Se regge la duplice natura del potere ecclesiastico: potestà dominativa o carisma battesimale?
La nomina di sr Simona Brambilla ha rilanciato il dibattito sull’essenza della potestà nella Chiesa: come (ri-)pensare la potestas?
Umberto Rosario Del Giudice
Il 6 gennaio scorso, è stata pubblicata la nomina
a Prefetto di Suor Simona Brambilla già Segretario del medesimo Dicastero per
gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.
La nomina ha
suscitato varie reazioni e ha amplificato l’attenzione su alcuni elementi. La
sintesi circa le varie questioni aperte è offerta sul
blog di Andrea Grillo il quale, per ora, appare tra i pochi che tematizzano
le argomentazioni dei profili giuridici anche sotto il profilo
sistematico-teologico (rimando anche agli approcci di Severino Dianich e Serena
Noceti).
La notizia
che colpisce la “vulgata” è che una “donna” sia a capo di un Dicastero.
Tuttavia,
questa “news” rimanda a ben altre questioni le quali, se analizzate, rendono opaca
la novità della notizia.
Provo a sintetizzare
alcuni rimandi.
Dalla notizia divulgata alla questione sistematica
Molti hanno salutato con grande entusiasmo la nomina di sr Brambilla e non c’è dubbio che essa segni un punto importante nella storia della Chiesa. Tra l’altro chi ha avuto a che fare con gli Uffici del Dicastero non può non riconoscere la competenza di sr Simona.
Va tuttavia
distinta la struttura di governo con la governabilità ecclesiale.
Se il governo è possibile con una potestà (propria, vicaria,
delegata…) bisogna chiedersi se la dottrina sottostante risulti efficace e sostenibile
per la riflessione teologica e per la governabilità.
In altre
parole, bisogna distinguere la dottrina circa la potestas dalla efficacia
di tale dottrina per la pratica della governabilità nel quadro di una
sistematica teologica sostenibile.
Perché vi
sia governabilità c’è bisogno che la dottrina segua la riflessione teologica su
alcuni aspetti. La governabilità richiede chiarezza e efficacia.
Ma non si
può guidare un’auto ibrida col sistema e con la tecnologia del cambio manuale.
Se oggi apprezziamo il motore elettrico, e lo cerchiamo per varie circostanze e
necessità, non potremo esigere il cambio manuale: le due tecnologie offrono range
diversi tra distribuzione, giri e velocità, tanto da dettare la natura del
cambio.
Fuor di
metafora: un sistema dottrinale circa la potestà, pensato in una certa
epoca e per risolvere problemi determinati, può continuare a sussistere quando
la dottrina parla (o inizia a parlare) in modo diverso della “potestas”?
“Donna” o “laica”?
In relazione alla “prima donna capo di Dicastero” proviamo alcune chiarificazioni rispetto alle notizie e alle opinioni diffuse.
Le questioni
che emergono mi sembrano essere due:
1. da una parte, quale sia la “potestà” (e quindi la novità) del neo-Prefetto;
2. dall’altra, se la capacità di governare “risolva” (ovvero, sciolga, annulli…) la questione del “sacerdozio aperto anche alle donne”.
Dichiaro subito che la potestà partecipata da una donna non annulla o non invalida assolutamente la questione della possibilità dell’apertura dell’ordine sacro al genere femminile. Non c’è nessuna continuità per le due questioni. Qui non si tratta di elargire la possibilità di una potestà partecipata per “disinnescare” la questione (tutta sistematica) dell’accesso o meno delle donne all’ordine sacro.
Appaiono
quanto mai “sciape” quelle argomentazioni che con la condivisione della
partecipazione alla potestà (di “una” potestà) vedrebbero “risolte” le
questioni sistematiche relative al sacerdozio o al diaconato per le donne. Se
così fosse, tutto l’ordine sacro sarebbe ridotto (teologicamente) al solo esercizio
del potere di governo. Ma l’identità dei ministri e la loro missione rendono la
natura dell’ordine sacro ben più articolata di un semplice esercizio di potestà
(amministrativistica).
E che
l’ordine sacro abbia bisogno di un ulteriore riflessione che chiarisca indole,
natura, finalità, carisma, appare chiaro a molti sistematici.
In ogni
caso, non è certo delegando potestà alla donna (e laica) che si risolve la
questione sistematica del profilo e della natura e della “sostanza” dell’ordine
sacro pensandolo in una “riserva maschile”.
Sotto questo
profilo nessun teologo e nessun canonista può ridurre l’ordine all’esercizio di
un potere sic et simpliciter. Ovvero, non lo può più fare; ma è stato fatto
in passato. E la dottrina prevalente circa la potestà deriva da una risposta
precisa e storica.
Oggi pensando
all’ordine sacro si è rimandati alla “potestà”. Qui però le cose si complicano
poiché i canonisti sanno molto bene che (secondo l’interpretazione dottrinale
canonistica) la potestà ha molteplici forme: può essere “sacra”, “propria”,
“vicaria”, “delegata”…
In questo
schema quella di sr Brambilla appare una potestà pontificia (perché
propria di un Dicastero della Curia romana), giurisdizionale (perché
l’oggetto della potestà – il governo degli IVC e le SVA – è funzione propria
amministrativa ed esige l’esercizio di tale potestà), vicaria (perché
subalterni del Sommo pontefice e legato ad esso per diritto ecclesiastico – non
divino) e imperfetta (perché, sebbene di carattere pubblico essa è priva
della pienezza della triplice funzione).
In altre parole, l’attuale dottrina prevalente della “potestà” ha una doppia comprensione (divina e canonica) e una triplice funzionalità (insegnare, santificare, governare). Ma la “doppia potestà” (divina e canonica) è servita per emancipare la “potestas” dal “pater familias” riconducendola prima alla potestas dominativa e poi a quella petrina (teologizzando il sistema romano della potestà).
Ma poi il
Concilio Vaticano II ha scelto (con determinazione sebbene con non poche
ambiguità) di ricondurre la potestà anche alla triplice funzione di insegnare,
santificare, governare radicate nel battesimo e che appaiono
nella loro pienezza nell’episcopato.
In dottrina,
mettere insieme potestà (di governo e di giurisdizione) e funzioni è il modo
(oggi) di coniugare i frutti di una tradizione lunghissima: da una parte la
distinzione tra origine della potestà (divina o ecclesiastica, di governo o di
giurisdizione); dall’altra la possibilità di ricondurre tutte le funzioni radicate
nel battesimo ad una “pienezza” di ordine. Va ribadito che quest’ultima
operazione è stata possibile grazie al Concilio Vaticano II che ha ripensato interamente
l’episcopato come “sacramentale” e come “pienezza” della potestà che include le
tre funzioni (i tria munera). Tale asserzione ha suscitato non poche
perplessità e la frase «la consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio
di santificare, gli uffici di insegnare e governare» (LG 21) ha smosso varie critiche.
Al di là della questione di merito, si evince che già per i padri conciliari non
era semplice mettere insieme la dottrina sulla potestà e quella dei tria
munera. Ma il Concilio non doveva elaborare una teologia ma dare indicazioni
dottrinali.
Qui poi un’altra
questione: potestà e laici.
Che la
potestà possa essere “partecipata” anche a “laici”, questa è una possibilità richiamata dal can. 129 §2 che si limita a
ricordare che “i fedeli laici possono cooperare” all’esercizio della “potestà di
governo”. In questo caso il rimando non è alla “potestà sacra” (quella, per
capirci, che sarebbe trasmessa con l’ordinazione) ma alla “potestà di governo”
che può avere (secondo quanto dispone il diritto ecclesiastico – leggi “papa”)
una origine “ecclesiastica” non “divina”. Sebbene alcuni autori non concordino
sulla natura della “cooperazione” è chiaro che essa può essere solo relativa e “imperfetta”.
La trasmissione della potestà sacra (ovvero “potestà di ordine” per diritto
divino) è legata alla ordinazione ed è per questo “sacramentale” per questo non
è “delegabile” (per fare un esempio, un prete non può delegare un laico per
presiedere l’eucaristia). L’atto della consacrazione conferisce potestà sacra e
funzioni (munera) e la potestà di esercizio: tuttavia, i munera sono
vincolati all’ammissione all’esercizio (esempio classico, la potestà di
assolvere quale facoltà sottoposta alla concessione dell’Ordinario del luogo). Si
noti che in questo schema la “sacramentalità” è mediata dalla ordinazione
presbiterale che da sola porrebbe un nuovo ordine ontologico. Nello schema dei tria
munera la sacramentalità appare come racchiusa tra battesimo ed episcopato, come tra compito e pienezza.
Ma, secondo
la dottrina preconciliare della doppia potestà (in linea con la visione ontologica
della ordinazione presbiterale), la potestà di giurisdizione “non è
sacramentale” poiché è originata dal diritto ecclesiastico.
Ma questo
assetto non si coniuga perfettamente con la dottrina dei munera che
radica nel battesimo ogni dignità e nell’episcopato la pienezza dell’esercizio
dei munera (sebbene in piena comunione gerarchica col papa e mai senza
il papa). Ne consegue che un Prefetto di Dicastero, sebbene non ordinato, per
la dottrina della doppia potestà rimane “imperfetto”; per quella dei munera potrebbe
esercitare il munus regendi in modo vicario ma propria, sebbene senza la
pienezza derivante dalla ordinazione presbiterale; basterebbe il rimando alla dignità
battesimale. Tuttavia, oggi, la neo-Capo del Dicastero esercita la potestà grazie
al potere giurisdizionale concessole dal papa ma senza pienezza perché
vincolata alla visione della potestà amministrativistica e all’ordinazione-ontologizzante
presbiterale.
Questa, si
noti bene, è una questione che non riguarda il binomio uomini/donne, ma rimanda alla
relazione chierici/laici.
Potestà ontologica e carismi battesimali
Spero che il
lettore abbia seguito il breve e solo esemplare percorso suesposto da cui si
comprende, come è evidente, che il tentativo di salvaguardare la dottrina
canonistica della potestà (divina, umana, propria, vicaria, delegata…) si scontra
ormai con la centralità dei tria munera e con la loro fonte (battesimo)
e pienezza di esercizio (episcopato). E spero che sia chiaro che la novità non
è certo che sia una “donna” ad essere capo di Dicastero.
Il vero nodo
è come fare in modo che una “laica” (o un laico) possa esercitare, nel pieno
delle sue facoltà, l’autorità e la potestà di governo al pari di un “chierico-sacerdote”
(presbitero o vescovo). La natura delle cose oggi chiederebbe che il motore
elettrico dei tria munera non abbia più il cambio manuale della potestà
pensata solo in senso amministrativistico sebbene legato alla ordinazione.
La pienezza
sacramentale della potestà e delle sue funzioni (tria munera) concessa
nella ordinazione episcopale rimanda alla possibilità sacramentale dell’esercizio
di uno o più munus che però è radicato nel battesimo, ed è proprio ed
esercitato in comunione gerarchica.
In altre
parole, l’impianto sistematico teologico dei tria munera chiederebbe uno
spazio diverso da quello che attualmente è compreso nelle strette maglie di una
dottrina canonistica sulla potestà che assomiglia più ad una complessa forma di
diritto amministrativistico ecclesiastico che alla profezia conciliare della
condivisione dei carismi (e quindi degli uffici) a partire dal battesimo.
Appare così
che la nomina di una donna a capo di un Dicastero non è frutto di una novità
sistematica conciliare ma la possibilità concessa da una dottrina canonistica
(amministrativistica) pre-conciliare.
Ergo, unde novitas?
L’unica
novità che appare è “l’ammissione pubblica” che un laico è capace di potestà di
governo (sebbene solo come cooperazione e in subordine di natura “imperfetta”).
Che questo “laico” sia “di genere femminile” è un ulteriore prova della
ammissione della Chiesa che una donna è capace di autorità (e questo rimanda ad
altri aspetti).
Che una “laica”
cooperi, è una “novità” nella prassi; ma non smuove la “dottrina”.
Sarebbe una
novità se alla “laica” fosse riconosciuto l’esercizio della potestà di
governare (munus regendi) a partire dal battesimo e nella piena comunione
gerarchica. In questo modo si rispetterebbe il principio conciliare della radice
sacramentale delle funzioni ecclesiali e non quello della divisione di
origine amministrativistica delle forme di potestà.
Tutto questo
sembra raccontare da una parte il passo in avanti della bella notizia di una
donna a capo di un Dicastero; dall’altra la staticità della dottrina
canonistica che appare, ahinoi, sempre più intoccabile e ferrea nel suo
pensarsi più nelle forme amministrativistiche (romane) e ontologiche che in
quelle simbolico-sacramentali e, direi, ecclesiali-sinodali (in senso etimologico).
Una struttura
ibrida che non regge più il cambio manuale della potestà dominativa.
Io ritengo che non si abbia sufficiente coscienza di quanto il paradigma clericalista (che ha condizionato e condizione ancora dottrina e norme canoniche) eserciti la sua influenza nelle nostra narrazioni e nelle nostre narrazioni e nella nostra cultura ecclesiale. Continuiamo a girare intorno alla questione della protesta ordinis, della dottrina sull'identità dei preti, di come conciliare il portato di una ingombrante tradizione con le esigenze sempre nuove del Vangelo. E sprechiamo enormi energie per far stare inpiedi dei sacchi che sono vuoti. Energie che invece dovrebbero essere destinate ad una più convinta riforma della chiesa. Una riforma innanzitutto dottrinale. Una riforma che incarni la dimensione di laicità che il clericalismo ha soppresso e che dovrebbe essere la bussola di ogni innovazione. Come si vorrebbe combattere il devastante clericalismo se non intervenendo coraggiosamente sulle cause storiche e dottrinali che lo hanno prodotto e che (se non rimosse) continuano ad alimentarlo ? La ormai ineludibile declericalizzazione non può essere perseguita con funambolismi verbali e con aggiustamenti formali. Dottrina e codice canonico devono essere sottoposti ad una vigorosa rifondazione sulla base della laicità dei Gesù e del Suo Vangelo. Ogni altro percorso rischia di essere autoreferenziale e rischia di annacquare nel tempo ogni urgenza ed ogni anelito evangelico. Lo Spirito non cessa di ricostruire la Sua chiesaa, ma noi abbiamo la responsabilità di cogliere i segni dei tempi e di renderci docili alla Sua azione creatrice.
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