membro del corpo
episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione
gerarchica col capo del Collegio e con le sue membra» (LG, 22), ha
già perso, direi latæ sententiæ,
l’uso dei poteri episcopali e l’autorità che ne deriva, venendo meno proprio
la comunione gerarchica. Per questo, ex can. 375 §2, chiedo che Carlo
Maria Viganò sia raggiunto, privatamente o pubblicamente, da dichiarazione
disciplinare che gli notifichi l’impossibilità ad ogni titolo di
esercitare i tria munera connessi a qualsiasi grado dell’ordine
sacro e sia deposto da Vescovo titolare della Diocesi di Ulpiana (ex can.
376). Diocesi che sopravvive solo per mantenere il “titulus iuridicus”
ma sine portione populi Dei, ovvero senza quella porzione di popolo
di Dio che la renderebbe Chiesa particolare (cfr. LG, 23). Se mons.
Viganò non ritratta la sua posizione, nessuno, né i fedeli che sta
confondendo né quella porzione di popolo inesistente della Diocesi viva
solo nel titolo, sentirà la sua mancanza come pastore, anche se dovesse
conservare l’attico di 250 metri quadrati.
His præmissis, infrascriptus partis christifidelium patronus, petit, publice, ut Vos, Ecc.mi ac Rev.mi Patres Episcopi, dubio proposito respondere velitis ad normam
can. 375 §2 affirmative seu constare de episcopi munus nulla facultas in casu ex capite sinulationis totalis communionis atque gravis separationis ab hierarchica communione.
Neapolis, 29 mensis Aprilis 2020
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Maxima Reverentia
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In
festo Sanctæ Catharinæ
senensis
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Humbertus Rosarius Del Giudice
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Defensor vinculi publicus pro
portione christifidelium
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NOTE
[xvii] Le
sue considerazioni si oggi, 29 aprile, sono pubblicate su vari siti, tra cui si
veda: https://www.marcotosatti.com/2020/04/29/intervista-a-vigano-conte-delirio-di-onnipotenza-indecoroso-e-illegale/
[xviii] Cfr.
L. Chiappetta, Il Codice di
diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, 448, nota 2.
[xx] Cfr. J.
Lécuyer, L’Episcopato come
Sacramento, in G. Baraúna (cur.),
La Chiesa del Vaticano II, Firenze, 1965, p. 723-724.
[xxi] Cfr. Congregazione per i Vescovi, Direttorio
per il ministero pastorale dei Vescovi “Apostolorum successores”, 22
febbraio 2004, Città del Vaticano 2004, 2.
[xxxiii] G. Sciacca, Note sulla dimissione del
Vescovo dallo stato clericale, in Jus- Online (2/2019), 10.
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